Herz aus Stahl

di Saelde_und_Ehre
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XVIII.
Treu wie die deutschen Eichen,
wie Mond und Sonnenschein
 
 

L’aria era irrespirabile, gravata da un fumo denso che portava con sé odore di bruciato e polvere da sparo; la terra era scossa dai sussulti provocati dall’artiglieria pesante. Soldati di entrambi gli schieramenti si muovevano barcollando tra le macerie che invadevano strade dilaniate da crepe e crateri, si nascondevano nelle case distrutte dalle bombe, pronti a sparare a vista su chiunque portasse una divisa di un colore diverso.
Il frastuono era così assordante che, per quanto forte si sforzasse di gridare, il maggiore Bühler doveva ripetere gli ordini almeno due o tre volte prima che qualcuno potesse recepirli correttamente. Vicino a lui, sdraiati per terra dietro un mucchietto di mattoni, c’erano Schreiber e Hanke con la MG 34: il giovane soldato reggeva il nastro e il caporale stava chino sul mirino, pronto a fare fuoco contro qualunque nemico comparisse nel suo campo visivo.
Bühler doveva stare curvo dietro il muro, con le ginocchia piegate, per evitare che i polacchi al di là del suo riparo si accorgessero della sua presenza. Cercavano di contenere l’avanzata dei tedeschi martellando le loro postazioni con l’artiglieria pesante, mentre la fanteria attaccava di sorpresa i gruppi che rimanevano isolati. Hans passò in rassegna i soldati che lo circondavano: una mezza dozzina avevano trovato posto in una larga crepa che divideva in due la strada; degli altri vedeva spuntare gli elmetti e le canne dei fucili al di là dei sacchi di sabbia. Il caporale Schneider era in retroguardia coi suoi serventi e l’obice da 105, tutti gli altri dovevano essere sparpagliati per il paese, sotto la guida dei rispettivi comandanti di plotone.
Di quello che resta dei loro plotoni, puntualizzò mentalmente: per quanto ovvio, quel pensiero ebbe lo stesso impatto di una rivelazione impovvisa.
Guardò l’orologio, poi aprì e richiuse la mano destra, sentendo le dita intorpidite: non era nemmeno metà mattinata, ma gli sembrava di combattere da un tempo lunghissimo e inquantificabile. Si era messo i guanti per coprire la fasciatura alla mano, ancora in via di guarigione, e le bende troppo strette impacciavano i suoi movimenti.
Pochi istanti dopo, un boato fece tremare l’aria e uno schianto terribile anticipò l’esplosione. Bühler ritirò la testa tra le spalle mentre l’ordigno impattava contro la facciata di una casa, spargendo schegge e calcinacci, e i mattoni rotolavano giù sollevando una nube di polvere. Seguirono alcuni istanti di quiete sospesa, poi il bombardamento d’artiglieria riprese ad abbattersi sulle postazioni tedesche.
“Tutti giù!” latrò il maresciallo Eichmann, prima ancora che il maggiore potesse avvedersi di quello che stava succedendo. Sentì semplicemente un rumore immane che gli perforava i timpani, risucchiandogli l’aria dai polmoni, poi rotolò all’indietro su un cumulo di macerie con la testa che gli pulsava.
Dovette mordersi la lingua per reprimere un’imprecazione e la bocca gli si riempì di sangue: con la coscienza ancora annebbiata sentì acuirsi il dolore dei lividi che aveva sparsi sul corpo, e i punti di sutura che aveva sul fianco, non ancora del tutto rimarginati, si tesero fino a dargli l’impressione di volersi strappare.
Qualcuno, faccia a terra, grugnì un lamento. Una nebbia densa e grigiastra, rovente, avvolse le figure dei soldati e i colpi di tosse si sostituirono alle imprecazioni. Un ferito, da qualche parte, emise un gemito straziante.
Hans si tirò su, cercando di ricomporsi, e vide un lampo arancione stagliarsi nitido contro la caligine: il fuoco doveva aver aggredito qualcosa che si trovava al di là della coltre di fumo, divampando e ruggendo. Presto sarebbe arrivato anche da loro.
“Dobbiamo cambiare postazione,” disse, la gola ancora irritata dal fumo e gli occhi che gli bruciavano. “Qui è troppo pericoloso. Prendete con voi i feriti e andiamocene!”

La pioggia di ordigni esplosivi si era momentaneamente spostata altrove, ma i cannoni continuavano a tuonare la loro ira.
Bühler controllò ancora una volta che i suoi soldati fossero saldi nelle loro posizioni, poi si sedette con la schiena contro un ridotto, trasse fuori dalla tasca il taccuino e iniziò a prendere appunti per l’ennesimo rapporto richiesto dal tenente colonnello von Rauheneck.
Aveva scritto appena un paio di righe quando un rumore di stivali militari che si avvicinavano attirò la sua attenzione.
“Un po’ di caffè, signor maggiore?”
Hans alzò la testa e si trovò di fronte il sergente Böhmer, con due tazze fumanti tra le mani.
“Grazie, sergente,” rispose con un cenno del capo, prendendone una. Mise da parte il taccuino e, mentre fissava un punto indefinito di fronte a sé, rimase assorto a sorseggiare il caffè, il fragore della battaglia che continuava a riecheggiargli nella testa.
Iniziava ad avvertire la stanchezza tutta insieme, come se il suo corpo e la sua mente stessero realizzando solo in quel momento che non dormiva da giorni, reclamando a gran voce qualche ora di riposo.
L’ultima volta che aveva dormito, nello scantinato del casolare, l’aveva fatto con la pistola sotto la giacca arrotolata che usava come cuscino, ed era stato ridestato dopo nemmeno un’ora dall’allarme delle sentinelle.
L’ultima volta che aveva dormito veramente, in un letto degno di tale nome, era insieme a Friedrich, in Germania, chilometri e chilometri lontano da certe preoccupazioni.
Si passò una mano sul viso, poi vuotò la tazza in un unico sorso: il sonno, così come indugiare in pensieri che non avevano nulla a che vedere con la situazione presente, erano un lusso che non poteva permettersi in quel momento. Eppure, non poté impedirsi di chiedersi quando Friedrich lo avrebbe di nuovo raggiunto: sapeva che quando si metteva un’idea in testa – per quanto rischiosa fosse – non c’era più verso di smuoverlo, ma la sera prima lo aveva visto vacillare, aggrapparsi a lui come in cerca di un appiglio, e l’urgenza di proteggerlo e vegliare su di lui lo attanagliava tanto quanto quella di vincere la battaglia.

