Gente
mia,
ecco
qui una nuova storia, si spera per il vostro sollazzo. Mi scuso fin
d’ora con l’eventuale lettore perché è lunga come l’anno
della fame. Normalmente l’avrei divisa in due capitoli, ma il
contest mi richiede una oneshot.
In
ogni caso, spero che chi passa la trovi piacevole. C’è qualche
accenno di slash, ma niente che possa infastidire i non estimatori
dell’argomento.
Buona
lettura!^^
COME
I GABBIANI
Atlantico settentrionale, 20
marzo 1941, ore 10.00
La pioggia scrosciava da ore, il
vento era un ululato rabbioso che copriva ogni altro suono. Nel cielo
cupo baluginò un lampo.
La prua della Graf Luckner si
immerse completamente in un delirio di onde furiose. Ne riemerse
subito dopo, avvolta da una nube di spuma bianca. S'impennò, si
scosse e di nuovo ripiombò giù, scomparendo tra immani muri
d'acqua, poi balzò fuori, ancora una volta seminascosta dalla
schiuma, con fiotti che sgrondavano dagli ombrinali e torrenti
biancastri che si inseguivano sulla coperta.
Il tenente di vascello Reinhardt
von Scheven si puntellò per mantenere l'equilibrio e guardò fuori
da un oblò del quadrato ufficiali: il rollio portò l'incrociatore a
inclinarsi fino a che il finestrino fu completamente occupato da un
frenetico ribollire d'acqua color ferro, poi la visuale scorse di
nuovo verso l'alto, fino a rivelare un cielo basso e pesante, a
tratti rischiarato dal bagliore livido dei fulmini.
Una sventagliata di grandine
crepitò contro il vetro.
“Maledizione,” ringhiò il
giovane ufficiale, facendosi indietro come se i chicchi di ghiaccio
avessero potuto colpirlo. Un nuovo beccheggio della nave lo costrinse
a puntellarsi ulteriormente.
Un armadietto si aprì, carte e
strumenti nautici precipitarono sul pavimento e cominciarono a
rotolare su e giù seguendo i movimenti dell'incrociatore. Un
guardiamarina si chinò per raccogliere gli oggetti, ma perse
l'equilibrio e cadde malamente, finendo a rotolare a sua volta sul
pavimento.
Gli occhi sempre fissi sulla
tempesta, il tenente di vascello chiese: “Abbiamo l'ultimo
bollettino meteo?”
Alle sue spalle, un parigrado
rispose: “Il bollettino è sempre quello. Con tutte le volte che
l'hai letto, ormai lo saprai a memoria come il Pater Noster.”
L'altro si voltò a fissarlo,
fece per dire qualcosa poi tornò a guardare fuori. Strinse i denti:
spinte dal vento di burrasca, le cateratte di pioggia si abbattevano
come nugoli di dardi. Le onde erano un'indistinta massa d'acqua cupa,
che sotto le folgori s'accendeva di fugaci trasparenze verdi e
azzurre.
“Pensi che migliorerà?”
chiese, senza staccare gli occhi dall'infuriare della tempesta.
Alle sue spalle, l'altro rispose:
“Se una cosa così non migliora, è segno che la fine del mondo è
vicina.”
“Non fare lo spiritoso,”
protestò in tono tagliente von Scheven.
“Era solo una battuta.”
Si udì lo scroscio di altri
oggetti che crollavano al suolo, poi l'imprecazione soffocata di
qualcuno. La voce da ragazzino del guardiamarina Oberbeck balbettò:
“Mi scusi, signore.”
“Lei è un impiastro!” giunse
l'irosa risposta, probabilmente proferita dal capitano Adler.
“Mi scusi, signore,” ripeté
concitato il giovanotto, “provvedo subito.”
Von Scheven manteneva lo sguardo
fisso all'esterno. “Non ti pare che stia calando il vento?”
chiese a un certo punto. Si morse il labbro inferiore. Trasse di
tasca una moneta e prese a farsela passare nervosamente fra le dita.
Il collega lo raggiunse e si
fermò al suo fianco. Per un po' rimase a guardare fuori, poi
rispose: “È difficile capirlo, con questo casino. Non c'è un'onda
che vada per il verso giusto.”
“Ma bisogna agire.”
“Con un mare forza 10?
Ringrazia che la Graf Luckner è un bel pezzo di incrociatore, ben
zavorrato e con le corazzature al posto giusto, altrimenti staremmo
tutti recitando le ultime preghiere.”
“Bisogna fare qualcosa.”
L'altro sospirò con fare
esasperato. “Che fine ha fatto la tua ragionevolezza?” replicò.
“Ti pare che si possa calare in acqua una lancia con onde di tre
metri e il vento a cinquanta nodi?”
A quelle parole, von Scheven
ingobbì le spalle come se gli fosse appena caduto un peso fra capo e
collo. Di nuovo fissò lo sguardo all'esterno, cercando di
distinguere qualcosa fra i rivoli di pioggia che scorrevano sul
vetro, poi disse: “Gli inglesi stanno arrivando, Franz.”
“Nemmeno loro possono fare gran
che, con un tempo del genere.”
“Ma se arrivano prima di
noi...”
“È la guerra, Reinhardt, lo
sai anche tu. Purtroppo queste cose succedono e non si può fare
niente per impedirle.”
L'altro aggrottò le sopracciglia
e in tono duro replicò: “E invece si può fare molto.”
“Non con questo mare,
dannazione,” replicò il collega esasperato. “Guarda fuori:
quante volte l'hai vista una tempesta così?”
“Non molte,” ammise von
Scheven con un sospiro.
“E allora ti sei dato la
risposta da solo. Non possiamo fare altro che aspettare.”
Fra i due calò un silenzio rotto
solo dal pulsare regolare dei motori e dall'ululato cupo del vento.
Un'ondata particolarmente violenta si abbatté sul ponte di coperta,
che per un paio di secondi scomparve sotto uno strato di schiuma
bianca, poi la prora si sollevò nuovamente e l'acqua sgrondò via in
torrenti spumosi.
Inclinandosi istintivamente per
contrastare il movimento della nave, von Scheven si staccò dal
finestrino. Rimise in tasca la moneta che fino a quel momento aveva
tormentato fra le dita e fissò i colleghi presenti in plancia, ma
nessuno sembrava condividere il suo penoso stato d'animo. Tutti erano
assorti nei loro compiti. Persino Oberbeck, che finalmente era
riuscito a recuperare tutto ciò che era volato fuori
dall'armadietto, sedeva al tavolo delle mappe, impegnato nella
stesura di una rotta lossodromica.
Il tenente si avvicinò alle
strumentazioni di bordo, ma non riuscì a leggervi altro che una
conferma di ciò che si vedeva attraverso i vetri del quadrato.
“Abbiamo un meteo?” chiese.
Il sottufficiale marconista
abbandonò le cuffie e gli rispose: “L'ultimo è quello che le ho
dato poco fa, signore.”
“Comunicazioni?”
“Silenzio radio,
signore.”
Von Scheven percepì su di sé lo
sguardo inquisitore del suo parigrado Reese, ma evitò di voltarsi
verso di lui.
Si diresse invece verso la stanza
del comandante.
Il capitano di fregata Gehlbach
fissò il giovane tenente di vascello, che faceva del suo meglio per
rimanere sull'attenti di fronte a lui nonostante il potente rollio.
Lo conosceva come un buon ufficiale, scrupoloso e preparato. Uno che
non si agitava per un nonnulla.
“C'è qualche problema?” gli
chiese quindi, già paventando danni alle strutture della nave.
“Nossignore,” rispose von
Scheven, “tutto nella norma.” Un beccheggio particolarmente
violento lo costrinse a fare un passo avanti per mantenere
l'equilibrio. Subito dopo si ricompose e ripeté: “Tutto nella
norma, signore.”
Gelbach aggrottò appena le
sopracciglia. “E quindi?” chiese perplesso. “Che cosa fa qui,
tenente, se non ha nulla di particolare da segnalarmi?”
Il più giovane strinse le
labbra, una ruga verticale gli si scavò tra le sopracciglia. Infine
disse: “Le chiedo il permesso di uscire con una lancia, signore.”
Il comandante lasciò passare
qualche secondo di attonito silenzio, poi domandò: “Prego?”
Caparbio, il giovane ripeté: “Le
chiedo il permesso di uscire con una lancia, signore.”
Gehlbach indurì lo sguardo. Pose
le mani una sull'altra sul piano della scrivania, quindi lapidario
rispose: “È escluso.”
“Signore...”
“Nessuna lancia esce con una
tempesta del genere,” proseguì con voce tagliente l'ufficiale. “Le
lance usciranno quando le condizioni meteorologiche conferiranno alla
missione un margine di sicurezza ragionevole. Fino a quel momento,
possiamo solo incrociare intorno a Steineyja mantenendoci al largo.”
Il tenente rimase sull'attenti,
immobile quanto i movimenti della nave gli consentivano.
