Daft
like a sparrow
Restare impelagato per tre giorni di seguito nella bonaccia,
su una barchetta senza vele e senza remi, tutto solo, con una bussola
rotta, nel bel mezzo dell’oceano, molto probabilmente sarebbe
meno tedioso che sorbirsi questa interminabile messinscena.
Non so più come intrattenermi per non sbadigliare
vistosamente.
L’avvenente dama in giallo seduta nella fila di fronte, con
la quale avevo intrattenuto un eloquente dialogo di sguardi fino a
pochi minuti fa, di punto in bianco mi ha dato il benservito,
lasciandomi col dubbio di aver frainteso le sue intenzioni.
Perciò non mi resta che volgere la mia attenzione altrove,
anche se c’è ben poco da osservare, tra austere
figure di pietra che mi spiano con cipigli severi e oscure tele dipinte
di immagini macabre e fantasiose che raccontano storie a me ignote.
Le vetrate colorate però non sono malaccio, volendo
s’intonerebbero anche ad una nave.
Sì, sulla Wicked
Wench farebbero proprio un bel figurone.
Quanto vorrei darmela a gambe e trovarmi già sul molo,
pronto a salpare con lei per un nuovo orizzonte, fosse anche
l’ultimo viaggio della mia sordida vita.
Il mare, sin da quando ho mosso i primi passi, ho imparato, se non a
dominarlo – poiché per chiunque possieda carne e
ossa è impresa pressoché impossibile –
per lo meno a conoscerlo, prenderlo, amarlo e rispettarlo, anche quando
si mostra inesorabile e ostile. Intrappolato tra queste fredde
mura comincio a provare un soffocante senso di nausea.
Il mio vicino di posto, un pallido gentiluomo dalla lunga e finta
chioma corvina tutta riccioluta, da cui sporge un nasone adunco simile
al becco di un rapace, mi lancia un’occhiataccia colma di
rimprovero, udendo l’imprecazione poco signorile che mi sono
lasciato scappare tra i denti, squadrandomi dalla testa ai piedi con
malcelato sdegno.
Ed io oggi mi maledico per la centesima volta, per aver accondisceso a
quest’increscioso compromesso.
Con sguardo oltremodo spazientito vago in cerca di quello del
responsabile di questa immane seccatura, ma riesco a scontrarmi solo
col retro della sua testolina azzimata. Tutto tronfio nella sua nuova
casacca di pregiato broccato turchese, se ne sta seduto in prima fila e
pare completamente immerso nell’ascolto di questa soporifera
omelia recitata da un omuncolo incartapecorito.
È a pochi passi dall’altare e dall’amata
cugina, che un pomposo e pluridecorato rampollo della
nobiltà britannica, avviato ad una brillante carriera
militaresca, sta immeritatamente per impalmare. Un matrimonio di tutto
rispetto e che porterà lustro ad entrambe le ricche
famiglie, così dicono.
Quando ho conosciuto quella graziosa e amabile fanciulla, sono rimasto
profondamente colpito e sconcertato dalla radicale differenza esteriore
e caratteriale con il detestabile e impeccabile agente commerciale:
tanto quello è algido e artificioso, quanto quella appare
vivace e spontanea, con i suoi grandi occhi color del cielo che
spiccano come purissimi zaffiri sul volto roseo incorniciato da boccoli
ramati.
Eh sì, dopo che me l’ha presentata, di sfuggita e
quasi di malavoglia, ho senz’indugio sognato di poter
incontrare ancora quell’incantevole donzella, intuendo
già che sarebbe stata condannata a non conoscere mai la
travolgente, inebriante ebbrezza della passione, maritandosi con uno
scialbo stoccafisso del genere.
«Uno stoccafisso, forse è più sveglio
di quel coso lì», bofonchio tra me e me,
sbirciandomi le unghie su cui persistono tracce indelebili di bistro,
inchiostro di china e polvere da sparo che le anneriscono,
rammentandomi sin troppo bene chi io sia in realtà, e chi
stia fingendo di voler essere.
Sono un grezzo marinaio con un passato ignobile, che a stento sto
tentando di occultare, imparando a muovermi e a parlare come un
impeccabile gentiluomo, ostentando buone maniere,
cordialità, eleganza. Ci ho messo davvero tutte le mie buone
intenzioni, ma ho il sentore che cotali sforzi siano vani, sento che
gli altri vedono sempre qualcosa di diverso, di criticabile, di
profondamente sbagliato in me. Talvolta è
un’espressione troppo colorita o un gesto eccessivamente
audace, un’occhiata giudicata irrispettosa, oppure, eccola,
sulle punte degli scomodissimi stivali di lucido cuoio nero,
un’altra macchia, che tento di ripulire alla bell’e
meglio, strofinando il piede dietro lo stinco dell’altra
gamba, sperando che non vada a insozzare pure il pantalone.