Friedrich von Kleist alzò la testa, schermandosi gli occhi con una mano per proteggersi dalla luce lattiginosa che perforava le nubi: il cielo grigio ribolliva di Stuka in rotta verso Varsavia, mentre i caccia volavano minacciosamente bassi.
Sollevò quindi il binocolo, cercando di intercettare il camion dei rifornimenti venuto a recuperare suo fratello Manfred e il gregario Weber, che attendevano a un lato della strada coi giubbotti di pelle sopra le uniformi sgualcite: avrebbe dato loro un passaggio per poi lasciarli non distante dal primo aeroporto lungo la strada, dove sarebbero ripartiti per la Prussia Orientale.
Quando il veicolo comparve in lontananza, coperto da un telone verde, Manfred si avvicinò a Friedrich e lo strinse in un abbraccio. Colto alla sprovvista, il capitano ricambiò con goffa reticenza, quasi temendo che quel contatto così ravvicinato potesse rivelare i suoi pensieri più reconditi.
“Finite le battaglie nei cieli, adesso ci aspettano le missioni di attacco al suolo,” disse l’aviatore. “Forse riuscirò a vederti, da lassù.”
“Per noi sarà una battaglia cruenta, casa per casa,” mormorò Friedrich, come se stesse parlando tra sé.
Il furgone accostò, mise il motore in folle e suonò il clacson, interrompendo il breve silenzio che si era frapposto tra loro.
Manfred si svincolò e guardò il fratello dritto in faccia: suoi occhi cobalto erano cupi e in essi non c’era traccia della sua usuale ironia. “Abbi cura di te, Fritz.”
Friedrich strinse le labbra, ma non disse nulla. Forse suo fratello, che celava la sua preoccupazione dietro un tono fermo, aveva intuito i suoi tormenti così come li aveva intuiti Hans, anche se lui non ne aveva fatto parola con nessuno dei due. Nemmeno si preoccupò di annuire: non poteva promettere qualcosa che non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere.
Nonostante la Kübelwagen di Schmidt ferma alle sue spalle, pronta a riportarlo in prima linea, egli rimase a guardare il fratello mentre si allontanava col passo ancora strascicato. Totalmente ignaro di certi problemi, il sottotenente Weber gli tese la mano e Manfred balzò sul cassone del camion; poi, mentre il veicolo manovrava per tornare indietro, si affacciarono entrambi a salutarlo agitando le braccia.
Friedrich deglutì per sciogliere il groppo che gli ostruiva la gola, chiedendosi se mai li avrebbe rivisti. Quel pensiero, che a ogni ora si faceva sempre più invadente e incombeva sul suo capo come il velo dell’Apocalisse, gli fece salire un fastidioso pizzicore agli occhi.
“Signor capitano?”
La voce di Schmidt lo indusse a voltarsi: aveva rimesso in moto la macchina e, dal modo in cui tamburellava le dita sul volante, sembrava impaziente di partire. Egli annuì e salì al posto del passeggero, dandogli il segnale della partenza.
L’autiere svoltò con una sgommata e partì alla massima velocità senza neanche il bisogno di chiedergli conferma. Guidava attraverso le stradine di campagna con la fronte corrugata, lo sguardo fisso di fronte a sé, e schivava gli ostacoli che gli si paravano dinanzi con curve così brusche da far sobbalzare Friedrich sul sedile.
Quando giunsero al villaggio, la feroce battaglia era già iniziata.
Il caporale accostò senza nemmeno spegnere il motore, von Kleist scese con un balzo e si diresse di gran corsa verso le prime linee, alla ricerca del comandante di battaglione.

Vide la figura di Hans riemergere come un pilastro in mezzo al fumo delle esplosioni e le figure barcollanti dei soldati. Udì anche la sua voce impartire ordini nella concitazione delle grida, ma non riuscì a cogliere le sue parole. Per una qualche ragione che non seppe spiegarsi razionalmente, il cuore prese a battergli più forte.
Si fece strada tra le schiere, si fermò di fronte a lui ai tre regolamentari passi, scattò sull’attenti battendo i tacchi. “Capitano von Kleist a rapporto, signor maggiore!”
L’uomo gli ordinò il riposo con un gesto asciutto, restituendogli un’espressione indecifrabile. “È necessario un approvvigionamento di munizioni, capitano.” Più che una comunicazione improvvisa, quella richiesta gli parve una mossa premeditata. “Si metta in contatto con la sezione logistica, prego: mi aspetto che gli obici da 105 vengano riforniti quanto prima.”
Von Kleist rimase per un attimo impietrito, gli occhi sgranati fissi su di lui. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo: qualunque replica potesse venirgli in mente, sarebbe stata troppo pungente e inadeguata a quel contesto. Si irrigidì e aggrottò le sopracciglia, la sua voce divenne gelida. “Sì, signor maggiore.”
Salutò senza dire una parola, gli voltò le spalle e si allontanò a grandi passi.
Più dell’umiliazione, quella decisione presa senza consultarlo gli bruciò quanto un rifiuto, e lui sapeva per esperienza diretta quanto potesse fare male. Hans lo chiamava sempre al proprio fianco durante le battaglie, contava sul suo appoggio tanto quanto lui aveva imparato a riporre una fiducia incondizionata nella sua guida: il pensiero che il suo amante – colui che avrebbe seguito fino in capo al mondo e che, a sua volta, l’aveva reso partecipe dei propri dubbi – potesse privarlo di quel ruolo che lui con tanta fatica aveva conquistato, lo colpì come l’ennesima pugnalata. Era come se improvvisamente Hans gli avesse negato la sua fiducia, la sua stima, e forse anche qualcosa di più intimo e ineffabile.
Si sforzò di non voltarsi: riusciva a immaginarlo benissimo, mentre si aggirava per le prime linee coi proiettili che fischiavano da ogni parte, o raccoglieva un’arma da terra per rispondere al fuoco dei nemici. Era sempre lui, il suo compagno e il suo comandante, saldo e fedele come le querce tedesche, ma la sua stessa natura l’aveva reso di nuovo inespugnabile come un bastione fortificato.
“Che cosa dovrei fare io, se tu finissi alla corte marziale? Stare a guardare impotente mentre ti tolgono i gradi e ti ricoprono di vergogna?”
Le motivazioni di Hans tuonarono come una sentenza, e la causa di quell’intervento categorico fu il lampo che fugò ogni possibile equivoco.
Notò distrattamente che stava iniziando a piovigginare; affrettò il passo proteggendosi il volto con la visiera del berretto. Quella risoluzione era un impedimento alla sua volontà: come avrebbe potuto, dalle retrovie, riscattare la sua colpa, riabilitarsi come ufficiale e riconquistare la piena stima del suo compagno?
“Promettimi che non farai colpi di testa, Preuße.”
“Perché ti preoccupi tanto per me?”
“Siamo camerati: penso che sia sufficiente come risposta.”
Stringendo i denti, si voltò di scatto: Hans era proprio lì dove lo aveva immaginato, riconobbe la sua presenza tranquilla e autorevole. Lesto, aveva raccolto un Mauser 98k da terra ed era strisciato dietro una statua mutilata, trascinando con sé un paio di soldati mentre un ordigno si abbatteva sulla strada.
Rimpianse ancora una volta di non poter essere accanto a lui, a combattere, e i sensi di colpa tornarono a pungolarlo come dardi acuminati.

