Oltre
le apparenze
01
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Se non è un demonio, noi l’acciuffiamo
La
Ville Lumière è entrata da poco più di un mese
nel nuovo secolo e lo si nota bene dall'allegria che ancora permea la
città e i suoi cittadini, e dalle luci che sembrano ancora più
numerose e brillanti del solito. La primavera, ancora di là da
venire,
non ha mostrato per il momento i suoi segni distintivi, eppure v’è
un sentore d’eccitazione pronta a sbocciare e sembra si respiri
aria di novità ovunque, perfino nei quartieri poveri e nelle
bettole. Forse non durerà, si sofferma a riflettere il
presidente del consiglio nonché ministro degli interni
Valenglay, ma fintanto che porterà bei pensieri e leggerezza
sarà senza dubbio benvenuta.
Distogliendo
lo sguardo dal panorama che si può ammirare dalla sua
finestra, china un poco la testa sulla propria scrivania poco
distante e sospira esasperato: un altro stupido rapporto dalla
Sûreté, e può scommettere le sue entrate di un
anno che si tratta, di nuovo, di quel seccante ladro da strapazzo e
delle sue prodezze che tanto divertono il popolo. Ed è proprio
questo il problema maggiore; il prefetto Machaux può dire ciò
che vuole al riguardo, ma sprecare tanto personale e denaro pubblico
per correre dietro a una testa calda che piace alla gente non è
affatto un buon affare, economicamente e politicamente parlando.
«Che
diamine avrà combinato questa volta?» si chiede, un poco
amareggiato per essere stato distolto dal proprio studio del
benessere della comunità.
Nulla
di più facile, del resto, che togliere il sigillo apposto
dagli uffici della Sûreté per scoprirlo. Questo è
ciò che suo malgrado si appresta a fare, salvo pentirsene
nemmeno tre minuti dopo, intento a sorbirsi gli sproloqui di quel
borioso del prefetto, oltre che le spiegazioni prolisse e noiose
dell'Ispettore Capo.
«Buon
Dio, che perdita di tempo, che perdita di denaro, e che perdita del
già scarso prestigio di cui godono» lamenta, sapendo di
parlare unicamente a sé stesso, poiché si trova solo
nel suo ufficio. «Farei prima ad assumere questo tizio. Molto
probabilmente mi costerebbe meno che cercare di metterlo dietro le
sbarre e poi mandarlo al patibolo. Chissà» borbotta,
rimuginando sui suoi progetti con tutta probabilità
irrealizzabili.
***
In
un altro edificio e in un differente ufficio il prefetto Machaux sta
facendo una lavata di capo all'Ispettore Capo, reo d'essersi lasciato
sfuggire, lui e la sua squadra al completo, il ricercato per
l'ennesima volta, l'ultima di una serie apparentemente infinita.
«Signor
prefetto, quell'uomo è una specie di demonio. I miei ragazzi
non...» tenta di spiegare le proprie ragioni Justin Ganimard.
«Avete
detto giusto: quell'uomo.
Ed essendo egli un comune mortale esiste di certo un modo per
sbarazzarcene una volta per tutte. Bisogna togliercelo di torno. È
semplicemente oltraggioso che si diverta alle nostre spalle! La gente
ride di noi!» si accalora il prefetto.
L'Ispettore
china la testa a ogni invettiva un poco di più, e si morde la
lingua per evitare di rispondere a tono e dire apertamente ciò
che pensa del problema, se poi di tale si tratta.
«Il
Crédit Lyonnaise! È inammissibile! Chi rimborserà
la perdita? Voi, forse? No di certo, siete solo un poliziotto»
esclama Machaux.
Il
suddetto poliziotto sta per insultare il prefetto, poi ci ripensa e
annuisce, tenendo per sé anche quello. E si augura vivamente
che non ne abbia ancora per molto, perché non è per
nulla certo di quanto spazio gli rimanga ancora in testa per tenerci
tutto quel che vorrebbe fargli sapere.
«Che
accidenti state aspettando, dunque? Andate, marsch! Radunate i vostri
uomini (quelli che non hanno qualche osso rotto) e trovate quel
pagliaccio!» sbraita il prefetto, concedendogli con queste
ultime parole il permesso non scritto di poter lasciare il suo
ufficio.
Ganimard
sospira, indicibilmente grato per quella concessione dell'ultimo
minuto, e approfitta al volo dell'occasione per correre letteralmente
fuori da lì e tornare fra le persone ragionevoli.