Fu Gehlbach che dopo alcuni
secondi gli chiese: “C'è altro, tenente?”
Lo sguardo fisso davanti a sé,
un'espressione caparbia sul volto liscio, von Scheven ripeté:
“Signore, mi offro volontario per comandare la missione.”
“Ha tutta questa voglia di
morire in modo stupido, tenente?”
Un tuono rimbombò cupo, facendo
addirittura vibrare il pavimento. Il baluginare di un lampo spedì
lame di luce violacea sulle pareti.
“Siamo in guerra, signore.
Morire fa parte delle eventualità che si possono presentare ogni
giorno.”
Il comandante annuì grave, poi
aggrottò le sopracciglia e senza neppure alzare la voce, lentamente
replicò: “Le darei ragione, tenente, se si parlasse di cadere in
qualche azione che avesse un'utilità per la condotta bellica. Ma
così la Graf Luckner perderebbe un buon ufficiale, un equipaggio e
una lancia per una missione senza alcun senso.”
Il tenente si irrigidì
impercettibilmente, il suo sguardo si incupì. “Stanno arrivando
gli inglesi,” ribatté, “è necessario agire subito.”
“Le
condizioni meteorologiche al momento non lo consentono,” fu la
lapidaria risposta.
“Ma signore...”
“Si ritenga congedato,
tenente.”
Il tenente Reese vide ricomparire
in plancia von Scheven. Il collega aveva di nuovo fra le dita la
moneta, che sotto le luci mandava bagliori argentati a ogni
movimento.
Appesantita da fradici fiocchi di
neve, la pioggia lasciava tracce umide sui vetri. Sulla coperta la
spuma continuava a ribollire, il vento teso ululava.
Per quanto fosse ormai tarda
mattinata, la luce era quella del crepuscolo.
Gli si avvicinò. Von Scheven
appariva teso, preoccupato. La moneta gli sfuggì di mano, cadde
tintinnando. “Maledizione,” ringhiò l'ufficiale fra i denti. Si
chinò per raccoglierla, ma l'altro lo precedette, afferrandola prima
che scomparisse nella fessura tra due pannelli della pavimentazione.
Si trovarono chinati uno di fronte all'altro, occhi negli occhi.
“Ecco, tieni,” disse Reese
porgendo all'altro il marco.
“Grazie.”
“Non l'avevo mai vista cadere
prima d'ora, di solito sembra incollata alla tua mano.”
“Mi è sfuggita.”
I due si rialzarono in piedi, von
Scheven volse di nuovo lo sguardo all'esterno. Emise un sospiro e
chiese: “Tu credi che una lancia non riuscirebbe a tenere questo
mare?”
“Sei matto?” fu l'eloquente
risposta di Reese.
“Tagliando le onde con la prua,
forse...”
“Ma di che onde parli? Sembra
l'interno di una lavatrice impazzita, ti rovesceresti prima ancora di
aver infilato i remi negli scalmi.”
“Ma almeno avrei provato a
salvarli.”
“Certo, facendo la fine del
topo senza ottenere nulla.” Detto questo, Reese gli mise una mano
sulla spalla e disse: “Lo so che è penoso, Reinhardt, anch'io
soffro al pensiero dei camerati dell'U-104, ma uscire in queste
condizioni sarebbe un sacrificio inutile, moriresti senza riuscire a
fare niente per loro.”
“Il comandante e altri uomini
sono feriti, hanno bisogno d'aiuto. Non resisteranno a lungo, con
questo tempo.”
“Me ne rendo conto,” replicò
l'altro, “Ma devi anche capire il Vecchio[1]: quello che vuoi fare
non ha senso.”
“In più stanno arrivando gli
inglesi. Li cattureranno, li interrogheranno. Li terranno prigionieri
fino alla fine della guerra.”
Reese a quel punto si girò a
fronteggiarlo. Lo prese per le spalle e lentamente, scandendo bene le
parole, disse: “Non possiamo fare niente, Reinhardt. Possiamo solo
aspettare che il tempo migliori un po', e tu lo sai bene, perché non
sono due giorni che vai per mare.”
§
Atlantico settentrionale,
isola di Steineyja, 20 marzo 1941, ore 12.00
Investito dalle ondate, grondante
rivoli di spuma, il relitto del sommergibile sulla spiaggia sassosa
sembrava un lungo corpo di squalo. Giaceva sdraiato su un fianco, il
portello della falsatorre aperto, sulla carena uno squarcio che
metteva a nudo un intrico di tubi e longheroni. L'acqua sgrondava
dentro quella cupa voragine creando un lugubre gorgoglio.
Poco lontano, alla sommità di
una gobba di terra coperta d’erba rada, si trovava quello che
rimaneva di una vecchia stazione meteorologica. L'abitazione era
diroccata, il traliccio di ferro che aveva ospitato gli strumenti per
le rilevazioni era ormai consumato dalla ruggine. Di tutti gli
apparecchi rimaneva solo un vecchio anemometro, le cui coppette
bianche frullavano come impazzite.
Un marinaio uscì carponi dalla
falsatorre dell'U-Boot, si tolse la maschera antigas e si strinse
addosso una cerata, poi si mise sottobraccio una valigia
contrassegnata da una croce rossa in campo bianco.
Subito dopo ne sgusciarono fuori
altri due, che portavano involti fatti con delle coperte unite per i
quattro angoli. Anch’essi si liberarono con sollievo dei
respiratori.
Flagellati dai furiosi scrosci di
pioggia, barcollando sotto le raffiche di vento, tutti spiccarono la
corsa verso il fatiscente edificio.
Il tenente di vascello Hans
Lindenmeyer, comandante dell'U-104, lottava per mantenere la
lucidità. Lo assalì una fitta di dolore così intensa da mozzargli
il respiro. Incrociò lo sguardo stranito del marinaio Küsel e si
sforzò di stringere i denti.
Sapeva che tutti stavano
guardando lui, come avevano fatto tante volte nelle battaglie e nelle
mille difficoltà che si erano trovati a superare, e non voleva che
gli uomini si perdessero d'animo vedendolo sofferente.
Un'altra fitta lo obbligò a
stringere i denti con tale forza che li sentì scricchiolare. Rimase
immobile per qualche secondo, poi riuscì a emettere il fiato che
aveva trattenuto. Küsel lo stava ancora fissando. Era un ragazzetto
piccolo, con la faccia da coniglio. A occhio e croce non doveva avere
più di diciotto anni. “Come stai, marinaio?” gli chiese,
cercando di avere un tono rassicurante.
Il ragazzo sbatté gli occhi,
istintivamente raddrizzò la schiena. “Io... bene, signore,”
rispose subito, anche se probabilmente, infreddolito e impaurito
com'era, stava decisamente male.
Lindenmeyer cercò di abbozzare
un pallido sorriso. “Bravo, marinaio,” mormorò. Abbassò adagio
le palpebre.
Una mano gli si posò sulla
fronte, si rese conto che qualcuno gli stava aggiustando le
fasciature. Riaprì gli occhi e vide chino su di lui il capo
ingegnere Fersch. “Come va, signore?” chiese l'ufficiale,
fissandolo serio.
“Dove sono ferito?” chiese
Lindenmeyer.
“Non è niente, signore,”
rispose l'altro.
Il comandante non replicò. Aveva
riconosciuto la classica balla pietosa che si dice ai moribondi, ma
coglieva anche gli sguardi che da ogni parte del misero abituro erano
puntati su di lui. I suoi uomini dovevano mantenere il morale alto,
era fondamentale che non si facessero prendere dalla disperazione. Di
nuovo si sforzò di stirare le labbra in un sorriso e rispose: “Mi
fa piacere saperlo, vorrà dire che appena usciremo di qui
trascorrerò una bella licenza in Germania.” Si interruppe per
rintuzzare un'altra fitta di dolore, quindi aggiunse: “Non è così,
Fersch?”
“Certo, signore,” si affrettò
a rispondere il direttore di macchina. “Ora però deve riposare un
po', signore.”
Lindenmeyer sentì che l'altro
gli aggiustava addosso le poche coperte che avevano recuperato. La
stoffa era umida e aveva un vago sentore di muffa, ma ormai, a forza
di stare a bordo dei sommergibili, aveva fatto l'abitudine a entrambe
le cose. Si rese conto di trovarle addirittura rassicuranti, in
qualche modo.
Cercò di recuperare e mettere in
fila gli ultimi ricordi che aveva, ma la consapevolezza andava e
veniva come un contatto difettoso. Di nuovo fissò i marinai e trovò
che erano pochi, terribilmente pochi. Sapeva che alcuni erano morti
quando la bomba di profondità inglese era esplosa contro lo scafo,
altri per le esalazioni di cloro dei motori elettrici danneggiati. Si
chiese se quelli che vedeva – ombre silenziose, che lo fissavano –
fossero quelli ancora vivi o quelli già morti.