Anche quando Friedrich si fu congedato, Hans rimase a guardarlo mentre se ne andava: il capitano gli dava ostinatamente le spalle e procedeva ad ampie falcate, costeggiando i muri. Coglieva il fastidio e la delusione nel suo atteggiamento – li comprendeva – e provava dispiacere per averlo allontanato con una scusa del genere, quasi come se non lo ritenesse più degno di ricoprire quel ruolo che era sempre stato solo suo. Tuttavia, qualcosa gli suggeriva che aveva fatto la scelta migliore: non riusciva ancora a capire quali fossero le sue reali intenzioni, ma riteneva di conoscerlo abbastanza bene da sapere che avrebbe ricercato a tutti i costi un’occasione per lavare via la precedente colpa.
Anche a costo di mettere a repentaglio la sua stessa vita…
Scacciò quel pensiero con rabbia e si ripeté che aveva senz’altro fatto la scelta giusta.
La voce del sergente Böhmer lo richiamò alla realtà. “Ecco che ricominciano!”
Un ululato cupo fendette l’aria, le mitragliatrici ripresero a crepitare. Le urla dei polacchi che incitavano alla battaglia si facevano sempre più vicine.
“Tutti ai propri posti!” ordinò il maggiore.
Raccolse un fucile da terra e scivolò dietro un vecchio monumento, trascinando con sé il soldato scelto Krause; il sottufficiale lo seguì brandendo un MP38. Un obice andò a schiantarsi per terra, facendo schizzare schegge e pezzi di pavimentazione, poi un’orda di nemici piombò loro addosso con veemenza.
I tedeschi risposero al fuoco, anche Hans dalla sua postazione armò il fucile. Nel premere il grilletto sentì un bruciore alla mano e qualcosa di caldo che gli scorreva lungo il palmo, appiccicandosi al guanto, ma non ebbe il tempo di pensarci: la furia della mischia non risparmiò nemmeno lui.
Sparò ancora una volta, schivò una sventagliata di proiettili, rotolò in un posto più riparato e ricaricò l’arma.
Nel mentre, aveva ricominciato a cadere una lieve pioggerellina, e le strade erano attraversate da rivoli fangosi che sotto gli stivali si trasformavano in mota. L’umidità rendeva l’odore della polvere da sparo ancora più sgradevole, ma la pioggia ripuliva il sangue.
Gradualmente, alla cacofonia si sovrappose un altro rumore, basso e continuo: lo sferragliare di decine di cingoli. “Sono arrivati i Panzer!” gridò il caporale Hanke.
Bühler si lasciò scappare un sospiro di sollievo. “Tenere la posizione!” ordinò.
Ansante, trafelato, si abbandonò con la schiena contro il muro e si tolse il guanto: le fasciature erano inzuppate di sangue, ma nel frattempo l’emorragia era cessata e il dolore gli parve tutto sommato sopportabile. Le rassettò alla bell’e meglio, si rimise il guanto e tornò al proprio posto – prima, però, dedicò a Friedrich un ultimo, fugace pensiero: doveva essere ormai arrivato a destinazione.