***
La
fa facile, Machaux. Fosse per lui dovrebbero presentarsi in forze
alla porta di un cittadino francese, con il mandato, e chiudergli i
polsi nelle manette per poi trascinarlo alla Maison d'arrêt de
la Santé. Che ci vuole? Lo sa lui cosa ci vuole: trovarlo,
prima di tutto. Pensa forse, il signor
prefetto perfetto,
che quel furfante abbia una targhetta d'ottone a fianco della porta
con sopra scritto “Arsène Lupin: ladro, scassinatore e a
tempo perso rubacuori”? Nemmeno per sogno. Seguire la sua pista
è una parola, soprattutto considerando che di rado lascia
tracce, e quelle che lascia sono ormai vecchie e inutili. Il
prefetto, forse, crede di poterlo anticipare sul tempo. Ma chi può
sapere quali siano le sue intenzioni? Scommette che nemmeno la sua
banda venga messa al corrente dei dettagli con troppo anticipo. Le
uniche occasioni in cui la polizia è venuta a conoscenza di
una delle sue malefatte prima che accadesse si sono verificate in
concomitanza di progetti enormi: castelli, musei, banche, tutti
obbiettivi veramente molto complicati da proteggere, in particolare
perché l'operazione della polizia viene giocoforza organizzata
all'ultimo minuto, mentre quella del ladro deve essere stata
pianificata chissà quanto tempo prima, e nei minimi dettagli
per giunta.
«E
allora? Che cosa possiamo fare noi altri?» pensa l'Ispettore,
prelevando la copia di un quotidiano di quella mattina e cercando
indizi, qualcosa,
un'idea qualsiasi che lo porti sulla via giusta per acciuffare quel
farabutto.
Scuote
la testa e sospira. Che poi, anche chiamarlo in quel modo non è
del tutto corretto. In fondo non ha mai ammazzato nessuno, finora, e
neppure derubato gente che a malapena rimane in piedi con il proprio
lavoro. Sì, però è una gran spina nel fianco, e
in una cosa il prefetto Machaux dice il vero: si burla di loro,
ovvero dell'autorità, facendoli passare per deficienti e
incapaci. Non che abbia tutti i torti; molti, lì dentro, lo
sono senz'altro. Però, però non va bene! Che lo
sappiano alla Sûreté è un conto, ma che lo sappia
tutta la Francia non è tollerabile. E quel maledetto in più
si paga perfino gli articoli sul suo giornale; sì, suo,
perché Ganimard non crede affatto che un redattore che non sia
stipendiato si prodighi a cantare le lodi di chicchessia, che si
tratti di un ladro oppure di un deputato.
«Maledetto
Lupin. Bisogna finirla con questa farsa» brontola, sbattendo il
giornale spiegazzato sulla propria scrivania e lanciando sguardi
irritati all'intorno, scorgendo gente che tenta di fare il proprio
dovere, pur senza sapere necessariamente da che parte girarsi, in
mancanza dell'indicazione giusta. La deve proprio trovare lui,
quell'indicazione, a questo punto. «Allora, dove sei?».
«Capo?»
chiede la voce confusa di uno dei suoi uomini che sta passando lì
accanto in quel momento.
L'Ispettore
scuote una mano, a indicargli di lasciar correre, ché sta solo
cercando di mandarsi in fumo il cervello nella speranza di trovare la
soluzione che faccia al caso loro. Quello se ne va, ben felice di
lasciare al superiore la patata bollente.
***
Trascorre
più d'una settimana senza che nulla si muova. Il prefetto
Machaux, nel suo ufficio arroccato, ha i nervi a fior di pelle. Per
contro gli agenti girano più rilassati, a volte con sorrisi e
battute di spirito, quasi non abbiano un solo pensiero per la testa
(e Ganimard sospetta che non sia tutta un'impressione). Dal canto
suo, non passa giorno che non spulci giornali (soprattutto l’Écho
de
France,
ovvero il giornale di Lupin), lettere di segnalazione, persino
riviste ché non si può mai sapere quale sarà
l'ultima trovata del ladro latitante; purtroppo non sembra esserci
alcuna novità, e il suo ricercato continua a esserlo e a non
essere rintracciabile.
Questa
situazione permane fino a un pomeriggio nel quale un dispaccio dalla
cittadina di Épinay-sur-Seine lo avvisa che si è
verificato un incidente strano presso la dimora della famiglia
Yvelain. L'incidente è la scomparsa di un tavolo assieme a
tutte le sue dodici sedie. Ganimard s'imbroncia, digrigna i denti,
sbatte malamente la missiva sulla scrivania e solleva le braccia al
cielo, esasperato.