Cercò di muoversi, ma subito
avvertì le mani di Fersch sulle spalle. “No, signore,” disse il
capo ingegnere, “è meglio che rimanga fermo.”
Lindenmeyer si limitò ad
annuire. Si chiese se la ferita fosse alla spina dorsale e subito una
sferzata di angoscia lo attanagliò: la spina dorsale significava
rimanere paralizzati. Dalla vita in giù se andava bene, se no in
tutto il corpo.
Non avrebbe più potuto
combattere.
Per quanto si fosse ripromesso di
mantenere la fermezza, con voce flebile di nuovo chiese: “Dove sono
ferito?”
“Non è niente, signore,” fu
la risposta. “Niente di cui preoccuparsi, davvero. Ha solo bisogno
di un po' di riposo.”
“È la spina dorsale, Fersch?”
L'altro dapprima parve esitare,
ma poiché Lindenmeyer non distoglieva lo sguardo dal suo, si chinò
appena verso di lui e abbassando la voce disse: “No, signore, la
spina dorsale è a posto, ma ha perso molto sangue. Deve stare
immobile o ne perderà altro.”
Il comandante chiuse gli occhi
mentre il sollievo nonostante tutto lo invadeva. Guardò di nuovo i
suoi uomini – un gruppetto sparuto, fradicio e dolorante – e si
sforzò di sorridere ancora una volta. “Ne usciremo,” disse con
voce debole, poi la spossatezza lo vinse.
La porta si aprì, sulla soglia
comparvero tre figure grondanti.
“Venite all'asciutto,” disse
il tenente di vascello Buchheim. “C’è ancora molto cloro, là
dentro?”
Il primo dei nuovi arrivati
rispose: “Abbiamo dovuto usare il respiratore, signore.” Si fece
avanti e depose la cassetta del pronto soccorso su un tavolino
sbilenco. Fersch si precipitò ad aprirla e ne esaminò il contenuto.
“Morfina, finalmente,” sospirò sollevato.
Dal suo angolo, il marinaio Küsel
disse: “Se aggiusta le ossa come fa con i motori, signore, siamo in
buone mani.”
Qualcuno ridacchiò, l’ufficiale
si limitò ad annuire. Si volse poi verso gli altri due e chiese:
“Voi cosa avete?”
I marinai si fecero avanti.
“Abbiamo trovato roba da mangiare, signore,” disse uno di essi,
deponendo a terra il rudimentale sacco che aveva in spalla. L’altro
posò con una certa cautela il proprio fardello e disse: “Questo è
l’apparecchio Enigma, signore, con tutti i codici. E ho recuperato
anche la bandiera.”
Fersch annuì. “Molto bene,”
apprezzò, “molto acuto. Dovrò ricordarmi di parlare di te al
Vecchio, appena la faccenda sarà finita.”
A quelle parole, gli uomini si
scambiarono occhiate dubbiose. Infine il Capo di seconda classe
Heller chiese: “Come sta il Vecchio?” Occhieggiò dubbioso la
figura che giaceva immobile in un angolo della stanza, quasi nascosta
da un mucchio di coperte e giacconi.
Fersch alzò le spalle. “Eh,
potrebbe stare meglio, ma almeno non è finito in fondo al mare.”
A quelle parole calò un
consapevole silenzio. “Sulla tomba di un marinaio non fioriscono le
rose...” canticchiò qualcuno.
“Silenzio,” disse Buchheim
asciutto. “Niente discorsi disfattisti.” Fece scorrere lo sguardo
su quel che restava dell’equipaggio, quindi in tono più morbido
soggiunse: “Il Vecchio ci tiene che il morale sia alto. Non avremmo
affondato tutto quel naviglio inglese, se ce ne fossimo stati a
frignare ogni volta che si presentava qualche difficoltà, non vi
pare?”
I superstiti si limitarono a
fissarlo.
“Vi ricordate quando siamo
finiti sul fondo, con la barchetta che scricchiolava da tutte le
parti, sul punto di accartocciarsi come una scatola di sardine?
Eppure il Vecchio, con l’aiuto del qui presente capo macchina
Fersch, ci ha tirati fuori. E vi ricordate quando a nord della
Norvegia tre incrociatori inglesi ci hanno dato la caccia per dieci
giorni di fila? Ve lo ricordate quanto siamo stati immobili, a motori
spenti e coi respiratori? Eppure siamo ancora qui, pronti a
combattere.”
Quello che prima aveva
canticchiato borbottò: “Sempre che ci trovino, naturalmente.”
“Ci troveranno,” asserì
Buchholz categorico. “Abbiamo mandato un messaggio in codice, ogni
unità nei dintorni l’ha ricevuto. E ora basta, abbiamo già perso
anche troppo tempo. Un paio di uomini ad aiutare il capo macchina
Fersch con le medicazioni, altri due a fare l’inventario di ciò
che è stato recuperato.”
§
Atlantico settentrionale, 20
marzo 1941, ore 16.00
Von Scheven rilesse per
l’ennesima volta la trascrizione del comunicato radio. Ormai la
sapeva a memoria: U-104 gravemente danneggiato, equipaggio ridotto a
metà degli effettivi, comandante ferito. Tenta di raggiungere
l’isola di Steineyja.
Guardò fuori: ormai era buio, il
mare si confondeva con il cielo in un’unica massa minacciosa e
cupa. Solo al balenare dei lampi si intravedevano per un istante le
onde folli, crestate di spuma, e il turbinare furioso delle nubi.
Il resto era solo l’ululare e
gemere del vento, scrosci di pioggia come aghi ghiacciati e marosi
che scuotevano l’incrociatore come se fosse stato guscio di noce.
Steineyja non l’aveva mai
sentita nominare, prima di quel comunicato, e sì che ci aveva
navigato in quel tratto di mare. Aveva dovuto andare al tavolo delle
carte e mandare via Oberbeck con una scusa, poi l’aveva trovata in
una delle mappe più particolareggiate. Era una specie di scoglio
perso nell’oceano: una spiaggia pietrosa e ostile, un basso
promontorio e i resti di una stazione meteorologica abbandonata.
Immaginò cosa dovesse essere con
quel tempo, e subito dopo immaginò cosa potesse significare
trovarcisi sopra fradici, feriti e infreddoliti.
Si puntellò per contrastare un
rollio particolarmente violento, seguì con lo sguardo una sedia che,
preso l’abbrivio, attraversò la plancia e andò a sbattere contro
la parete opposta.
“Oberbeck!” si sentì
sbraitare.
Da un angolo del locale giunse la
voce del guardiamarina: “Stavolta non ho fatto niente, signor
capitano!”
Si alzò e raggiunse la console
del marconista. “Abbiamo un meteo?” gli chiese.
Il sottufficiale gli porse un
foglio, egli lo lesse e aggrottò le sopracciglia, poi guardò di
nuovo fuori, ma l’oscurità nel frattempo era aumentata e si
distinguevano appena solo le strutture più vicine. A ogni ondata
fiorivano nel buio immense nubi di spuma bianca.
Lo scroscio della pioggia era un
rombo ininterrotto, che costringeva a parlare alzando leggermente la
voce.
Distolse lo sguardo, si voltò in
direzione della stanza del comandante, ma se Gehlbach non gli aveva
permesso di uscire con la luce, a maggior ragione non l’avrebbe
fatto col buio.
Eppure, con un faro potente, con
un buon equipaggio…
Ripensò all’ultimo comunicato
giunto dal sommergibile, U-104
gravemente danneggiato, equipaggio ridotto a metà degli effettivi,
comandante ferito, e
un brivido ghiacciato gli corse lungo la schiena. Cosa poteva voler
dire comandante ferito?
Era su quello, principalmente, che si arrovellava ormai da ore.
Di base, significava che Hans era
ferito così gravemente da essere inabilitato alle sue funzioni,
altrimenti non l’avrebbero nemmeno segnalato. Trasse di tasca il
suo marco d’argento, cominciò a farselo passare fra le dita. Alzò
di nuovo gli occhi verso i finestrini, su cui pioggia e marosi
gettavano violenti scrosci d’acqua, immaginò il morso del vento
ghiacciato.
“Tieni questo, te lo
regalo.”
“Ma Hans, è il tuo marco
portafortuna!”
“Certo, è per questo che te
lo voglio regalare. Ora porterà fortuna a te.”
La moneta cadde con un tintinnio
acuto, rimbalzò e rotolò via seguendo i movimenti della nave.
Fu il nostromo che gliela
raccolse. Si chinò con la disinvoltura di chi è stato per anni in
mezzo a ogni genere di tempesta, gliela porse e disse: “Anch’io
ci provo a seminarle, signore, ma non cresce mai niente.”
Ancora immerso nei pensieri
angosciosi di poco prima, von Scheven si limitò a un pallido
sorriso. L’altro allora proseguì: “Il nostro Smutje[2] ha fatto
un po’ di caffè. Io non so come ci riesca, con questo mare,
comunque venga a berne una tazza, signore.”