Nuvole basse, cariche di pioggia gravavano sul villaggio, avvolgendolo in un’atmosfera umida e grigia.
Affacciato all’oblò della torretta di comando del Panzer III, le cuffie in testa e l’immancabile binocolo in mano, Reinhardt Greifenberg scrutava attento la zona, volgendosi poi di tanto in tanto per controllare che gli altri blindati della compagnia fossero sempre dietro di lui.
Ai lati delle strade si era accumulato uno strato di fango molliccio, che recava le impronte di molti stivali e si aggrappava tenace ai cingoli dei Panzer. I segni della battaglia erano presenti a ogni crocevia: cadaveri abbandonati sui marciapiedi, armi scariche ed elmetti sfondati, lampioni divelti, edifici anneriti dalle fiamme. I rumori gli giungevano attutiti dal rombo del motore, ma le colonne di fumo che si levavano al di sopra dei tetti – quelli che ancora si ergevano nonostante i bombardamenti – indicavano che dovesse essere particolarmente cruenta.
“Signor capitano, una comunicazione da parte del maggiore Wittmann!” lo richiamò il marconista.
Poco dopo, la voce del comandante risuonò nelle cuffie del capitano. In sottofondo si sentivano i tuoni delle cannonate e i ruggiti dei carri armati. “Vi raccomando la massima attenzione,” disse l’uomo, col suo consueto tono calmo. “Gli scontri armati dilagano per tutto il centro abitato, la fanteria è sparpagliata per la città. Diverse compagnie sono sotto il tiro continuo dell’artiglieria nemica.”
Reinhardt annuì, poi chiese: “Si sa dov’è attestata?”
Si udì un’esplosione, alcune grida attraverso il canale radio. Un’interferenza disturbò il segnale, poi Wittmann rispose: “Nella città vecchia, vicino alle rovine del castello: è da lì che bombardano i nostri.”
“E voi dove siete, signor maggiore?”
“Siamo già sul posto, li stiamo accerchiando per neutralizzare le bocche da fuoco. Ci raggiunga, capitano.”
“Arriviamo subito, signore.”
“Bene, conto su di voi.”
La comunicazione si chiuse e, al segnale del capitano, la colonna ripartì, serpeggiando per le stradine sconnesse del centro storico: poche case erano state risparmiate dalle bombe, e ombre scure si aggiravano all’interno degli specchi vuoti delle finestre. Reinhardt ritenne più saggio non esporsi al tiro di eventuali cecchini nascosti e si riparò all’interno della torretta, protetto dalla corazza di ferro insieme ai suoi camerati.
L’Uscha Keller e il soldato Lange parlavano di amenità, mentre Richter cercava senza risultato di attirare la loro attenzione. Hirschel, come sempre silenzioso, li conduceva attraverso quelle strette calli.
Reinhardt lasciò vagare lo sguardo all’interno dello stretto abitacolo della torretta: in un angolo c’erano un paio di casse di birra, nell’altro scatole di munizioni impilate e armi individuali. Appesa alla parete, una foto dell’equipaggio: lui al centro, circondato dai suoi compagni che sorridevano con un’espressione di trionfo in viso; dietro di loro il Panzer lucido, con la Balkenkreuz dipinta di fresco e una tacca sul cannone a indicare la loro prima vittoria. Mentre indugiava nel ricordo di quel giorno, le sue labbra si piegarono in un leggero sorriso.
Fu uno scossone violento a strapparlo a quei pensieri: il Panzer sbandò, Lange urlò e, per non cadere, dovette aggrapparsi alla manovella per il brandeggio del cannone. Il motore ruggì in preda all’angoscia mentre il blindato s’inclinava come una nave sul mare in tempesta, facendo finire Keller addosso al capitano. Reinhardt sbatté la schiena contro la scaletta, un forte dolore gli colpì la nuca e la sua vista si riempì di farfalle bianche; il berretto gli cadde. La torretta ruotò come mossa da una forza immane, un altro tonfo scosse gli uomini all’interno e, con un ultimo miagolio stridulo, il veicolo si fermò come se avesse incontrato la resistenza di un muro di cemento, intrappolandoli in un istante di immobilità sospesa.
“Signor capitano!”
Col peso di Keller che gli gravava addosso, leggermente stordito dalla botta, Reinhardt cercò a tentoni la maniglia del portellone e la afferrò. Spinse via il cannoniere, si arrampicò sulla torretta e mise la testa fuori. Sbatté gli occhi abbagliato da un lampo; una carezza rovente gli lambì le guance: il motore sprigionava fiamme minacciose, che avevano aggredito anche l’olio rovesciato per terra. “Oh, merda…” si lasciò scappare.
“Che succede, signore?”
“Fuori, fuori!” ordinò per tutta risposta il comandante. “Prendete con voi solo le armi individuali. Sta bruciando tutto!”
Svelto, staccò la fotografia dalla parete e se la infilò nella tasca posteriore dei pantaloni, quindi abbandonò la torretta con un balzo agile.
Mentre si accertava che i suoi uomini stessero uscendo dal Panzer in fiamme, afferrò il microfono e aprì la comunicazione radio. “Parla lo Hauptsturmführer Greifenberg, seconda compagnia del primo battaglione. Barbarossa, numero 222, chiede una sostituzione!”
Dall’altra parte gli risposero che non c’erano altri mezzi disponibili e si scusavano per l’inconveniente. Greifenberg chiuse la comunicazione con un sospiro affranto, ordinò agli altri carristi della compagnia di procedere verso il centro del villaggio, poi si avvicinò di nuovo ai suoi camerati. “Dov’è Hirschel?”
Richter e Keller stavano cercando invano di spegnere l’incendio con un estintore, ma le fiamme sembravano farsi beffe dei loro tentativi. A quelle parole parvero sussultare. “Hirschel?”
“Signor capitano, venga!” Inorridito, Lange si era fermato di fronte alla corazzatura frontale del Panzer, squarciata da un obice proprio in prossimità della postazione del pilota. “Dobbiamo tirarlo fuori!”
Il fuoco, nel frattempo, aveva avvolto la torretta e si propagava intorno ai cingoli, alimentato dalla macchia di benzina che andava allargandosi.
“Andate in copertura, io vi raggiungo tra poco.”
Senza pensarci due volte, Reinhardt lo raggiunse e si arrampicò sulla parte anteriore del blindato. Una vampata di calore gli salì al viso, insieme all’odore acre del ferro carbonizzato. “Hirschel, mi senti?”
“Signor capitano…” rispose dall’interno una voce flebile, velata dalle ultime note roche dell’adolescenza.
“Hirschel, sono qui. Apri lo sportello, sbrigati!”
Le fiamme danzavano e palpitavano intorno a loro, così vicine da dare l’impressione di volerli ghermire. Greifenberg agitò una mano per allontanare il fumo e tossì.
“Hirschel, presto! Non c’è tempo da perdere!”
A quell’ennesima sollecitazione, il giovane soldato obbedì, palesandosi alla sua vista: i suoi lineamenti erano distorti in una smorfia e, per quanto si sforzasse di nasconderle, grosse lacrime gli rotolavano lungo le guance pallide. Quando si accorse del fuoco, le sue pupille si dilatarono per lo spavento. “Sono incastrato, signore… mi fa male la gamba.” Tentò ancora una volta di uscire, ma ricadde sul sedile stringendo i denti per il dolore.
“Vieni, ti aiuto io.” Senza perdere ulteriore tempo, l’ufficiale lo afferrò da sotto le ascelle e lo sollevò praticamente di peso, mentre il ragazzo faceva leva sulla gamba sana per tirarsi fuori da quell’ammasso di lamiere accartocciate.
Si allontanarono rapidi, l’uno correndo e l’altro zoppicando, con un braccio intorno al collo del suo comandante. Alle loro spalle, il motore divorato dalle fiamme esplose e la belva d’acciaio ristette in mezzo alla strada come un vecchio relitto carbonizzato.
Hirschel si abbandonò ansante contro il muro di una casa; Richter, Keller e Lange li raggiunsero poco dopo. “Ho chiamato i portaferiti, signor capitano,” annunciò il marconista.
Greifenberg annuì, passandosi una mano sul volto e ritraendola sporca di fuliggine. “Grazie, Richter.”
“Poveraccio,” mormorò tra sé e sé il pilota, con gli occhi ancora arrossati. Tra i suoi compagni passò qualche secondo di perplessità e di occhiate interrogative prima che tutti si rendessero conto che si riferiva al carro armato.
“Ne avremo un altro, migliore del vecchio Barbarossa… magari un Panzer IV, più lucido di quello del maggiore Wittmann.” Reinhardt sorrise indulgente. “L’importante è essere tutti qui, sani e salvi.” Piegò un ginocchio e si chinò di fronte al ragazzo, poggiandogli una mano sulla spalla. “Non dispiacerti, non è finita qui. Adesso dobbiamo separarci, ma ci ritroveremo tutti quanti a Lichterfelde. Sei stato un bravo pilota.”
Hirschel abbozzò un sorriso titubante. “E lei è il comandante migliore che potessi avere, signore.”
Il capitano gli diede una leggera stretta. “In bocca al lupo, Heinz.”
Attese l’arrivo dei portaferiti, poi si mise di nuovo in contatto col comandante di battaglione e gli riferì in breve l’accaduto.
“Non possiamo mandare nessuno a recuperarvi, al momento,” rispose il maggiore. “Mantenete la copertura e raggiungete le nostre unità di fanteria nella zona meridionale.”
“Ricevuto, signore.”
“Ho fiducia in lei, capitano,” concluse Wittmann. “Buona fortuna, ragazzi.”
Reinhardt chiuse la comunicazione con un sospiro, quindi si rivolse ai suoi uomini, che nel frattempo avevano ripreso a chiacchierare. “Unità di fanteria, zona meridionale. Sparate solo se attaccati e mantenete la copertura.”
Trasse la pistola dalla fondina, la armò e si mise alla guida del quartetto.