«Un
tavolo! Che il diavolo lo prenda: cosa diamine dovrebbe farci con uno
stupido tavolo?» sbotta.
Ma
non si sofferma a lambiccarsi troppo. Invece si alza dalla sedia,
afferra la lettera stropicciata e parte a passo di marcia per
reclutare un po' di gente da portare su al nord per indagare su
questo affare. Tanto che altro hanno da combinare quei perdigiorno?
Quasi
due ore dopo, con tutta la sua squadra ammassata dentro un carrozzone
cellulare, giungono infine sul posto. L'ispettore dispone i suoi
uomini in modo da sorvegliare la villa sui quattro lati e il terreno
circostante, mentre lui si fa annunciare ai padroni di casa e viene
accolto dalla signora Yvelain in persona, che lo guida attraverso
l'atrio luminoso fino al salone secondario, dove di norma vengono
serviti i pasti e dove, una volta entrato, Ganimard si rende ben
conto dell’effettiva mancanza del tavolo e delle sedie.
«Che
cosa avevano, di particolare?» domanda alla donna, i cui grandi
occhi nocciola lo guardano come fossero perennemente sorpresi.
«Ma
nulla, signor Ispettore. Erano mobili normali. Forse giusto un poco
vecchi. Sono stati acquistati all'asta solo il mese scorso; ci era
parso un affare, poiché questa sala è stata appena
restaurata e aveva bisogno di essere arredata. Quindi mio marito e io
siamo stati in giro per fiere e antiquari così da trovare dei
mobili adatti. Vedete, Ispettore, per esempio quella credenza, laggiù
nell'angolo? Non è un amore?» trilla la signora, i cui
occhi sempre sorpresi ora mostrano anche compiaciuta eccitazione.
Ganimard
si gratta la testa e borbotta parole inintelligibili, affatto
interessato ai mobili che ci sono ancora, invece curioso di capire
perché, se quelli sono ancora lì, lo stesso non si può
affermare del tavolo con tutte le sedie.
Ma
quando si azzarda a chiedere se, oltre alla loro scomparsa, hanno
rilevato altri ammanchi, la signora, tutta giuliva, esclama «Ah,
no! Anzi, ci pensate che abbiamo trovato, in mezzo a questa stanza
proprio al posto del tavolo scomparso, un assegno? La stessa cifra
che abbiamo pagato per acquistarlo, figuratevi un po’ voi».
L'Ispettore
grugnisce, e mentre tenta come può di non insultare la povera
donna che tutto sommato non ha colpe al suo attivo, maledice invece
dentro di sé quell'uomo malefico e le sue idee scellerate.
Dopo
aver setacciato la sala, nella speranza di trovare qualche indizio ma
senza avere tale fortuna, si congeda dalla padrona di casa con un
inchino e la promessa di fare il possibile, se non per riportare loro
la mobilia per lo meno per indicargli il destino occorso a quel
tavolo e quelle sedie sfruttate così poco. E andandosene,
mentre raduna la sua squadra, scuote la testa immaginando si
trattasse di qualche pezzo d'antiquariato che i coniugi avevano
scambiato per vecchiume e che con tutta probabilità verrà
acquistato da qualche riccone d'oltre oceano per dieci volte il suo
prezzo di partenza.
***
Scoraggiato
e stanco per l’uscita infruttuosa, Justin Ganimard si appresta
a mettere ordine nelle sue carte in ufficio per poi tornarsene a
casa, dove troverà, forse, la cena lasciata in caldo per lui
dalla governante. Se non che, poco prima di lasciare la Sûreté,
un agente giovane e magro come un chiodo gli corre incontro con una
faccia che non promette buone cose. La sua sorpresa è quindi
grande nel momento in cui scopre che, al contrario, la notizia è
delle migliori: non solo è giunta una nuova segnalazione circa
possibili movimenti del ladro, ma addirittura sembra sia stato
avvistato. Le labbra dell’Ispettore hanno un guizzo improvviso
e i suoi occhi si animano di speranza.
«Questa
è la volta buona» si ripete, forse nel tentativo di
convincersi e motivarsi, mentre va a caccia di altri uomini da
trascinare con sé.
In
base alla segnalazione ricevuta, pare che il ricercato si trovasse
nei pressi dei magazzini di Saint Georges, potrebbe perfino
trovarcisi ancora, con una parte della sua banda. Ganimard ha un
brivido violento al pensiero di poterglisi presentare tanto vicino, e
seduto sullo scomodo sedile del cellulare non riesce a stare fermo,
preso da frenesia e impazienza nonostante l’orario tardo e la
faticosa giornata che ha alle spalle.