Il tenente si guardò intorno.
“Ma io...” cominciò.
“Venga,” lo interruppe
l’altro. “Una bella tazza di caffè è quello che le serve.”
Von Scheven non si mosse. “Devo
finire il mio turno,” rispose. Non voleva allontanarsi e rischiare
così di perdere qualche aggiornamento sulla situazione dell’U-104.
L’altro, che aveva combattuto
durante tutta la Grande Guerra e come età avrebbe potuto agevolmente
essere suo padre, scosse la testa e ripeté: “Venga, signore. Cosa
vuole che succeda con questo tempo? Non si può fare niente.”
Il giovane emise un sospiro,
quindi chiese: “Anche lei pensa che sia impossibile uscire?”
L’uomo scosse la testa. “E
per andare dove, signore? Anche ammesso che si riesca a governare una
lancia, cosa faremmo una volta arrivati là? Ci saranno dei feriti,
gente che non potrà certo essere sballottata qua e là, lei
capisce.”
“Lei è mai uscito con un mare
del genere, signor Spahn?” s’informò il tenente, cercando di non
pensare agli scenari che la frase del nostromo gli aveva evocato.
L’altro corrugò la fronte.
“Forse una volta,” disse infine.
“Con una lancia?”
“Un piccolo peschereccio. È
stato poco dopo la Grande Guerra, signore. Ma le garantisco che ce la
siamo fatta sotto, con rispetto parlando.”
Von Scheven annuì pensoso, poi
disse: “Però siete sopravvissuti.” Di nuovo volse lo sguardo ai
finestrini. Un lampo baluginò, mostrando per una frazione di secondo
lo sconvolto ribollire di onde immense. “Devo chiederle una cosa,
signor Spahn,” soggiunse poi.
“Cosa, signore?”
“Andiamo a prendere quel caffè,
glielo spiegherò strada facendo.”
§
Atlantico settentrionale,
isola di Steineyja, 20 marzo 1941, ore 20.00
Una fiammella incerta rischiarava
appena l’ambiente. Da fuori provenivano l’ululato del vento e lo
scroscio di frangenti poderosi, il freddo era così intenso che il
fiato si condensava in bianche nuvole di vapore.
Lindenmeyer sbatté gli occhi
cercando di mettere a fuoco il volto chino su di lui. Infine, con
voce debole disse: “Fersch?”
“Sì, signore,” rispose
l’uomo. “Ora le farò un’iniezione.”
Il comandante chiuse gli occhi in
un fiacco gesto di diniego. “Cos’è?” chiese.
“Morfina, signore. Servirà a
farla stare un po’ meglio.”
“No, niente morfina. Devo
essere lucido.”
Fersch lo fissò costernato. “Ma
signore...”
“Niente morfina,” ripeté
Lindenmeyer, poi tacque spossato, chiedendosi se sarebbe stato in
grado di sopportare le conseguenze di quello spavaldo rifiuto. Aveva
sempre pensato che il freddo intorpidisse, ottundesse le sensazioni,
ma a quanto pareva era esattamente il contrario: tutte le volte che
respirava sentiva una stilettata nelle costole; sembrava che ogni
pulsazione cardiaca generasse un’ondata di dolore che gli si
irradiava in tutto il corpo. Se poi rabbrividiva per il freddo, aveva
l’impressione di spaccarsi in mille pezzi.
Fece scorrere lo sguardo sugli
uomini, che sedevano ammucchiati uno sull’altro alla ricerca di
calore. Per quanto facessero del loro meglio per sopportare la
situazione, vedeva facce pallide e lineamenti tesi. Rannicchiato
contro un camerata più anziano, Küsel tremava così tanto che quasi
gli battevano i denti.
Non avrebbero retto a lungo, in
quelle condizioni. I feriti – ed erano la maggior parte – avevano
bisogno di cure, e in generale tutti avevano bisogno di cibo, calore
e abiti asciutti. Si ripromise di ordinare una nuova spedizione
all’interno del relitto, l’indomani, per recuperare altre cose
utili.
“Buchheim,” chiamò.
Subito l’ufficiale entrò nel
suo campo visivo. “Signore?”
“Pensa che gli inglesi siano
già vicini?”
“Con questo tempo è difficile
dirlo, signore.”
Lindenmeyer tentò di annuire, ma
anche quel minimo movimento fu in grado di spedirgli una fitta di
dolore in tutto il corpo. Strinse i denti obbligandosi a mantenere
l’espressione neutra e disse: “Temo che abbiano capito che non
siamo finiti in fondo al mare.”
L’altro alzò le spalle e
rispose: “Con tutti i danni che abbiamo fatto, signore, penso che
starebbero in ogni caso a incrociare qui intorno fino ad avere la
certezza che siamo morti.”
Il comandante si sforzò di
sorridere. “Peccato che quella certezza non l’avranno mai, visto
che siamo ancora vivi.” Si voltò verso gli uomini. “Non è così,
ragazzi?”
“Sissignore,” si udì qua e
là.
“Sapete cosa ci vorrebbe
adesso? Una bella canzone. Neumann, ce l’hai con te il pianoforte
da nave[3]?”
“Sissignore,” rispose
l’interpellato.
“Lo sapevo. Suonaci qualcosa.”
“Che cosa, signore?”
“Una canzone adatta a noi:
questo non può certo impressionare un marinaio[4].”
§
Atlantico settentrionale,
qualche miglio al largo dell’isola di Steineyja, 20 marzo 1941, ore
23.00
Le braccia dietro la schiena, le
gambe allargate per contrastare i movimenti dell’incrociatore, il
tenente di vascello Reese scrutava pensoso nel buio. Di quando in
quando, un lampo mandava la sua luce livida sulla tempesta che ancora
non accennava a diminuire.
La cosa era un male,
naturalmente, ma al tempo stesso anche un bene: se le condizioni
meteorologiche impedivano a loro di raggiungere Steineyja, lo
impedivano allo stesso modo anche agli inglesi.
Inglesi che peraltro non vedevano
l’ora di mettere le grinfie su quello che rimaneva dell’U-104.
Con giusta ragione, dal loro punto di vista, perché il suo
comandante era quello che veniva definito un Asso degli U-Boot[5].
Sentì il sottufficiale anziano
dare l’attenti, si voltò e vide che stava entrando in plancia von
Scheven. Lo fissò critico: era pallido, aveva i lineamenti tesi e
una strana luce febbrile negli occhi. “Non dovresti essere di
riposo?” gli chiese avvicinandosi a lui.
“Non riuscivo a dormire,” fu
la scarna risposta. L’ufficiale raggiunse poi la console del
marconista e lesse l’ultimo bollettino meteo. Reese lo vide
stringere i denti. “Qualcosa non va?” chiese.
“Novità sull’U-104?”
“Figurati, se ne staranno zitti
più che possono. Non siamo mica gli unici, qui in giro.”
A quelle parole, l’espressione
del collega si incupì ulteriormente. Infilò la mano in tasca e ne
trasse il marco d’argento, che come solito cominciò a rigirarsi
fra le dita.
Reese per un po’ stette a
guardarlo in silenzio, ma l’altro sembrava non vedere altro che la
moneta. “Reinhardt?” lo chiamò dopo un po’.
Von Scheven sollevò lo sguardo
su di lui. “Che c’è?”
“Non è che stai male?”
“Perché?”
“Non lo so, sei strano.”
L’altro alzò le spalle. “Sto
benissimo, fisicamente. Sono solo preoccupato per l’U-104. Tu non
sei preoccupato?”
“Che discorsi, certo che lo
sono, ma sono anche un marinaio, so come vanno certe cose.”
L’altro lo fissò torvo. “Vuoi
dire che io non sarei un marinaio?”
Reese scosse la testa. “Non ha
senso che litighiamo fra di noi,” sospirò. “Vuoi che andiamo a
vedere se è rimasto un po’ di caffè?”
Von Scheven emise a sua volta un
sospiro. Di colpo parve a Reese terribilmente stanco e abbattuto.
“D’accordo,” si limitò a rispondere.
In quel momento, il marconista
disse: “Signor tenente!”
In un attimo, i due furono
accanto alla console. “Cosa c’è?” chiese von Scheven, senza
nemmeno aspettare che Reese – titolare della guardia – parlasse
per primo.
“Una trasmissione molto
disturbata,” spiegò il sottufficiale, trafficando sui comandi
dell’apparecchio radio per sintonizzarlo meglio. Di nuovo rimase in
ascolto per qualche secondo, modificò ancora qualcosa
sull’apparecchio, quindi disse: “Io credo che sia un messaggio
cifrato inglese, signore.”
“A che distanza?”
Il marconista ascoltò ancora,
addirittura chiudendo gli occhi per avere maggiore concentrazione,
poi guardò fuori e rispose: “C’è molta elettricità statica
nell’aria, signore, le trasmissioni sono disturbate, ma l’emittente
dev’essere a poche miglia da qui.”
