Io sono il vento
Ciao
a tutti coloro che apriranno questa storia. Se la si può
definire così. Non c’è una trama. Solo la
descrizione di una scena, che mi è saltata in testa sentendo
questa canzone, in uno di quei programmi per anziani. Che cosa volete
farci? A stare in casa succedono pure queste cose. Ah, sì. Per
favore, non dite a mio nonno che lo ho definito anziano!
Ovviamente i personaggi non
mi appartengono. Probabilmente altri hanno raccontato scene simili, ma
spero di averla scritta in maniera diversa e originale.
Buon divertimento.
Io sono il vento
I fiocchi di neve sono grossi
come stracci, pesanti e fitti. Il vento li sbatte contro i palazzi, gli
alberi e i prati, con una forza quasi distruttrice. Non
c’è alcuna poesia in questa nevicata. Nulla di delicato e
magico e romantico. L’ululato del vento e il rumore dei fiocchi,
che si infrangono contro il vetro, sono coperti dal suono del violino,
che emette suoni furiosi. La musica urla: “Noia! Noia!
Noia!” Non c’è un caso da risolvere. Non
c’è un cliente da ascoltare. Non ci sono nemmeno passanti
di cui dedurre le miserevoli e tediose esistenze. Nulla. Solo la
stupida neve, che ricopre tutto con una coperta incolore e neutra.
Monotona. Come il suo giorno. Vorrebbe iniettarsi una dose e partire
per un viaggio, ben sapendo che sarebbe tutto artificiale, ma sempre
meglio della noia, che lo sta uccidendo lentamente. Lo ferma solo il
fatto che John non approva l’uso della droga a fini ricreativi. A
dire il vero, non la approva nemmeno a fini investigativi. Come non
approva le sigarette. Si potrebbe pensare che John Watson sia un uomo
insopportabilmente tedioso e banale, se non fosse che Sherlock Holmes
sa quanto sia intelligente e spiritoso e comprensivo e disponibile. Il
partner perfetto. Per lui. Anche se è contrario a droghe e
sigarette, che il consulente non disdiceva di consumare, in una vita
passata. Prima di John.
“Non conosco questo pezzo.”
Sherlock si blocca a
metà di un arpeggio. Si è dimenticato che John si trova
in quella stanza con lui. È seduto sulla sua poltrona. Accanto
al camino. Sta leggendo il giornale. Rosie dorme, nella stanza al piano
superiore.
“Non mi sembra un pezzo
di musica classica. Sembra più una canzone,” continua
John, ignorando che Sherlock si sia fermato.
Il consulente si volta
lentamente verso il dottore, sempre imbracciando il violino, con
l’archetto fermo sulle corde tese, ma senza emettere un solo
suono. Osserva il medico attentamente, stringendo gli occhi in una
fessura. Sembra un gatto che stia studiando la sua preda.
John nota finalmente
l’improvviso silenzio e solleva gli occhi dall’articolo che
sta leggendo. Incrocia lo sguardo di Sherlock. Quegli occhi azzurri, di
un azzurro così chiaro da sembrare ghiaccio, hanno un fuoco
intenso che li anima. Non è il riverbero delle fiamme che
bruciano nel camino, ciò che John vede negli occhi di Sherlock.
È qualcosa di ferino. Il sorriso che stira le labbra del
consulente non è crudele o malvagio, però…
però… ha qualcosa di indefinito. Qualcosa che fa scorrere
un brivido lungo la schiena del dottore. Improvvisamente, John sa che
cosa provi la gazzella davanti al leone affamato e famelico.
Sherlock fa un piccolo passo
verso John, mentre riprende a suonare. È la medesima melodia di
prima, solo suonata con meno vigore e minor foga. Molto meno vigore. E
molto minor foga. Sembra che stia riflettendo. John conosce bene quello
sguardo. Sherlock lo ha ogni volta che sta pianificando qualcosa. E non
è detto che il qualcosa debba piacere a John. Anzi. Molto spesso
John non apprezza i piani elaborati da Sherlock. Beh. Abbastanza
spesso. No. Se deve essere sincero, completamente e totalmente sincero,
John apprezza sempre i piani di Sherlock. E più sono folli,
più gli piacciono. Perché John sa che seguirebbe Sherlock
anche se si buttasse nel fuoco. Ora come ora, però, non hanno
indagini in corso, quindi non capisce il perché di quello
sguardo.
Sherlock fa un altro piccolo
passo verso John. Solleva l’archetto e lo appoggia su un
tavolino, mentre il braccio che regge il violino si distende lungo il
fianco. John deglutisce a vuoto. Non riesce a distogliere lo sguardo
dagli occhi magnetici di Sherlock. Abbassa il giornale: “Tutto
bene?” Domanda con tono incerto.