I miei goffi movimenti, come prevedibile, attirano i mormorii di una
rugosa megera con le guance grottescamente imbellettate di rosso, che
non la fanno apparire meno prossima alla dipartita.
Forse sto semplicemente mentendo a me stesso: non ho niente da spartire
con questo mondo intessuto di pettegolezzi e convenevoli, mostrine e
parrucche, inibizioni e monotonia.
Non posso rinnegare ciò che sono sempre stato. Sono nato e
cresciuto libero da regole. O almeno così credevo, ma
ahimè, anche tra i peggiori furfanti esistono codici
d’onore cui non si può sfuggire per sempre. Per
orgoglio ho tradito la mia gente e quella, senza troppe cerimonie mi ha
rinnegato, mentre questi qui mi hanno accolto tra le loro file.
Così ho finito per cambiare fazione e sto ancora scontando
il mio debito.
È stata davvero una scelta obbligata? Forse no, è
stata dettata solamente da mero istinto di sopravvivenza e da un
cocente rancore.
Ad ogni modo, adesso pagherei tanto oro quanto peso pur di potermi
trovare al timone di un vascello nel bel mezzo di un uragano.
Finalmente qualcuno lassù in fondo sembra aver ascoltato le
mie disperate preghiere.
“Andate in pace”,
proferisce il vegliardo prelato, come se fosse una gran concessione.
Tra un composto scroscio di applausi e un intenso fruscio di vesti, mi
accorgo che tutti quanti si sono destati, dunque seguo il loro esempio
e mi accodo anch’io agli ospiti agghindati che con passi
misurati si fanno strada tra questa selva di colonne di marmo per
avviarsi al sospirato rinfresco in giardino.
Spero che perlomeno il banchetto nuziale sia all’altezza di
tanto sfarzo e che possa abbordarlo senza tanti salamelecchi.
All’aria aperta torno a respirare, pur se costretto dalla
stretta fusciacca che mi impone di stare dritto come un bastone. E
immancabilmente percepisco decine di facce esterrefatte appuntarsi alla
mia, mentre mi aggiro in cerca di qualcosa che ancora non so, pur di
sottrarmi alle loro analisi.
Devono giudicarmi una specie di animale esotico, nonostante mi sia
abbigliato come molti di loro, lasciando in cabina i miei soliti comodi
abiti marinareschi per infilarmi in una divisa che comunica a tutti il
mio onorevole grado di Capitano. Beh, dovevo prevederlo: la mia
pellaccia sudicia, abbronzata e intrisa di sale non può
certo essere nascosta da un bel vestito inamidato.
Il sole velato e l’aria umidiccia intanto lasciano presagire
l’arrivo di un bel temporale che porterebbe considerevole
scompiglio tra questa congrega di imbalsamati.
Poco male: almeno ci sarebbe un po’ di movimento! Questo
mortorio non somiglia affatto ad una festa, sto appurando, svicolando
tra parrucchini impomatati, braghe di seta e sottovesti merlettate, per
gironzolare tra le decine di tavoli imbanditi sotto chioschi addobbati
con rigogliose ghirlande floreali.
In gioventù ho avuto occasione di assistere a qualche
matrimonio pirata, spesso imbucandomi per sgraffignare impunemente
qualche dolcetto e goccetto, nell’animalesca euforia generale.
Ricordi lontani e annacquati ma mai dimenticati si riaffacciano alla
memoria nella loro prorompente bruttezza: sfoggio di tatuaggi e
cicatrici, grottesche canzoni e balli sfrenati, l’odore
pungente della carne affumicata sui boucan, qualche scazzottata e
soprattutto brindisi a profusione accompagnavano la celebrazione
dell’unione tra i due scellerati.
I matrimoni tra quelli della mia risma erano occasione di bagordi,
eccessi, baldoria, abbuffate, gare di sputi, di spade e di spari.
Qualche volta ci scappava anche il morto, ma l’atmosfera
restava comunque sempre gioviale e scanzonata.
Qui invece i partecipanti sembrano tutti defunti e la noiosa musica di
sottofondo somiglia ad una nenia funebre.
Tutto ciò continua irrimediabilmente a perplimermi. Avevo
inteso che durante un matrimonio si dovesse celebrare questa suddetta
forza misteriosa e invincibile che sottomette la ragione e avvince
anime e corpi, lega cuori e menti, in un turbine di follia. E dunque la
follia stessa dovesse dominare i festeggiamenti.
Ma nulla finora sta andando come me lo ero prefigurato. Sento
l’urgenza di tracannarmi qualcosa di molto alcolico per
riprendermi dalla pesante botta di sonno a cui rischio di soccombere.