Il capitano Konrad von Bentheim si avvicinò alla finestra del rifugio che condivideva con gli uomini della sua compagnia. La sera scivolava languida sui tetti bagnati dalla pioggia, privando il cielo del suo colore. Attraverso le lenti del binocolo, i soldati erano macchioline nere che si muovevano furtive negli anfratti e poi scomparivano di nuovo, inghiottite dall’oscurità. Aveva ripreso a piovere più forte e le truppe di entrambi gli schieramenti stavano rintanate nei loro buchi in attesa di una mossa del nemico, che probabilmente sarebbe arrivata col calare della notte. Solo l’artiglieria – l’orecchio allenato di Konrad riconosceva i boati dei grossi calibri tedeschi – continuava il suo incessante lavoro.
I soldati che erano intorno a lui si godevano un’inaspettata pausa dagli scontri che avevano infiammato la giornata: alcuni dormivano coi bagagli arrotolati sotto la testa, altri giocavano a carte e chiacchieravano intorno a un tavolino sgangherato; il divano era riservato ai feriti meno gravi, che non avevano l’urgenza di essere trasportati in ospedale. I due uomini alla mitragliatrice pesante chiesero il cambio e andarono a raggiungere gli altri.
Konrad vide comparire all’imboccatura della via una dozzina di uomini delle Waffen-SS: quattro di essi, tra cui un giovane ufficiale alto e robusto, avevano l’uniforme nera sotto la cerata lucida di pioggia, gli altri erano fanti in grigioverde. Recavano con sé fucili e mitra, sembravano di ritorno da uno scontro armato. Due di loro avevano una MG 34: uno la portava bilanciata sulla spalla e l’altro gli trotterellava accanto con la cassetta delle munizioni. Si muovevano guardinghi nonostante si trovassero nel territorio controllato dai tedeschi, come se stessero cercando un punto strategico in cui acquartierarsi.
L’ufficiale, che scrutava ogni edificio, aveva un’andatura familiare. Konrad aguzzò la vista e lo riconobbe subito: era Reinhardt.
Quando il giovane alzò la testa volgendo alla finestra il suo sguardo acuto, Bentheim gli fece un rapido cenno come per avvertirlo che la via era libera. L’altro indicò in alto, parlò brevemente coi suoi uomini, quindi li guidò all’interno della costruzione. I soldati si fermarono al piano di sotto, insieme al resto della compagnia, e le voci si alzarono.
Reinhardt, invece, salì al piano di sopra e comparve nello specchio della porta, avvolto nella penombra del corridoio. Con sé aveva un MP38 e alcune granate a manico infilate dentro la cintura, gli scarponi erano zuppi d’acqua.
Salutò formalmente, poi si avvicinò, posò l’arma e si sedette accanto a lui sulla cassapanca. Il colore dell’uniforme nascondeva le macchie d’olio, ma Konrad intuì che dovesse essere successo qualcosa. “Tu che ci fai qui?”
“Due grossi calibri: il motore del vecchio Barbarossa è andato e il pilota verrà rimandato a Berlino in convalescenza. Abbiamo combattuto tutto il tempo con armi da fanteria.” Reinhardt si strinse nelle spalle, poi proseguì: “Siamo tutti sparpagliati e al momento non posso raggiungere il comando di battaglione, a meno di non farmi impallinare da qualche cecchino. Stavamo girando da mezz’ora alla ricerca di un posto dove passare la notte…” Alzò lo sguardo su di lui e sorrise. “Devo dire che nemmeno io mi aspettavo di trovarti qui.”
Konrad annuì. “Noi abbiamo smesso di combattere da un’oretta e siamo a fare la guardia a questo crocevia. Non sappiamo quando il nemico passerà al contrattacco, quindi restiamo vigili.”
“Abbi fiducia: sono sicuro che ce la faremo. Ci conviene approfittare di questi pochi momenti di quiete, no?” Scattò di nuovo in piedi e alzò la voce per farsi sentire dai soldati di fanteria ammassati all’interno della stanza. “Perché non cantiamo qualcosa che ci risollevi il morale? O, du schöner Westerwald…”