“Cosa dice il messaggio?”
“La trasmissione è criptata,
signore. L’unico spezzone in chiaro parlava di un’unità in
avvicinamento, poi hanno cominciato a usare il codice, si vede che
hanno capito che siamo qui in giro.”
“O magari lo sospettano e
basta,” intervenne Reese, notando lo sguardo angosciato del
collega, “pensano che anche noi abbiamo tutto l’interesse a
recuperare il nostro Asso degli U-Boot e prendono le necessarie
precauzioni.”
“Unità inglesi in
avvicinamento,” disse a mezza voce von Scheven. Strinse la moneta
con tale forza che dal palmo gli si irradiò una fitta di dolore fino
al gomito.
Accanto a lui, Reese replicò:
“Adesso non dirmi che non te l’aspettavi.”
Il primo non rispose. Non c’erano
risposte adatte, del resto, o perlomeno non c’erano risposte che
avrebbe potuto fornire al pur generoso e affezionato Franz.
Il vento scherza con i capelli
biondi di Hans, il luccichio delle onde lo obbliga a stringere gli
occhi, che diventano due lame celesti fra ciglia d’oro pallido. “Io
scommetto che non hai il coraggio di tuffarti,” dice spavaldo, e si
avvicina al bordo della scogliera. Molti metri più in basso
biancheggiano i frangenti. Lui li fissa distratto, quasi con
degnazione, quasi fossero un inconveniente di nessuna importanza.
Si mette in posizione per
saltare, la luce radente disegna la sua muscolatura agile e nervosa.
“Non hai paura?”
“Chi ha paura muore un po’
ogni giorno.”
Per quanto fosse un amico, Franz
non avrebbe potuto capire certe cose.
All’inizio non le aveva capire
neppure lui, del resto. Ci erano voluti il coraggio e la serenità di
Hans, per far sì che lui comprendesse.
E ora Hans era su uno scoglio
battuto dai venti, ferito non si sapeva quanto gravemente, forse
addirittura già morto, e lui non poteva fare altro che aggirarsi su
e giù davanti a finestre rigate di pioggia.
§
Atlantico settentrionale,
isola di Steineyja, 21 marzo 1941, ore 04.00
Fersch aggiustò le coperte del
comandante Lindenmeyer, gli posò una mano sulla fronte e la sua
espressione si indurì. Sollevò lo sguardo sul collega Buchheim e
disse: “Ha preteso troppo da se stesso.”
“Adesso almeno se ne starà
tranquillo,” rispose l’altro, fissando a sua volta il giovane
esanime.
Fersch alzò le spalle.
“Tranquillo il Vecchio? Quando sarà morto, al massimo.”
Abbassando la voce, Buchheim
replicò: “Non è che ci manchi molto, obiettivamente. Guarda lì
com’è pallido, sembra uno straccio lavato.”
Il primo non rispose. Era stato
lui a prestare i primi soccorsi al comandante, quindi sapeva bene che
quelle del collega non erano esagerazioni. Era quasi stupito che
fosse ancora vivo, anzi. Gli aggiustò di nuovo le coperte,
praticamente l’unico intervento che riusciva a fare in suo favore
in quelle condizioni disastrose, e a bassa voce soggiunse: “Possiamo
solo aspettare.”
Tacque. Nella stanza regnava un
silenzio rotto qua e là dal russare lieve di qualche marinaio. Non
erano stati istituiti turni di guardia, in parte per consentire agli
uomini stremati di riposare, e in parte perché obiettivamente non
ce ne sarebbe stato alcun bisogno. Finché le condizioni
meteorologiche perduravano immutate, e nulla faceva pensare che
stessero cambiando, il nemico avrebbe rappresentato il minore dei
pericoli.
Fissò lo sguardo su una
tavoletta di Esbit[6], un cubetto bianco da cui si levava un’esile
fiammella azzurra. Vi avvicinò le mani e il suo pur minimo calore
gli fece emettere un sospiro di sollievo.
Pensò a come portarla vicino al
comandante, ma dovette rinunciare al proposito: troppo pericoloso
lasciargli accanto una fiamma libera. Si accontentò di rimboccargli
ancora una volta le coperte. “Andrà tutto bene,” gli disse,
anche se non era certo che lui potesse sentirlo.
Lindenmeyer aveva l'impressione
di essere nudo, esposto alle intemperie e avvolto in un bozzolo di
filo spinato, che da una parte gli impediva il più piccolo
movimento, e dall'altra gli infliggeva dolori ovunque.
La sua non poteva certo definirsi
lucidità, ma nemmeno totale incoscienza. Era come una nebbia, che
quando era più fitta impediva di vedere qualsiasi cosa, mentre
quando si diradava gli consentiva di cogliere i contorni di ciò che
lo circondava.
Pian piano i ricordi stavano
tornando: gli erano ricomparsi in mente un boato, un lampo giallo e
arancione, una cacofonia di grida, sibili di vapore, cigolii e
schianti e una fitta di dolore atroce al fianco. Ricordava che a un
certo punto si era trovato per terra col fiato mozzo, che averebbe
voluto gridare, ma non riusciva nemmeno a far entrare l'aria nei
polmoni.
Poi c'era un altro periodo di
buio, poi lo scroscio dell'acqua che entrava a fiotti nell'U-Boot, il
tramestio concitato degli uomini che cercavano di turare la falla, la
voce di Fersch che gridava ordini al posto suo.
Poi ancora buio, poi lui che
decretava la fine dell'U-104 e ordinava l'approdo su Steineyja.
Al pensiero di quell'ultimo
episodio non poté evitare un sospiro. Amava l'U-104, lo considerava
una parte di sé, un camerata al pari degli uomini dell'equipaggio.
Decretare la sua fine era stato
doloroso esattamente come leggere l'elenco delle perdite dopo una
battaglia.
Si voltò adagio fino a che gli
uomini addormentati non entrarono nel suo campo visivo e ancora una
volta lo colse il dubbio che fossero i caduti quelli che stava
contemplando, non i superstiti.
Di nuovo sospirò. Se fosse
morto, avrebbe avuto un solo rimpianto.
La scotta della randa è
tesata a ferro, il maestrale gonfia la vela. La veloce imbarcazione
da regata salta sulle onde prendendo velocità a ogni raffica.
Istintivamente Reinhardt si
piega per assecondare il movimento della virata, lo snipe fa perno
sulla deriva, la vela riprende il vento e di nuovo si gonfia con uno
schiocco.
La velocità aumenta, l'acqua
canta lungo le fiancate.
“Ce l'abbiamo fatta!”
esclama. Butta la testa all'indietro, il vento gli scompiglia i
capelli, gli arrossa le guance. Gli occhi grigi sono accesi,
trionfanti, mentre gli altri snipe, a poppa, sono sempre più
lontani.
Aveva saputo che in quelle acque
incrociava la Graf Luckner. Quando la nave inglese l'aveva colpito,
in effetti, era sulla rotta dell'incrociatore. Voleva emergere
all'improvviso, avvicinarsi e fargli vedere il Gran Pavese: tutti gli
uomini sull'attenti, la bandiera da combattimento sul pennone della
falsatorre, un triplice Sieg
Heil.
Tutti l'avrebbero interpretato
come un omaggio alla più grande unità di superficie e al suo
comandante Gehlbach, ma in realtà l'omaggio sarebbe stato tutto per
un'altra persona.
Sorrise tra sé e sé al pensiero
che sicuramente Reinhardt sarebbe arrossito. Senza motivo, peraltro,
perché nessun altro avrebbe capito il vero significato dell'atto.
Sarebbe stato un segreto fra di
loro.
Emise un sospiro, quello era
l'unico rimpianto che aveva.
Chiuse gli occhi.
§
Atlantico settentrionale,
qualche miglio al largo dell’isola di Steineyja, 21 marzo 1941, ore
07.00
Le prime luci dell'alba
cominciavano a delineare i contorni delle cose. Continuava a piovere
furiosamente, la forza del mare non accennava a diminuire.
Il tenente di vascello Reese
guardò l'orologio: fine del turno di guardia. Diede un'occhiata agli
ultimi bollettini meteo, controllò la rotta, passò le consegne al
collega del turno successivo e uscì per dirigersi verso il suo
alloggio.
Mentre camminava per un corridoio
deserto cercando di assecondare i movimenti della nave, fu colpito da
un'insolita corrente d'aria fredda.
Si fermò perplesso: durante le
tempeste c'era l'ordine di chiudere tutti i boccaporti. Immaginò che
qualche marinaio, magari stanco dell'aria viziata o annoiato e
desideroso di fare qualcosa di diverso, avesse contravvenuto alla
regola. Si mosse verso la provenienza del refolo, già immaginandosi
di sorprendere qualcuno affacciato da qualche parte a godersi la
tempesta come uno spettacolo a teatro.