Come mi avesse letto nel pensiero, uno zelante tizio in livrea mi passa
accanto con un vassoio traboccante di calici di vino. Decido ben
volentieri di aiutarlo, scroccandone un paio, così da
alleggerirgli il lavoro.
Non è paragonabile al rum, ma non posso essere tanto
schizzinoso. Il mio palato secco ringrazia. Adesso sì che
cominciamo a ragionare, ciò nondimeno a quest’ora
tarda del pomeriggio avrei anche un certo languorino, per cui decido di
avventarmi su quelli che dovrebbero essere i primi.
Solo che … Mannaggia! Tra portate a forma di velieri e
creature marine, composizioni di fiori color confetto e posate
argentate, distinguere cosa sia commestibile e cosa puramente
decorativo, è più arduo che attraversare il Capo
di Buona Speranza in pieno inverno! Ed io non voglio fare altre
figuracce con quei galantuomini che già mi osservano
sogghignando con la puzza sotto il naso, schifati dalle mie volgari
origini.
Dove diavolo è quel maledetto damerino quando serve?
Mi vendicherò per l’infida trappola in cui mi ha
attirato, con la falsa promessa di una ridente giornata di
divertimento.
Neanche ad averlo invocato ad alta voce, Cutler Beckett mi passa
accanto, avanzando superbo con un vezzoso bastone dorato al fianco.
Lo aggancio, prima che mi sgusci via, mescolandosi con gli altri
illustri invitati e intavolando qualche interminabile conversazione
politica.
«Di grazia, vorresti rammentarmi perché diamine ho
accettato di accompagnarti a questa buffonata?», lo esorto
palesando la mia irritazione per quest’allontanamento forzato
e insensato dall’amato veliero che lui stesso mi ha affidato.
Il signorino scosta il mio braccio dal suo, con un gesto affettato
della mano guantata: «Lord Penwallow ha esteso
l’invito a tutti gli alti ufficiali in servizio della
Compagnia che non fossero impegnati in spedizioni
all’estero», mi comunica senza degnarmi di uno
sguardo, salutando con un riverente movimento del capo una coppia di
vecchi bacucchi che ci passa davanti.
Dal suo atteggiamento sfuggente e distaccato, intuisco che la mia
vicinanza gli incute imbarazzo. Posso certamente dilettarmi a fargliene
provare ancora di più.
«Potevi spedirmi in qualche pericolosa colonia delle Indie
Orientali!», lo tampino, sistemandomi il nastro che sorregge
il mio già disfatto codino, «Almeno avrei
rischiato il collo, ma non che mi cascassero i gioielli di
famiglia!», incalzo salace, non curandomi che le orecchie di
qualcuno possano scandalizzarsi del mio linguaggio non propriamente
raffinato.
Le spalline di Beckett si irrigidiscono, mentre le sue gambette si
arrestano all’istante per poi fare marcia indietro e muoversi
flemmaticamente verso di me, affiancandomi, guardandosi attorno
circospetto, pronto a replicare ad eventuali accuse che potrebbero
essermi rivolte per la mia scarsa educazione.
So benissimo di essere il suo pupillo e il suo punto debole. Gli
procuro sempre tanti grattacapi. E brividi. Ho un insano ascendente su
di lui.
«Ah, ho capito … L’hai fatto apposta. La
verità è che mi volevi qui con te,
nevvero?». mi piego a sussurragli all’orecchio, con
voce bassa e provocante.
Lui sussulta appena mentre le pupille si dilatano, frementi. Nonostante
il fazzoletto che gli vela il collo, riesco a intravedere nettamente la
giugulare aumentare le pulsazioni e neanche la cipria di cui si ricopre
le guance può dissimulare un leggero rossore.
Non risponde alla mia provocazione, ma mi fa cenno di seguirlo alla
volta della tavolata più variopinta del buffet, con tartine
e altre ghiottonerie dolci e salate, invitandomi a servirmi con
discrezione, senza perdermi di vista neppure per un soffio. Non ho idea
di cosa siano tutte queste minuzzaglie, ma sono sempre stato un tipo
curioso e non mi faccio problemi a degustare un po’ di tutto.
Devo ammettere che sono di una bontà squisita! Non avevo mai
assaggiato niente di lontanamente simile in vita mia.
Il rancio di un marinaio è assai povero e ripetitivo, i
cuochi di bordo non hanno certo a disposizione una gran
varietà di ingredienti per preparare i due miseri pasti
giornalieri che ci spettano.
Ad ogni buon conto, non voglio dargli occasione di pensare che mi stia
sollazzando, perché non è punto così.
«Vedo che apprezzi particolarmente la pasticceria
italiana», mi volge un sorrisetto tirato e irritante,
vedendomi leccare avidamente le dita dopo aver ingoiato un paio di
dolcetti ricolmi di panna montata guarniti di piccoli dolcissimi frutti
rossi.