Il capitano von Kleist terminò di compilare l’ultimo rapporto per il comandante di reggimento e ingoiò l’ennesimo caffè freddo senza nemmeno sentirne il sapore.
Per sgranchirsi le gambe, si alzò dalla cassetta di munizioni rovesciata che usava come sedile e iniziò a muoversi avanti e indietro per l’angusto stanzino, allacciando le braccia dietro la schiena mentre i pensieri tornavano ad agitarsi come in un vortice che girava nel senso opposto rispetto ai suoi passi. Si sentiva diviso tra sensazioni contrastanti: non era soltanto l’umiliazione di essere stato costretto ad assolvere una mansione da contabile quando si era guadagnato la croce di ferro combattendo in prima linea, né l’impossibilità di riscattare un fallimento sia etico che militare; c’era anche qualcos’altro.
Al di là del loro legame, il fatto che Hans lo avesse scelto come suo aiutante di campo denotava un valore particolare, come quello di un’investitura cavalleresca: era il segno tangibile della fiducia che il maggiore nutriva per lui, e che lui – pur con tutta la sua buona volontà e credendo di fare la cosa giusta – aveva finito per deludere. Quella mossa improvvisa, più che una punizione, era stata come uno specchio rivelatore che lo aveva costretto a trovarsi faccia a faccia coi propri errori.
Eppure, sentiva che non era quello il vero motivo per cui l’altro lo aveva rimandato indietro.
Tornò a sedere, la schiena appoggiata al muro scrostato; sospirò e si passò una mano sul collo, affondando le dita tra le ciocche di capelli. Da una parte lo infastidiva il fatto che Hans avesse comunque scelto di interferire con la sua ferma volontà – che avesse voluto assumersi il controllo di quella faccenda, anche se lui gli aveva espressamente chiesto di tenersene fuori – ma dall’altra fu costretto a riconoscerne le ragioni più profonde.
Ormai ha preso la sua decisione…
Si chiese quali fossero le sue intenzioni – se esistesse qualcosa, nel regolamento della Wehrmacht, che potesse conciliare la difesa di un ufficiale ritenuto colpevole d’insubordinazione con la mentalità marziale e tetragona di Hans Bühler. Strinse il pugno, come per imporsi l’autocontrollo, ma ottenne solo di colpire con rabbia il muro: una consapevolezza simile era perfino peggio delle nottate insonni passate a dialogare coi suoi demoni.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta: tre colpi regolari, dati con la punta delle nocche. “Avanti,” disse il capitano, cercando di celare il suo cruccio dietro un tono asciutto. Si aspettava qualche portaordini, e invece a comparire sulla soglia fu proprio Hans.
Friedrich assottigliò gli occhi, fissandolo. “Signor maggiore.”
“Comodo,” lo blandì l’altro, prima ancora che potesse alzarsi. Si richiuse la porta alle spalle, si avviò tranquillo al tavolino e riempì due tazze di caffè, per poi offrirgliene una in silenzio. Non fece menzione della battaglia, nemmeno gli chiese – come di suo solito – se avesse finito di fare quello che stava facendo.
Diede una rapida scorsa ai rapporti mentre sorseggiava il caffè, poi si avvicinò alla vecchia finestra e guardò fuori; la sua figura slanciata si stagliava contro il rettangolo di luce fioca che proveniva dall’esterno. Anche se non avevano detto una parola, né si erano scambiati occhiate, Friedrich comprese che il compagno non era né irritato né infastidito, e la sua presenza riuscì a spazzare in parte il risentimento che covava. Rimase a guardarlo mentre si toglieva il guanto di pelle, scioglieva le bende, disinfettava il taglio e rinnovava le fasciature, e quel clima di silenziosa familiarità gli fece tornare in mente i momenti in cui Hans gli aveva rivelato di essere preoccupato per la campagna militare imminente: lui era l’unico a cui l’uomo di ferro avesse concesso di conoscere i suoi dubbi, anche se si era sempre ben guardato dal chiedere aiuto.
Quando ebbe finito, lo vide toccare la tasca dell’uniforme, come sempre quando era nervoso, per poi riabbassare il braccio come se si fosse ricordato di qualcosa all’improvviso.
“Qualunque cosa succeda… io voglio solo che tu sappia una cosa.”
“Cosa?”
“Che anche se tutti gli altri dovessero abbandonarti… io rimarrò con te.”
Come se fosse il successivo anello di una catena, ripensò a quando Hans l’aveva spinto nella fossa, proteggendolo col proprio corpo, e aveva sparato ai due fanti in avvicinamento.
Aggrottò le sopracciglia quando sentì lo sguardo indagatore del maggiore su di sé. Con un gesto meccanico, infilò la mano in tasca e ne trasse un pacchetto di sigarette sgualcito e mezzo vuoto. “Non ho trovato niente di meglio,” si schermì, porgendoglielo.
Hans si avvicinò, si rigirò l’oggetto tra le mani e lo fissò stupito. “Per me?”
“Io non fumo, lo sai,” rispose Friedrich, con un’alzata di spalle. “So che le avevi finite.” Nonostante ciò, omise accuratamente di averle ottenute dal caporale Schneider in cambio di una barretta di cioccolato al caffè.
Hans rise, suo malgrado. “Avrei potuto farne a meno per qualche giorno, ma… grazie.”
Si fece scivolare il piccolo dono nella tasca della giubba, poi si sedette al suo fianco e gli arruffò i capelli con un gesto affettuoso. Friedrich s’inclinò verso di lui, cercando la sua vicinanza senza neanche guardarlo, e rimasero lì, spalla contro spalla, fino a quando la luce non fu scomparsa dal cielo, lasciandoli avvolti nel buio più totale.

La postazione del comandante di battaglione era diventata una sorta di ultimo baluardo difensivo.
Il maggiore e il suo aiutante di campo avevano allestito due giacigli in un angolo; a separarli c’era una cassetta vuota su cui erano state poggiate le loro armi: i cinturoni delle pistole, un mitra, un fucile, alcune granate, e i binocoli.
Hans diede le spalle alla finestra che si affacciava sulla strada e si voltò verso il compagno che, seduto sulla sua branda, stava ripulendo la canna della pistola alla luce tremolante di un abat-jour. Aveva un’espressione profondamente concentrata, come quando cercava a tutti i costi di trovare una soluzione a un problema all’apparenza insormontabile.
Anche se non le aveva mai espresse ad alta voce, le intenzioni di Friedrich erano fin troppo chiare: sarebbe stato perfino disposto a farsi ammazzare pur di riscattarsi. Così chiare che per un istante gli balenò l’immagine del giovane, colpito a morte da un proiettile, che gli si accasciava tra le braccia con la giubba intrisa di sangue. Sbarrò gli occhi e sbatté le palpebre, come per scacciare quella visione ferale.
Gli sovvenne la storia di Eurialo e Niso, che ricordava a memoria fin dai tempi del ginnasio: l’irruenza di Eurialo e la condiscendenza del più anziano avevano portato alla morte entrambi, e si chiese se non avesse sbagliato a concedere al capitano così tante libertà sul piano militare, pur conoscendo il suo carattere indomito e orgoglioso.
Ma ormai era inutile guardare indietro: ciò che era stato fatto non poteva essere più cambiato; la chiave per la soluzione del problema stava nelle loro mosse successive.
Poteva tenerlo lontano dalla mischia per evitare che compisse azioni avventate, ma prima o poi avrebbero dovuto unire i loro sforzi per risolvere una volta per tutte quella faccenda. Ci voleva una missione da affidargli – qualcosa che potesse portare a termine con successo, contribuendo alla vittoria finale. Come quella volta, con la bandiera…
Friedrich ripose la pistola, allungò le gambe e si passò una mano sul volto, stropicciandosi gli occhi. “Nulla di nuovo all’orizzonte?”
“Nulla di nuovo,” confermò il maggiore. “Dormi pure, Friedrich, se avvisto qualche movimento strano ti sveglio io.”
“E tu?”
Egli fece spallucce. “Sono abituato a fare le notti in bianco.”
“Anche io, lo sai.”
Hans andò a sedersi sulla brandina di fronte a lui. “Allora veglieremo insieme.”