Scese all'altezza del ponte di
coperta. L'aria si era fatta più fredda, umida e odorosa di
salsedine. Istintivamente allungò il passo, preso da una strana
sensazione di inquietudine. Udì un violento scrosciare d'acqua, e
subito dopo il cigolio e lo schiocco di un portello che dondolava sui
cardini spinto dal moto dell'incrociatore, e ad ogni movimento
sbatteva contro la parete.
Si precipitò a vedere e rimase
col fiato mozzo per la sorpresa: dieci uomini con addosso cerata,
cappello impermeabile e stivali si preparavano a uscire. A ogni
ondata entravano dal portello aperto cateratte d'acqua.
“Cosa state facendo?” urlò.
Più d'uno sobbalzò, tutti si
girarono nella sua direzione. Riconobbe il nostromo Spahn e altri
marinai anziani. “Cosa significa tutto questo?” chiese, facendo
guizzare lo sguardo dall'uno all'altro degli uomini. “Il Vecchio sa
che siete qui?”
Si fece avanti von Scheven.
“Stanne fuori,” lo ammonì, “non è una cosa che ti riguarda.”
Aveva uno sguardo più che mai febbrile, illuminato da una strana
luce mistica. Reese pensò che sembrava quello di un martire in
procinto di salire sul rogo.
“Stanne fuori?” fece eco. “Ma
dì un po', sei impazzito?” Poi, rivolto ai marinai: “Voi tornate
alle vostre occupazioni, è stato un malinteso. Andate a cambiarvi e
riprendete i servizi che vi sono stati assegnati. Quanto a te,”
proseguì rivolgendosi di nuovo al collega, “è meglio che mi
segui.” Senza attendere risposta lo prese per un braccio e se lo
trascinò dietro. Von Scheven non oppose resistenza.
Lo condusse alla propria cabina,
lo fece sedere sulla cuccetta. Gli tolse il cappello cerato e lo
buttò da una parte. Di nuovo l'amico, di un pallore spettrale, dai
lineamenti così tesi che sembravano addirittura trasfigurare la sua
fisionomia, non oppose alcuna resistenza.
“Non fare niente agli uomini,”
si limitò a dire.
“Che cosa credevi di fare?”
domandò Reese in tono duro, frugando nell'armadietto alla ricerca
della bottiglia di Schnaps che vi conservava. “Che cosa ti è
saltato in mente? Volevi ammazzarti assieme a una decina di poveracci
che non c'entrano niente?”
“Hanno deciso tutti
volontariamente di seguirmi.”
Reese ignorò la precisazione.
Riempì un bicchierino di liquore fino all'orlo, glielo porse.
“Bevi.”
“Non mi va.”
“Bevi, o ti piglio per il collo
e te lo verso in gola come l'olio di fegato di merluzzo.”
Von Scheven ingoiò il
bicchierino, tossì un paio di volte ed emise un sospiro, poi puntò
i gomiti sulle ginocchia e appoggiò il mento sui palmi delle mani.
Reese lo fissò in silenzio per
qualche secondo, nella vana attesa di una spiegazione, infine gli
chiese: “Ma si può sapere cos'hai? Ti ha dato di volta il
cervello, per caso?”
Passarono altri secondi, scanditi
solo dal pulsare dei Diesel e da un lontano ululare di vento, infine
von Scheven disse: “Devo andare da lui. È ferito, sta soffrendo,
stanno arrivando gli inglesi. Non si può più aspettare.”
L'altro lo fissò stupefatto.
“Lui, chi?”
“Hans Lindenmeyer.”
“Lindenmeyer? Intendi il
comandante dell'U-104?”
“Sì.”
“Lo conosci, per caso?”
Von Scheven ingobbì le spalle,
quasi rannicchiandosi su se stesso. Per qualche istante parve assorto
in pensieri terribilmente dolorosi. Infine rispose: “Meglio di
quanto immagini.”
“Che cos'è, un tuo parente,
per caso?”
Per tutta risposta, l'altro
chiese: “Come ti sentiresti se su quell'isolotto ci fosse
Margarethe, ferita non sai quanto gravemente, infreddolita e
affamata?”
“Che c'entra la mia ragazza,
adesso?”
Il bruire leggero della
pioggia è come una musica. L’acqua picchietta sulle tegole rosse,
scorre sui tetti spioventi in rivoli gentili. Gocciola dall’insegna
di ferro battuto della locanda.
La stanza è tiepida, l’aria
profuma di salsedine e legno antico.
Sul pavimento giacciono
abbandonate alla rinfusa due uniformi della Kriegsmarine.
Reinhardt si solleva su un
gomito, fissa Hans disteso accanto a lui, forse addormentato. Lo
trova bello, e subito dopo si stupisce, perché non gli è mai
capitato di pensare in quei termini a un altro uomo.
Non ha mai trovato un altro
uomo desiderabile, prima di Hans.
Eppure con lui è tutto così
naturale, così ovvio…
Hans apre gli occhi. Forse non
stava dormendo, o forse il suo sonno è come quello degli animali
selvatici, rapido ad arrivare come a dissolversi. Gli rivolge un
sorriso. “Buon giorno,” saluta, e si strofina gli occhi come se
si fosse appena svegliato nel letto di casa sua.
Reinhardt allunga timido una
mano, gliela passa fra i capelli, facendosi scorrere le sue ciocche
dorate fra le dita.
Lo fissa pensoso.
Hans gli rivolge un sorriso.
“Che c’è?”
Renihardt esita, infine
chiede: “Quando hai capito che...” Si interrompe, esita ancora,
infine prosegue: “Che tu ed io…?” Non sa cosa dire. Le uniche
parole che conosce per definire ciò che è successo fra loro sono
termini volgari, oppure termini medici, così asettici e impersonali
da risultare più offensivi degli insulti. Si rende conto che dovrà
fra le altre cose imparare un nuovo linguaggio. Si piega su di lui,
lo bacia piano sulle labbra. Hans se lo tira contro, con un colpo di
reni si rivolta fino a trovarsi sopra di lui.
Trafitto dalle sue iridi
celesti, Reinhardt si trova a deglutire mentre il cuore gli balza nel
petto.
Hans si struscia contro di
lui, spedendogli brividi in tutto il corpo. “L’ho capito quando
ti ho visto per la prima volta,” risponde in un sussurro. Si lascia
cadere al suo fianco.
Nel riquadro di cielo grigio
che si vede dalla finestra passano due gabbiani, che per qualche
istante si inseguono in volo facendo capriole, poi si allontanano
insieme verso il mare aperto.
“Questo è quanto,”
concluse von Scheven con voce dura.
Seguirono lunghi secondi di
silenzio, infine Reese cominciò: “Ma allora, sei...”
“Sì, lo sono,” lo sfidò
l'altro rivolgendogli uno sguardo torvo. “Se ti fa schifo puoi
anche starmi lontano, non ho bisogno del tuo compatimento.”
Reese non si mosse.
L'altro allora si alzò brusco,
andò a raccogliere il cappello impermeabile e se lo mise
sottobraccio. “Tolgo il disturbo,” disse poi.
“Aspetta.”
“Che cosa devo aspettare? Ora
sai tutto, sai anche il mio segreto più umiliante. Sai perché sto
così male al pensiero di quella gente... di Hans...” Deglutì e
voltò la testa per sottrarsi al suo sguardo.
Senza replicare, Reese andò
all'armadietto e aggiunse al primo un altro bicchierino, poi riempì
entrambi di Schnaps. “Ho bisogno di berci sopra,” disse. Spinse
uno dei due verso il collega.
L'altro fissò il liquore, poi
sollevò lo sguardo su di lui e gelido replicò: “E io ho bisogno
di stare solo.”
Prima che Reese potesse aprire
bocca, von Scheven gli passò accanto e uscì chiudendosi la porta
alle spalle.
§
Atlantico settentrionale,
qualche miglio al largo dell’isola di Steineyja, 21 marzo 1941, ore
12.00
Spahn guardò fuori e disse:
“Migliora, signore.”
Reese guardò a sua volta, ma la
furia degli elementi sembrava mantenersi invariata. Studiò il
bollettino meteo che aveva in mano, e il comunicato confermò quella
sensazione.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, con sicurezza il nostromo proseguì: “Vedrà che prima di
stasera il Vecchio potrà mettere in acqua tutte le lance che vuole.”
Il tenente guardò fuori di
nuovo, ricavandone un'impressione sconfortante. Per non mortificare
l'attempato nostromo rispose: “Beh, spero proprio che abbia
ragione, signor Spahn.”
L'altro fece una risatina di
sufficienza. “Lo vedrà da solo se ho ragione, signore.” Tacque
brevemente, poi soggiunse: “Purtroppo, però, quando c'è il grano
arrivano anche i topi.”
“Che intende dire?”
“Gli inglesi, signore.” Si
batté la mano sull'addome, quindi spiegò: “Nella battaglia dello
Jutland gli inglesi mi hanno ferito proprio qui. Da allora, la mia
vecchia cicatrice non sbaglia mai: se fa male, significa che stanno
arrivando.”
