1. Questione di vita o di morte
Angolo
Mirty_92
Ciao a
tutti! Eccomi di nuovo qui contro ogni mia più assurda previsione con un’altra
storia su di un mentalista e una poliziotta. Questa fanfic si collocata tra la
fine della sesta e l’inizio della settimana stagione. Li abbiamo lasciati così,
con una dichiarazione struggente e un bacio da favola. E li abbiamo ritrovati
di nuovo al lavoro come coppia che sì, funziona bene come sempre. Ma in mezzo
cosa è accaduto? Se siete curiosi e se vi va, qui di seguito trovate la mia “versione
dei fatti”. Dovrebbe essere una storia di qualche capitolo, senza troppe
pretese.
Ed ora
a voi! Buona lettura!
A presto,
spero!
Mirty
1.
Questione
di vita o di morte
“Adesso sarà meglio che vada” gli sussurro
staccandomi a fatica dalle sue labbra, ancora decisamente scossa dagli eventi
così improvvisi non solo degli ultimi dieci minuti ma anche di quell’ultima
mezz’ora, o forse più.
Da quando ero scesa da quell’aereo, il
tempo si era come fermato. In una decina di secondi avevo voltato le spalle ad
una nuova proposta di vita per fare, come si dice spesso, un salto nel vuoto.
Ma per cosa? Perché il mio cervello rielaborava una sola, martellante domanda
che esigeva una risposta immediata e sincera da quell’imprevedibile del mio
consulente, nonché tasto dolente del mio cuore da quando avevo iniziato ad
uscire con Marcus. Era vero quello che Jane mi aveva detto? Lui mi amava sul
serio? Dovevo assolutamente saperlo.
Così, appunto una mezz’ora prima o giù di
lì, avevo finito di asciugare le lacrime di imbarazzo che rischiavano di
fermarmi, slacciato con gesti frenetici la cintura del sedile 12b, per poi
precipitarmi verso il portellone anteriore dell’aereo seguita da bisbiglii
eccitati di approvazione. Avevo sentito a mala pena ciò che mi diceva la
hostess per cercare di farmi tornare al mio posto perché ormai eravamo pronti
al decollo e l’unica cosa che mi ricordo nitidamente di aver fatto è stata
quella di mostrarle il mio distintivo dell’FBI e di averle fatto cenno di voler
scendere. E poi mi ero catapultata giù dalle scale come una pazza iniziando a
correre verso un ingresso qualunque che mi permettesse di riaccedere all’intero
dell’aeroporto. Il tutto seguita da due addetti aeroportuali che a stento
riuscivano a starmi dietro gridando chissà cosa per fermarmi. Non ce l’avevano
fatta, ovviamente. Una poliziotta come me non si ferma facilmente.
Una volta entrata di nuovo nei locali
dell’aeroporto il mio buon senso aveva ripreso il controllo della situazione e
cercato di fare mente locale sul da farsi. La guardia che era venuta a portare
via Jane dopo il suo folle gesto - perché diciamocelo, è stata davvero una
pazzia quello che ha fatto! – doveva sicuramente averlo messo sotto custodia
lì, da qualche parte. Avevo cominciato subito a vagliare le diverse indicazioni
ed ecco, sotto forma di un cartello blu, trovata la risposta: uffici di polizia
aeroportuale.
“Signorina, cosa crede di fare?” Ero
rimasta ferma un attimo di troppo e i due addetti all’imbarco passeggeri mi avevano
raggiunto. Avevano il fiatone e uno dei due era quasi piegato sulle ginocchia.
Non avevo potuto fare a meno di sorridere
appena e di sentirmi per un attimo in colpa per averli ridotti così.
“FBI” avevo risposto decisa, mostrando il
distintivo. Si erano paralizzati all’istante. “Tranquilli. Devo solo
raggiungere quell’idiota che è salito sull’aereo un momento fa e che è stato
giustamente riportato qui.”
I loro volti, già provati per lo sforzo, erano
diventati cerei alle mie parole.