Sherlock sorride. Forse
vorrebbe essere rassicurante, ma le labbra si distendono in un ghigno
rapace. Non risponde. Appoggia il violino su un altro tavolino. Sempre
muovendosi lentamente verso John.
Il silenzio è
assoluto. Il vento che ulula. La neve che sbatte contro i vetri. Il
fuoco che scoppietta nel caminetto. John non sente nulla. La voce bassa
e baritonale di Sherlock scoppia nel silenzio. Un sussurro sensuale,
che fa sobbalzare John.
“Io sono il vento”
Sherlock comincia a
declamare, mentre si sfila l’attillata camicia viola dai
pantaloni, con un movimento lento e provocante, scoprendo appena un
lembo di pelle bianca come la neve che sta scendendo dal cielo.
“Sono la furia che passa
E che porta con sé”
Sherlock alza le mani e le
porta al primo bottone in alto della camicia e lo slaccia, sempre con
gli occhi incollati in quelli di John, che lo fissa quasi senza
respirare, ipnotizzato.
“E nella notte ti chiama
E che pace non ha”
Sherlock continua a fare piccoli e lenti passi verso John. Si sbottona tutti i bottoni della camicia. Anche quelli dei polsini.
“Son l'amor
Che non sente pietà.”
Sherlock si sfila la camicia,
con un gesto lento, scoprendo prima le spalle candide, poi le braccia.
La camicia viola scivola a terra, disordinata e scomposta. Ignorata dai
due uomini.
“Io sono il vento”
Ripete Sherlock, bloccandosi
in attimo. Appoggia la punta di un piede sul tallone dell’altro e
si sfila una scarpa. Poi l’altra.
“Se t'accarezzo
Non devi fidarti di me”
Le labbra si piegano in un
sorriso sensuale. John deglutisce ancora. A vuoto. Gli occhi non
riescono a decidere dove guardare. Se perdersi nello sguardo magnetico
di Sherlock. Se riempirsi della pelle candida scoperta dagli indumenti.
Se osservare quale altro pezzo cadrà a terra, nella liberazione
del corpo statuario del consulente.
“Io non conosco la legge
Che guida il mio cuor”
Sherlock si blocca. Immobile.
In equilibrio su una gamba, solleva l’altra e sfila elegantemente
un calzino scuro dal piede. Non vacilla. Non trema. È
perfettamente fermo. Solido. Non sembra un essere umano. Sembra una
statua fatta di carne e ossa. Una statua che solo John può
ammirare in tutto il suo splendore.
“Son l'amor
La passione d'amor”
Sherlock afferra la cintura
dei pantaloni. Le lunghe dita affusolate si soffermano sulla fibbia e
la slacciano con una lentezza esasperante. John vorrebbe protestare, ma
ha la gola secca e sente che dalla sua bocca uscirebbero parole
incoerenti.
“Qualcosa c'è in me
Più forte di me.”
La fibbia è slacciata.
Sherlock sfila la cintura dai passanti e la fa schioccare, come se
fosse una frusta. L’aria vibra. John sussulta, come se fosse
stato colpito. L’ennesimo brivido gli attraversa la schiena. Si
chiede se abbia la febbre, ma conosce già la risposta. La sua
malattia di chiama Sherlock Holmes ed esiste un’unica cura.
“Sono l'aria
Che tal'ora sospira”
La cintura cade in terra. Le
dita affusolate slacciano il bottone dei pantaloni. Un altro passo
verso John. Il salotto di Baker Street non è mai sembrato
così grande al dottore. Sembra quasi che uno spazio immenso lo
separi dall’oggetto dei suoi desideri. Eppure, basterebbe che
allungasse una mano e potrebbe toccare Sherlock. La sua pelle candida.
Il suo corpo caldo.
“E che al sol del mattino
Più dolce si fa”
Liberati da ogni costrizione,
i pantaloni di Sherlock scivolano a terra, rivelando le lunghe,
muscolose e bianche gambe del consulente. Con un piccolo passo,
Sherlock abbandona i pantaloni. Solo slip neri separano il consulente
dalla completa nudità, ma John può vedere lo stesso il
cazzo del suo amante protendersi verso di lui.
“Son la furia”
Gli slip non resistono a
lungo al loro posto. Sherlock ne afferra l’elastico. Lo allarga
leggermente. Li abbassa. Si piega leggermente, per liberare la propria
erezione. Li fa scorrere fino a terra, lasciando che si depositino
pochi passi avanti ai pantaloni.
“Che improvvisa si adira”
John non riesce più ad
alzare gli occhi da lì. Adora gli occhi Sherlock. Non
smetterebbe mai di accarezzare la pelle vellutata del consulente.
Trascorrerebbe ore a studiare ogni millimetro del suo corpo perfetto.
Però… però… nulla lo ammalia di più
del cazzo duro e grosso che si trova proprio davanti alla sua faccia,
in tutto il suo splendore.