“E adesso le fa male?”
“Un bel po', signore.”
Reese si chinò sulla mappa,
studiò dove potessero essere gli inglesi sulla base degli ultimi
rilevamenti.
Se fosse stato un comandante
nemico, non si sarebbe risparmiato per accertare la distruzione di un
battello pericoloso come l'U-104. Se fosse riuscito a catturare anche
il suo comandante, poi, probabilmente avrebbe addirittura potuto
sperare in una promozione.
Guardò di nuovo fuori: la
pioggia scrosciava ancora furiosa, i marosi non davano affatto
l'impressione di volersi ammansire. Pensò a cosa potesse essere
rimasto dell'equipaggio del sommergibile e subito gli tornò in mente
anche von Scheven.
Non l'aveva più visto, dopo
l'episodio del mattino. Aveva pensato più volte di andarlo a
cercare, ma aveva sempre rinunciato. Di colpo, ogni gesto nei suoi
confronti, anche quelli che fino al giorno prima aveva compiuto con
la massima naturalezza, gli sembrava inadeguato, ambiguo, carico di
significati nascosti. Quante volte gli aveva messo una mano sulla
spalla, l'aveva preso per un braccio, sospinto in avanti, tirato
indietro o cose del genere? Ora che sapeva,
come avrebbe potuto ripetere quegli atti la disinvoltura di prima?
Eppure Reinhardt era sempre
Reinhardt.
Emise un sospiro. Guardò in
direzione della porta, quasi aspettandosi di vederlo entrare, ma von
Scheven non comparve. Si augurò che non avesse fatto qualche
sciocchezza.
Era ancora immerso in quelle
angosciose meditazioni quando il marconista disse: “Signore, una
comunicazione in codice dalla Haifisch: ha avvistato due unità
inglesi in movimento verso il nostro settore.”
§
Atlantico settentrionale,
isola di Steineyja, 21 marzo 1941, ore 16.00
Il tenente di vascello Buchheim
andò alla porta, la scostò e si affacciò all'esterno. Rimase per
un po' a osservare, quindi si ritrasse e raggiunse Fersch, che seduto
accanto al comandante gli stava sistemando una fasciatura
insanguinata.
Si sporse a fissare il ferito,
poi alzò gli occhi sul collega, che però mantenne un'espressione
impenetrabile.
“Il tempo sta migliorando,”
disse allora.
A quelle parole, Lindenmeyer, che
sembrava immerso in un doloroso torpore, aprì gli occhi e con voce
flebile chiese: “Di quante armi disponiamo?”
Buchheim si guardò intorno. I
feriti sedevano più o meno prostrati da una parte. Nonostante le
cure, un paio erano deceduti durante la notte. Nella corsa frenetica
per abbandonare l'U-104, incalzati dai letali vapori di cloro e
flagellati dalla tempesta, gli uomini si erano lasciati praticamente
tutto alle spalle.
Armi non ce n'erano. Lo disse al
comandante.
Lindemneyer rimase in silenzio
per qualche secondo, come impegnato a raccogliere le forze per
parlare, quindi rispose: “Mandi una squadra a recuperarne il più
possibile, faccia procurare anche le munizioni.”
“Sissignore.” Buchheim fece
per alzarsi, ma il comandante disse: “Un'altra cosa.”
“Cosa, signore?”
“Enigma.” Lindenmeyer tacque
di nuovo per qualche secondo, quindi riprese: “Enigma non deve
cadere nelle mani del nemico.”
“Sissignore.”
Lo sguardo del comandante, lustro
di dolore, ebbe un guizzo febbrile. “A nessun costo, Buchheim.”
“Ne sono consapevole, signore.”
“Allora me la porti qui.”
Strinse i denti. “E mi porti anche... una granata a mano.”
L'altro tentennò. “Che cosa
vuole fare, signore?”
Adagio, faticosamente,
Lindenmeyer si girò verso di lui. Lo fissò dritto negli occhi.
“Obbedisca, Buchheim,” si limitò a rispondere.
“Sissignore.”
Il freddo sembrava meno intenso,
l'ululato del vento aveva assunto una nota più bassa. La maggior
parte degli uomini stava approntando una linea di difesa, all'interno
dell'edificio erano rimasti solo i feriti troppo gravi per muoversi e
il direttore di macchina Fersch, al quale ormai era stato attribuito
il ruolo di medico.
Lindenmeyer soppesò l'ordigno
che dietro suo ordine Buchheim gli aveva consegnato. Nel momento
della necessità avrebbe chiesto a Fersch di portare fuori i feriti
gravi, poi avrebbe fatto quel che c'era da fare.
Rivolse il pensiero a Reinhardt:
di nuovo, ogni suo rimpianto andava a lui. Non si faceva illusioni,
gli inglesi erano sulle loro tracce, sarebbero arrivati molto presto.
Enigma non poteva essere buttato
a mare, i fondali erano troppo bassi per scongiurare il rischio che
fosse ripescato.
Non c'era altro da fare.
“Quando salperai?”
“Fra due giorni. Dovresti
vedere l'U-104, è un sommergibile magnifico.”
“Mi ci farai salire, una
volta?”
“Sei troppo alto,
sbatteresti dappertutto.”
Risate, una lotta scherzosa
fra le coperte, contatto di corpi nudi, muscoli che guizzano. Labbra
e mani che si cercano.
“Io ti seguirò dalla
superficie, hai bisogno di qualcuno che ti tenga lontano dai guai.”
“E io, da sotto, starò
attento a quella tua nave, non permetterò agli inglesi di
avvicinarlesi troppo.”
“Tu pensa ad affondarli, gli
inglesi.”
“Anche tu.”
Reinhardt sorride, nella luce
chiara i suoi occhi grigi sono trasparenti come acqua. “Saremo come
i gabbiani,” dice. “Voleremo insieme sul mare e poi ci
ritroveremo sulla terraferma. Lo sai che i gabbiani si uniscono per
la vita?”
“Allora siamo proprio come
loro.”
Un pennello di luce dardeggiò
lungo una parete. Ci fu un istante di immobilità sospesa, poi
Lindenmeyer disse: “Fersch, mi dia la bandiera.”
“La bandiera, signore?”
“Neppure quella deve cadere
nelle mani degli inglesi. Si prepari a portare fuori i feriti non
appena le darò l'ordine di farlo.”
Fersch gli porse l'involto rosso
fuoco ed egli se lo strinse contro quasi con affetto.
Di nuovo il faro tagliò la
parete, si udì una raffica di mitragliatrice, alla quale rispose il
crepitare rado delle poche armi che i tedeschi erano riusciti a
recuperare.
Impossibilitato a fare altro,
Lindenmeyer tese l'orecchio, cercando di immaginare lo scontro.
Sicuramente gli inglesi avevano mandato un paio di lance, anche solo
per caricare eventuali prigionieri. Se c'erano delle lance, allora
doveva esserci anche un'unità più grossa che incrociava al largo.
Non c'erano speranze, in pratica.
Prigionia o morte.
“Fersch, aiuti la gente a
uscire di qui,” ordinò conciso.
Il capo ingegnere si chinò su di
lui. Nella stanza c'era poca luce, ma al comandante parve di notare
che avesse gli occhi lucidi.
“Faccia presto,” lo incitò.
Fersch scosse la testa. “Signore,
posso aiutare anche lei a uscire, poi buttiamo quella granata e
facciamo saltare tutto, che ne dice?”
“Dico che deve eseguire gli
ordini,” mormorò Lindenmeyer. La voce ormai era fievole, la
debolezza stava avendo il sopravvento, ma il tono era categorico.
L’altro fece per andarsene, poi
si fermò e si voltò lentamente.
“Cosa c’è adesso?” gli
chiese il comandante.
Fersch gli rivolse un solenne
saluto militare, quindi distolse brusco gli occhi, si girò verso il
primo dei feriti gravi e cominciò a darsi da fare per aiutarlo ad
alzarsi.
In piedi a prora della piccola
imbarcazione, von Scheven scrutava ansiosamente la gobba brulla di
Steineyja, illuminata dal crepitare degli spari.
Il vento teso portava via il fumo
delle detonazioni e nella luce ormai calante si vedevano bene le
lance inglesi, la casa diroccata e la barricata di fortuna eretta dai
tedeschi.
Colse con la coda dell'occhio la
massa imponente della Graf Luckner che filava a tutta forza,
sollevando due enormi onde prodiere. La bandiera da combattimento del
Reich era stata issata sul pennone più alto, e contro il cielo di
piombo brillava come una pennellata sanguigna.
Più lontano, seminascoste dalle
onde ancora alte, si intravedevano due unità inglesi.
Una torretta dell’incrociatore
brandeggiò, fece partire una salva. Per un istante, l’acqua si
accese di un’incandescenza arancione da metallo liquido e subito
dopo parve per contrasto ancora più scura.