Una giovinetta lentigginosa dalle vispe pupille si copre la boccuccia
col ventaglio, assistendo alla stessa indecorosa scenetta che ho
offerto con sconcezza ai presenti.
«Potresti farmene trovare un po’ la prossima volta
che mi convochi nel tuo ufficio per vuote ciance, compare»,
gli propongo sfacciato, tracannando un altro sorso abbondante di vino
liquoroso che mi scioglie ulteriormente la lingua e le membra.
Ora riesco a muovermi con maggiore disinvoltura, mentre il volto cereo
di Beckett sembra un’inorridita maschera di pietra. Mi si
avvicina, facendo scivolare un braccio sotto il mio, sottraendomi la
bottiglia che avevo impunemente trafugato poco fa.
«Capitan Sparrow, la vostra permanenza nella Compagnia delle
Indie Orientali è già precaria. Considerate
quest’occasione come un segno di distensione diplomatica nei
vostri riguardi», sibila intimidatorio, stringendo la
mascella, ostentando la sua manierata impassibilità.
Si capisce che freme dall’urgenza di salutare qualche altro
dei suoi conoscenti, ma non intende mollarmi. È troppo
preoccupato dai danni che potrei combinare ed io, d’altro
canto, non sono ancora soddisfatto della quantità di
brindisi che sono stati elargiti agli sposi.
Per fortuna i camerieri sono così operosi che non
c’è il rischio di restare a bocca asciutta,
perciò mi consolo afferrando al volo un altro calice
traboccante di nettare d’uva, senza che lui se ne accorga.
«Come proseguono le ricerche sull’isola di
Kerma?», si lascia scivolare distrattamente, sbocconcellando
dei pasticcini alla frutta secca.
La mia lingua s’impunta, senza articolare suono alcuno. Ecco,
la pacchia è finita. Proprio non riesce a non parlare di
lavoro. Il potere e la ricchezza sono le sue uniche ragioni di vita.
Lui li definisce ambizione e dovere. Vizi mascherati da
virtù e crimini spacciati per affari.
È vero che ho bevuto, ma non così tanto da
permettergli di rovinarmi lo spasso.
Oltretutto non vorrei che qualcuno di questi frivoli rammolliti
fantasticasse su una qualche tresca tra me e lui. Ho già una
pessima reputazione, le malelingue sul mio conto si sprecano. Non ci
tengo ad alimentare altre maldicenze sul mio conto.
«Perdonami, Cutler. Siamo una coppia male
assortita», mi congedo freddamente da lui, adocchiando una
bella mora dalla procace scollatura che mi lancia occhiate languide ed
inequivocabili.
Come accidenti avevo fatto a non notarla prima?
Il mio pedante capo persevera a pedinarmi e interrogarmi, stizzito
dalla mia riluttanza ad assecondare la sua smania di controllarmi. Sta
diventando un po’ troppo invadente, per i miei gusti.
Prima mi aveva deliberatamente ignorato, e adesso non si stacca
più da me, la piattola.
Pianto i tacchi, manifestandogli le mie nobili intenzioni:
«Ne riparleremo immantinente. Ma ora credo che
andrò ad importunare qualche madamigella bisognosa di virile
compagnia», ammicco allusivo, appropinquandomi
all’affascinante creatura che mi sta inviando espliciti
segnali di disponibilità, sottraendo ad un vassoio di
passaggio un altro paio di bicchieri.
Il mio aspetto da intraprendente mascalzone impunito riscuote un qual
certo successo, quello che il piccoletto non sarà mai in
grado di ottenere con i suoi soli mezzi e per cui prova invidia e
ammirazione.
Mi lascia un po’ di libertà per il momento, ma la
mia coscienza ben sa che quest’intesa tra me e lui non
potrà funzionare ancora per molto.
Salve gente!
Dopo qualche anno
rieccomi ancora una volta ad infestare queste acque con una nuova
one-shot avente per protagonista il mio sempre adorato Capitan Jack
Sparrow. ^_^
Tutto è nato da una battuta del primo film della saga su cui
mi sono sempre interrogata, ovvero quel "Un matrimonio! Adoro i
matrimoni, da bere per tutti!" E così ho cominciato ad
immaginare in quale occasione il nostro sgangherato pirata preferito
avesse potuto prendere parte ad un matrimonio ed è uscito
questo slice of life/missing moment che ho voluto collocare
però al periodo in cui si trovava a lavorare al servizio
della Compagnia delle Indie Orientali.
Tutto qui, fanfiction senza tante pretese che ho composto a
più riprese, ma giusto per distrarmi un po' e rimettermi in
esercizio con la scrittura.
Ringrazio quanti sono arrivati fin qui e spero di essere riuscita a
regalarvi qualche momento di svago.
Al prossimo approdo!)
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