Prima del sorgere dell’alba – un’alba grigia, resa ancora più cupa dai bagliori delle esplosioni – gli edifici vomitarono ondate di nemici. L’orchestra dei cannoni riprese a intonare la sua agghiacciante sinfonia.
La battaglia divampò all’istante, con maggiore violenza: i polacchi si erano riorganizzati e avevano contrattaccato in forze; gli scontri dilaniavano la piccola cittadina.
Dalla sua postazione difensiva, il capitano von Kleist udiva con chiarezza le raffiche furiose delle mitragliatrici, le grida e gli echi delle detonazioni. Mentre guardava fuori dalla finestra dell’angusto locale, la sua mano toccava con febbrile agitazione la fondina della pistola e segretamente sperava che il maggiore Bühler lo richiamasse a sé: quell’attesa angosciante lo logorava ogni secondo di più.
Dal comando di reggimento non arrivavano comunicazioni, la radio taceva. Solo l’ansia continuava a scuotergli le membra e accelerare i battiti del suo cuore, seccandogli la gola.
“Signor capitano, una comunicazione urgente dal colonnello Wolff!” gridò Lindemann all’improvviso.
Friedrich sobbalzò come se un fulmine si fosse abbattuto a pochi passi da lui. Il cuore prese a martellargli nel petto, quasi strozzandolo. Inspirò profondamente per calmarsi, poi infilò le cuffie e afferrò il microfono. “Capitano von Kleist a rapporto, signore.”
Wolff disse qualcosa di incomprensibile: la sua voce giungeva a scatti, disturbata da un ronzio continuo. “Von Kleist? Von Kleist, mi sente?”
“Signor colonnello?”
Dall’altra parte giunsero altre parole sconnesse, tra cui il capitano colse ‘compagnia’ e ‘fucilieri’.
“Signore, il segnale è disturbato!”
“Capitano…” Uno scatto, un ronzio indistinto. “…maggiore…” Altri fruscii si susseguirono, rumore bianco, poi la trasmissione si chiuse.
Friedrich lasciò ricadere il microfono con un’espressione costernata in viso, mentre il resto del messaggio gli appariva tutto d’un tratto chiaro.
Lindemann armeggiò ancora invano per ripristinare la comunicazione, ma la radio taceva ostinatamente.
“Un sabotaggio?” ipotizzò l’ufficiale.
“È probabile, signore.”

Un’esplosione spedì tutti quanti a terra; la strada tremò mentre alle sue vibrazioni si sovrapponevano grida in polacco; di nuovo, la via si riempì di soldati in verde oliva.
Hanke e Schreiber strisciarono in copertura, riarmarono la mitragliatrice e ripresero a sparare, sferzando le schiere nemiche che continuavano a sciamare intorno a loro.
Hans si scrollò la schiena e i pantaloni dai detriti che gli erano finiti addosso, poi fece scorrere lo sguardo da un capo all’altro della linea che aveva fatto allestire: i suoi uomini resistevano, anche se molti di loro avevano bende insanguinate strette intorno alle braccia o che spuntavano da sotto gli elmetti. Di riflesso, controllò la sua fasciatura e rilevò che era ancora al suo posto: non doveva mancare molto prima che il taglio si rimarginasse del tutto.
Con la coda dell’occhio vide il sottotenente Kühn che, MP38 imbracciato, esortava il suo plotone a gran voce e si lanciava all’assalto delle postazioni polacche: anche quel ragazzo gli aveva dato diversi pensieri nelle ultime due settimane. Gli si avvicinò a grandi falcate, facendosi strada tra i mucchi di macerie, poi si appiattì contro un muro. “Restate compatti!” ordinò, lo sguardo fisso nella sua direzione.
Contrariamente alle sue aspettative, il sottotenente recepì subito e, pur con le labbra arricciate dalla delusione, dispose i suoi uomini come da ordini. Bühler finì di trasmettere le sue disposizioni a due sottufficiali, poi si allontanò di nuovo.
“Signor maggiore.”
Quella voce, fin troppo familiare, e il suo tono grave e serio, lo fecero immobilizzare sul posto. Che cosa ci fa lui, qui?
Si voltò lentamente, irrigidendo i muscoli, quasi sperando in cuor suo di aver avuto un’allucinazione. E invece, Friedrich era lì, a pochi passi da lui: aveva il volto e l’uniforme sporchi di polvere, e sulla guancia pallida rosseggiava un graffio.
“Von Kleist.”
Negli occhi del giovane passò il consueto lampo d’orgoglio, ma l’espressione rimase seria: di nuovo l’immagine dell’eroe classico, che sfidava la sorte a testa alta. “A rapporto, signore.”
Gli uomini che erano con lui, poco più di una squadra, sostenevano due feriti e davano l’idea di essere appena tornati da uno scontro particolarmente cruento.
Hans comprese quello che era successo prima ancora che il capitano glielo spiegasse, quindi lo fermò con un cenno sbrigativo. “Ne parleremo dopo. Adesso venga con me.”