“E che va, fugge e va
Dove andrà non lo so.”
John lo osserva goloso, come
se fosse un dolce pronto per essere assaggiato e gustato. Non sa che
cosa ci vorrebbe fare. Potrebbe prenderlo in bocca e leccarlo,
succhiarlo, ingoiarlo, permettendo a Sherlock di fottere la sua gola
per assaporare il gusto del suo amato partner. Oppure, potrebbe
slacciarsi i pantaloni, abbassarsi gli slip e presentare il suo culo a
Sherlock, pronto per ingoiare quel grosso cazzo e farsi riempire e
scopare, come se ne andasse della sua vita.
“Io sono il vento”
Invece John rimane immobile.
Non perché lui non abbia fantasie erotiche. Non perché
non saprebbe che cosa fare. No. È solo che questo gioco lo ha
iniziato Sherlock ed è giusto che sia lui a condurlo.
Dall’inizio alla fine.
“Sono la furia che passa
E che porta con sé”
Sherlock afferra John per le
spalle, saldamente, e lo costringe ad alzarsi. Il giornale cade a
terra, scomposto, ma nessuno si preoccupa di raccoglierlo. Sherlock
sfila delicatamente la camicia dai pantaloni di John, la slaccia e
gliela toglie, lanciandola in direzione del divano. Dove, ovviamente,
la camicia non arriva, malgrado il volo, e plana sul pavimento, anche
lei completamente ignorata.
“Ho attraversato il deserto
Cercando di te”
Sherlock sfila la canotta,
che John, memore delle raccomandazioni di sua madre, porta sempre in
inverno. Anche la canotta finisce non molto lontana dalla camicia. John
segue con gli occhi i movimenti delle mani di Sherlock, che si
impossessano del bottone dei jeans del dottore e lo slacciano. La
cerniera scende. L’espressione seria sul volto di Sherlock non
cambia, malgrado abbia perfettamente notato un rigonfiamento, che
può volere dire solo una cosa: anche il cazzo di John è
duro.
“T'amerò”
La voce di Sherlock è
un sussurro. Un’affermazione, non una richiesta. Una
constatazione, non una promessa. Con un unico gesto lento, Sherlock
afferra la cintura dei pantaloni e l’elastico degli slip,
abbassandoli. Inginocchiandosi davanti a John. Trovandosi davanti al
viso il cazzo del dottore duro e svettante, mentre il suo diventa
sempre più fremente. Sempre più desideroso di entrare in
John e godere. E fare godere John. Sentire i loro gemiti. Le parole
incoerenti del sesso. E dell’amore.
“Era scritto così”
Sherlock sfila le scarpe e i
calzini a John. Si rialza. I loro peni dolgono dolcemente, quasi
incapaci di trattenersi dal venire. Sanno che non possono. Se venissero
ora, tutto il lavoro di Sherlock sarebbe stato inutile. Sherlock fa un
passo indietro. John fa un passo avanti e si libera dei pantaloni.
“Qualcosa c'è in me”
Sherlock e John sono in
piedi. L’uno davanti all’altro. Completamente nudi. I loro
cazzi gonfi e duri e svettanti. Pronti a giocare. Pronti a fare sesso.
Pronti a fare l’amore.
“Più forte di te”
Sherlock solleva il mento di
John con un dito, in modo che si possono fissare negli occhi. Iridi di
un azzurro chiarissimo sorridono a iridi di un blu profondo. Pregustano
ciò che sta per accadere. Lo pianificano, perché sanno
che cosa vogliono. E sanno che l’altro concederà tutto
ciò che lui chiederà. No. Pretenderà.
Perché John fa sempre così. John concede sempre tutto a
Sherlock.
“Più forte di me”
Come Sherlock sa che lui
farà qualsiasi cosa per John. Che lui la chieda, la pretenda, la
supplichi. Non ha importanza. Sherlock sarà sempre pronto a
rendere felice John. A proteggerlo. Qualunque cosa.
Di ciò che accade dopo
è testimone il fuoco che arde nel caminetto. Ne sono testimoni
le pareti del salotto del 221B di Baker Street. I suoi mobili. I
fiocchi di neve che bussano alla finestra, ignorati dai due amanti.
Ciò che accade dopo rimarrà nella sola memoria di
Sherlock e John. Perché i sospiri degli amanti, sono i segreti
che meglio il cuore custodisce.
Piccolo angolo dell’autrice
La canzone che ha ispirato
questa “cosa” è “Io sono il vento”,
cantata da Gino Latilla e Arturo Testa al Festival di Sanremo del 1959.
Spero di avere stappato un sorriso almeno a qualcuno.
Se volete lasciarmi qualche riga, sappiate che mi fareste felice.
Grazie e buona giornata.
Andrà tutto bene.
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