Von Scheven si obbligò a
distogliere lo sguardo dal combattimento navale, concentrando invece
la sua spasmodica attenzione su quello che si stava svolgendo a
terra.
Vide un tedesco cadere, un altro
trascinarsi via con la mano premuta sull’addome. “Fuoco!” urlò,
“Fuoco a volontà appena pronti!”
Il cannoncino prodiero cominciò
a sparare, fontane di spruzzi si alzarono tutt’intorno alle lance
nemiche.
Gli inglesi tentennarono, ne vide
uno indicare a un altro il lampo giallastro di una cannonata della
Graf Luckner che andava a segno, poi lo scontro si riaccese. La
mitragliatrice di una delle due lance brandeggiò nella loro
direzione e fece fuoco, qualche pallottola sollevò spruzzi d'acqua
intorno a loro.
La chiglia strisciò contro il
fondo, von Scheven saltò a terra senza nemmeno aspettare che
l'imbarcazione fosse ormeggiata, si gettò in copertura dietro una
roccia.
Un altro marinaio tedesco cadde,
subito dopo un inglese finì in acqua con un tonfo. Una granata
rimbalzò sulle pietre ed esplose proiettando tutt'intorno schegge
roventi.
L'ufficiale seguì per qualche
istante le alterne vicende dello scontro, quindi scattò verso le
barricate. Comandati da un robusto tenente di vascello, uomini
perlopiù in abiti borghesi, molti con bendaggi incrostati di sangue
secco, si difendevano accanitamente.
“Von Scheven,” si presentò
rapido, “della Graf Luckner. Dov'è il comandante Lindenmeyer?”
L'ultimo dei feriti gravi era
stato portato via. La stanza vuota, appena rischiarata dalla
fiammella di una compressa di Esbit, parve a Lindenmeyer già una
tomba.
Fuori infuriava una battaglia
feroce e per un attimo fu preso dal rimpianto: là c'erano i suoi
uomini, che conosceva uno per uno, con i quali aveva superato
innumerevoli pericoli. C'erano il piccolo Küsel con la sua faccia da
coniglio, Neubarth, Reichenberger... C'era persino il loro Smutje,
Eberle, uno capace di preparare pasti caldi anche nel bel mezzo di
una gragnola di bombe di profondità.
Strinse i denti: non era il
momento di indugiare in sentimentalismi. In guerra c'è posto solo
per il dovere, e il suo dovere l'aveva ben chiaro in mente.
Presto gli inglesi avrebbero
avuto ragione dei suoi pur valorosi marinai, avrebbero fatto
irruzione nella stanza, trovandolo inerme, incapace di difendere i
pur preziosissimi oggetti che la Patria gli aveva affidato.
Sfilò da sotto le coperte la
granata, cercò di fare il vuoto in mente. Strappò via la sicura.
Von Scheven si affacciò sulla
porta, strizzò gli occhi per abituarsi alla penombra. L'aria sapeva
di sangue e di umanità dolente, in un angolo si intravedevano le
sagome allungate di due corpi. Sentì il cuore mancargli un battito:
proprio di fronte a lui, rischiarato dalla luce fioca di una
fiammella azzurrastra, c'era Hans. In un silenzio irreale lo vide
tirare fuori da sotto le coperte una granata a manico, fissarla
assorto per qualche secondo e poi togliere la sicura.
“No!” gridò d'istinto. In un
balzo lo raggiunse, gli strappò dalle mani l'ordigno e lo lanciò
più lontano che poteva, quindi si gettò su di lui. Un attimo dopo,
l'esplosione sembrò quasi sollevarlo da terra, fu investito da un
rovente spostamento d'aria. Una frustata di dolore, così atroce da
mozzargli il respiro, gli strappò un gemito soffocato.
Rintronato dalla detonazione
cercò di sollevarsi sulle braccia, ma si accorse di non riuscirvi.
“Hans,” mormorò. Incontrò il fulgore di occhi celesti e il
dolore che lo attanagliava sembrò farsi meno intenso. Si sentì
quasi felice. “Hans,” ripeté, poi tutto si fece nero.
§
Atlantico settentrionale, 25
marzo 1941, ore 10.00
Della tempesta che aveva
infuriato giorni prima rimaneva solo un picchiettare gentile di
pioggia. La brezza fresca faceva schioccare le bandiere, le sagole
battevano sui pennoni creando un tintinnio come di campanelli
lontani.
Il tenente Reese aspirò con
voluttà l'aria carica di salsedine, poi lasciò vagare lo sguardo su
onde guizzanti, che alzavano qua e là candide creste di spuma.
Rimase a contemplare per qualche
secondo la superficie dell'oceano, poi abbandonò il ponte di coperta
e scese in infermeria. “Ho ottime notizie,” disse entrando nella
camera di degenza.
Von Scheven distolse a fatica lo
sguardo dal tenente di vascello Lindenmeyer, che giaceva addormentato
nel letto accanto al suo, e chiese: “Che notizie?”
“È in arrivo la Möwe.
Caricherà voi due e tutti gli altri feriti e vi porterà in
Germania.” Fece un passo avanti, si girò appena verso il
comandante dell'U-104, poi fissò l'amico. “Come sta?” gli
chiese.
“Il dottore dice che si
riprenderà.”
“E tu?”
Il collega si strinse nelle
spalle. “Sono solo schegge di granata.”
“Un centinaio
di schegge di granata,” precisò Reese aggrottando le sopracciglia.
“Quando tu e Lindenmeyer siete arrivati a bordo, il dottore non
riusciva a decidere chi operare per primo, aveva paura che nel
frattempo l'altro tirasse le cuoia.”
Avanzò ancora, si sedette su uno
sgabello accanto al letto di von Scheven. Gli posò una mano sulla
spalla, poi gli disse: “Comunque, volevo farti sapere che...”
Esitò, pareva alla ricerca di parole che si ostinavano a sfuggirgli.
Alla fine concluse: “Che quella... cosa non mi interessa. Fra noi
non cambia niente.”
L'altro fissò lo sguardo nel
suo. “Siamo sempre amici?”
“Certo, che domanda.” Reese
sorrise imbarazzato. “Anzi, torna presto dalla licenza, non vorrai
lasciarmi da solo a sopportare il Vecchio.”
Stava per aggiungere altro quando
un marinaio arrivò a comunicare che la Möwe stava iniziando la
manovra di affiancamento.
“Chi comanda l'operazione?”
chiese il tenente.
“Il guardiamarina Mühlberger,
signore,” fu la risposta.
“Mühlberger? Allora sarà
meglio che vada fuori a controllare, quello è capace di ormeggiare
la Möwe con la corda del bucato.”
Tra le nubi filtravano qua e là
raggi di sole, facendo luccicare la superficie mutevole dell'acqua.
Le barelle dei feriti erano state allineate sul ponte di coperta in
attesa del trasbordo.
Lindenmeyer nel frattempo si era
svegliato e si guardava intorno ancora un po' stranito, scambiando di
tanto in tanto qualche parola a bassa voce con von Scheven.
Reese li raggiunse. “Tutto a
posto?” chiese all'amico.
“A posto,” confermò l'altro.
“Salutatemi la Germania.”
“Torneremo presto,” gli
assicurò Reinhardt, poi scambiò un'occhiata come d'intesa con
Lindenmeyer, che annuì con un sorriso.
Si avvicinarono a quel punto
alcuni marinai.
“Ora dovete andare,” disse
Reese. “Salute e vittoria!”
“Salute e vittoria!”
risposero i due all'unisono, poi gli uomini sollevarono le loro
barelle e si allontanarono.
Reese rimase a fissarli in
silenzio.
Intorno alla Möwe volteggiavano
stridendo innumerevoli gabbiani. Due di essi si inseguirono per un
po' facendo capriole nel cielo, poi passarono velocissimi sul pelo
dell'acqua. Uno si immerse, quindi balzò fuori dalle onde in una
corona di spruzzi cristallini, risalì verso uno squarcio di azzurro
inseguito dall'altro e poi i due si allontanarono volando affiancati.
“Salute e vittoria,” ripeté
Reese, lo sguardo fisso sulla Möwe che prendeva il largo.
[1] Nel gergo della marina
tedesca il Vecchio è il comandante della nave, anche se è un
tenente di vascello di venticinque anni e magari ci sono a bordo
marinai che hanno il doppio della sua età.
[2] Letteralmente “straccio
unto” in Plattdeutsch. Era il termine con cui nella marina tedesca
si indicava il cuoco.
[3] Schifferklavier, termine con
cui nella marina tedesca si indicava la concertina.
[4] “Das kann doch einen
Seemann nicht erschüttern”, canzone tratta da un film del 1939 dal
titolo “Paradies der Junggesellen”.
[5] Un comandante diventava
“Asso” quando aveva affondato almeno 100.000 tonnellate di
naviglio nemico.
[6] Combustibile solido, tuttora
esistente, che durante la guerra era in dotazione alle truppe
tedesche assieme ad appositi fornellini.
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