La mischia li travolse prima che raggiungessero le barricate: alcuni polacchi avevano rotto lo schieramento e si erano lanciati sui tedeschi con la furia cieca di chi sa di non avere più speranze di vittoria. Ovunque dilagavano feroci corpo a corpo, le sagome dei belligeranti si contorcevano avvolte dal fumo.
Con surreale calma, la schiena appoggiata al muro, il maggiore trasse dalla fondina la pistola d’ordinanza e tolse la sicura. “Coprimi le spalle”, ordinò. “Vado avanti io.”
Friedrich annuì e lo seguì senza bisogno di una parola, come un cavaliere col suo condottiero.
Strisciarono lungo il muro per un tratto, guardinghi, poi furono assaliti da una mezza dozzina di soldati polacchi che sbarrarono loro la strada.
Incalzati dai nemici, i due ufficiali scivolarono dentro un androne deserto, invaso da detriti e pezzi d’intonaco farinoso. Non c’erano porte sul retro; una scala sconnessa saliva verso uno squarcio di cielo grigiastro.
Di comune accordo, iniziarono a sparare nel momento esatto in cui il primo componente della squadra mise piede all’interno: Friedrich udiva le detonazioni secche della Luger di Hans, mentre lui li respingeva con la sua. Un paio di soldati sobbalzarono sotto l’impeto delle pallottole e ricaddero all’indietro senza un lamento, un terzo alzò le mani e si allontanò sorreggendo un compagno ferito. L’ultimo, un sergente – Friedrich lo riconobbe dalle mostrine – abbaiò un ordine e una smitragliata costrinse entrambi ad arretrare.
“Ci penso io,” disse Hans.
Approfittando del tafferuglio, il sottufficiale estrasse la pistola e fece per puntarla su von Kleist, ma il giovane fu più rapido ed egli ricadde esanime al suolo colpito in pieno petto. Nello stesso momento, udì alle proprie spalle un altro colpo, e anche il mitragliere smise di sparare.
“Non c’è più nessuno,” constatò, abbassando l’arma.
Hans non rispose; il silenzio si fece denso come nebbia. Friedrich si voltò allarmato: si aspettava di ritrovarlo dritto con la pistola in pugno, ma l’altro aveva il braccio armato che gli ricadeva lungo il fianco e teneva la mano aperta premuta contro il petto. Rivoli di sangue gli colavano tra le lunghe dita e gli infradiciavano la giubba grigioverde.
La consapevolezza, cruda e agghiacciante, diede forma concreta ai suoi timori. “Hans… cosa…”
Il volto dell’altro fu attraversato da un’espressione sofferente. Si morse il labbro inferiore, anch’esso sporco di sangue. “Devo andare… al posto di medicazione,” ansimò.
Von Kleist si affacciò all’esterno, alzò la voce. “Qualcuno chiami i portaferiti!” gridò, rivolto a una squadra che passava. “C’è un’emergenza! Il maggiore è ferito!”
“Agli ordini, signore!” rispose un graduato, mentre gli altri continuavano a correre qua e là in varie direzioni.
Friedrich tornò a dedicare le sue attenzioni al compagno: non emetteva un lamento, non chiedeva aiuto, ma le sue condizioni erano peggiori di quanto volesse dare a vedere. Anche se cercava di tenersi in piedi, dovette appoggiarsi a una colonna per non perdere il sostegno delle gambe.
Il capitano gli porse un braccio e lo aiutò a mettersi seduto, poi si chinò di fronte a lui. Quando fece per sbottonargli la giacca e la camicia per rivelare la ferita, Hans contrasse i muscoli in un istintivo moto di ritrosia, ma subito dopo si rilassò e lo lasciò fare. Sulla pelle pallida spiccava il foro di un proiettile e il sangue aveva ridotto la camicia a uno straccio bagnato.
Qualunque cosa Friedrich avesse potuto dire, gli morì in gola.
Una fretta febbrile s’impadronì di lui: doveva agire in fretta, doveva salvarlo. Strinse i denti cercando di tamponare l’emorragia, il cuore che gli martellava le tempie, mentre l’altro lo fissava con sguardo assente. Ogni tanto lo vedeva serrare le dita intorno alla stoffa o soffocare un lamento di dolore.
All’esterno, la battaglia continuava, incurante di loro.
Terminò di applicargli i bendaggi, gli riabbottonò la camicia e gli prese un braccio, passandoselo intorno alle spalle. “Vieni, andiamo, ti porto fuori,” lo sollecitò, senza preoccuparsi del peso che gli gravava addosso.
Hans scosse il capo, cercò di svincolarsi dalla sua presa, poi si riadagiò con la schiena contro la colonna. “Non c’è tempo, Friedrich.” Con un gesto impacciato, spinse la pistola verso di lui. “Vai fuori e raduna i soldati.”
“E tu?”
Le spalle del maggiore furono scosse da un tremito. “Aspetterò qui… i portaferiti arriveranno a momenti.”
“Io non ti lascio da solo!” ribatté d’impulso il capitano. Col tumulto che gli si agitava nel petto, il frastuono della battaglia, sempre più vicino, gli giungeva come attutito dallo scroscio di una pioggia impietosa, che faceva rumore ma non lavava via niente.
Hans esalò un profondo sospiro, che presto si trasformò in un rantolo di dolore. “È un ordine… del tuo superiore, capitano.”
Egli scrollò la testa con rabbia. Non posso, avrebbe voluto rispondere, ma si costrinse a tacere.
L’altro abbassò la voce: il suo tono già flebile era poco più di un sussurro. “Stavolta mi prometti che lo eseguirai senza discutere, Friedrich?”
Messo alle strette, il capitano sospirò. “Sì, Hans… signor maggiore.”
“Allora va’… non c’è tempo.”
Friedrich sentì che gli occhi gli si inumidivano; si sentiva come prigioniero di una realtà più alienante del peggiore tra gli incubi. Si fece scivolare la vecchia Luger in tasca e allungò una mano ad accarezzare i capelli color nocciola del compagno, sporchi di sangue e di sudore. Non riuscì a dirgli nient’altro: non ne ebbe la forza.
Si allontanò col volto rigato di lacrime e non fece nulla per nasconderle o asciugarle. Lasciò che sgorgassero, lavando via il sangue e la sporcizia dalle sue guance.

Esausto, Hans appoggiò la nuca alla colonna, la mano abbandonata in grembo, e chiuse gli occhi.
Come in un sogno, rivide le sue terre, le vigne e il castelli svevi, le dimore imperiali di Potsdam, il mare del Nord in tempesta, le Alpi innevate.
Vide la fattoria dei suoi nonni, le parate militari a Tubinga e la caserma di Heidelberg.
E poi di nuovo il campanile aguzzo del suo paese natio, il fiume d’argento che serpeggiava tra le case a graticcio, le colline irte di abeti che si estendevano a perdita d’occhio, le verdi foreste di guardia sul Reno.
Friedrich e il suo sguardo fiero, che gli andava incontro sventolando la bandiera della Divisione.
Ebbe l’impressione di galleggiare in un mare nero, come se il suo corpo avesse perso ogni consistenza, ma il dolore era qualcosa che lo teneva aggrappato alla coscienza.
Naufragò in quell’abisso col pensiero che il suo sangue non sarebbe stato versato invano.





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