«Ispettore»
lo interpella il sergente Sorier al proprio fianco, «ma se poi
lo ritroviamo davvero dove dicono, che facciamo?».
Ganimard
gli affibbia un’occhiata urticante. «Imbecille. Se ci
capita sotto le mani lo acciuffiamo e non lo molliamo fino a che non
arriviamo alla prima cella disponibile e ce lo chiudiamo dentro a
doppia mandata».
Il
sergente lo fissa con occhi grandi e disorientati, sembrando più
sconvolto che sorpreso. «Veramente? E voi dite che ce la
facciamo?».
L’Ispettore
assottiglia le labbra in una smorfia irritata. «Fa’ una
cosa, sergente: smetti di pensare e organizzati per eseguire i miei
ordini».
«Signorsì,
capo!».
Ecco
fatto: tutta la sua eccitazione andata in fumo per colpa di quello
stupido di un sergente. È deprimente pensare che la maggior
parte dei suoi uomini, probabilmente, si immaginano di doversi fare
tutta quella strada solo per scontrarsi con un nulla di fatto, senza
neppure stare a chiedersi se sia possibile avere la meglio. “Sciocchi
creduloni” pensa. “Non si saranno per caso fatti l’idea
che abbiamo a che fare con una specie di mago o demonio, spero”.
Quell’idea ha dell’inquietante. Si chiede se, in tal
caso, messi di fronte alla materializzazione dei loro incubi
decideranno di seguire le sue direttive o preferiranno darsela a
gambe levate.
Giunti
infine nella zona indicata, all’incrocio fra la via che porta
ai mercati generali e quella che conduce alla stazione di
Saint-Lazare, il cellulare rallenta e affianca una guardia appostata
sulla strada. Questa si porta accanto ai finestrini del veicolo e
l’Ispettore si sporge per avere notizie.
«Ispettore»
esordisce la guardia con un impeccabile saluto ufficiale. «Uno
degli agenti di pattuglia, non più di dieci minuti fa, ha
potuto vedere movimenti sospetti attorno alla galleria d’arte»
spiega, indicando con il braccio teso un palazzo alto e di
bell’aspetto, accanto a boutiques rinomate.
«Quanti
erano?» si informa Ganimard.
«Ne
sono stati individuati cinque. Potrebbe esserci qualcun altro che già
si trovava all’interno, tuttavia» azzarda la guardia.
L’Ispettore
annuisce e gli fa segno di raggiungere la sua squadra mentre lui
istruisce i suoi uomini e poi li fa scendere per farli appostare in
posizioni adeguate a sorvegliare tutte le uscite del palazzo. Lui
stesso si porta a ridosso dell’entrata principale e dà
un’occhiata all’interno, senza però riuscire a
vedere alcunché di significativo. Respira a fondo, trattenendo
l’agitazione. Il prefetto Machaux ha parlato di liberarsi
della seccatura,
ma la seccatura in questione va catturata con la rete da pesca, non
con l’arpione, ché bisogna tenerselo intero per fargli
snocciolare un po’ dei suoi intrallazzi, e se lo impallinano
avranno un Lupin impagliato, ma niente banda e niente refurtiva.
Si
sta facendo tardi, e sono già cinque minuti e più che
passeggiano senza vedere una sola sagoma dotata di due braccia e due
gambe che non abbia anche la divisa della Sûreté. E
mentre cammina nella penombra dei corridoi della galleria, Ganimard
si blocca e sgrana gli occhi, folgorato dalla consapevolezza.
«Oh,
per il demonio! La guardia!». E mentre si dà
dell’imbecille da solo corre fuori e cerca febbrilmente con lo
sguardo nei dintorni del palazzo ma, come c’era da aspettarsi,
il furfante s’è già belle che dileguato, e con
lui anche i suoi complici e tutto quello che ha reputato di suo gusto
e degno d’essere portato con sé.
Ma
quel che è sicuro è che questa volta non si arrenderà
così facilmente. Non possono poi essere andati così
lontani, e prima di entrare nella galleria lo ha visto dirigersi
verso Batignolles, probabilmente con il progetto di oltrepassare la
Senna e dileguarsi poi in qualcuno dei suoi rifugi, quindi è
là che andrà anche lui con i suoi uomini, e troverà
il modo di tornare sulle sue tracce.
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