“È un attentatore?” Mi guardavano con
tanto d’occhi. Ancora una volta mi era venuto da sorridere ma ero riuscita a
trattenermi. Avevo assunto un’espressione che speravo potesse rasserenarli
anche se dentro di me non riuscivo a smettere di pensare al gran casino che aveva
combinato Jane facendosi scambiare per un attentatore. Di questi tempi poi!
“No, è solo un idiota. Un consulente
dell’FBI. Ma ora devo proprio andare a prelevarlo. È da quella parte l’ufficio
di polizia, giusto?” Cercavo di far capire a quei poveretti che non dovevano
preoccuparsi. Loro avevano fatto il loro dovere e non erano mai stati in
pericolo.
“Sì, signorina… ehm… agente?”
“Agente Lisbon, sì. Va bene, grazie mille.
Ora potete tornare al vostro lavoro.”
Erano ancora un po’ scossi, l’avevo notato.
Ma io non avevo più tempo di dedicarmi a loro. Dovevo parlare con Jane, quel
genio!
“Se passa di qui arriverà in un attimo. La
posso accompagnare io direttamente dal capo della polizia. Venga.” L’uomo più
giovane mi aveva aperto la strada tra una folla che stava aspettando l’imbarco
e io l’avevo seguito. “Ci penso io, Frank. Tu riprenditi e poi torna in pista.”
E con un cenno del capo, aveva salutato il suo collega che iniziava a respirare
più regolarmente. Beh, gli avevo fatto fare decisamente una bella corsa, non
c’è che dire.
Ma dovevo tornare a concentrarmi sul mio
obiettivo: dovevo rivedere Jane.
Passando per dei locali di sicurezza eravamo
arrivati ad una piccola stanza dove un agente di polizia si trovava di guardia
alla porta. “Ehi, Todd, dov’è il capitano? Qui c’è l’agente Lisbon. Deve
parlare con lui per poter vedere quel folle che è salito ora sull’aereo per
Washington.” Poi a bassa voce con tono timoroso aveva aggiunto: “È dell’FBI.”
Il poliziotto di guardia mi aveva squadrata
ma non sembrava minimamente impressionato dal fatto che io fossi dell’FBI. Avevo
ricambiato lo sguardo, da dura. Pareva che comunque avesse capito la situazione.
“Aspettate qui.” Era ritornato in poco
tempo, seguito da un uomo corpulento dall’aspetto serio, il capitano.
“Mi pare mi abbiano detto che lei sia
dell’FBI.”
“Esattamente. Agente Lisbon. Devo vedere
l’uomo che avete in custodia. È qui?”
Guardava il mio distintivo come per
assicurarsi che non fosse un falso. Avevo alzato gli occhi al cielo cercando di
rimanere calma.
“E cosa vuole l’FBI da quell’uomo? Ha
violato le leggi sulla sicurezza aeroportuale. È sotto la nostra tutela.”
“Devo solo parlargli. È un collega, un
nostro consulente.”
“Consulente?”
Quante volte ancora avrei dovuto vedere
facce scettiche, perplesse o qualunque cosa di simile quando presentavo Jane
come consulente dell’FBI? Sempre, che domanda!
“Sì, esatto. Senta non vorrei essere
scortese ma dovrei proprio parlargli. Questo è il numero del mio capo, l’agente
supervisore Dennis Abbott. Lo chiami pure per controllare tutto ciò che le ho
detto se qualcosa non le torna, ma ora voglio vedere Jane.”
L’avevo preso in contropiede mentre si era
ritrovato praticamente con il mio telefono in mano con la voce Dennis Abbott
già selezionata nella rubrica dei contatti veloci.
“O-ok. Falla entrare, agente Anderson. E
lei può tornare al suo lavoro” fatto un cenno col capo all’addetto passeggeri, ancora
un po’ intimidito, avevo visto quest’ultimo allontanarsi gettandomi ancora
sguardi in tralice. “Mentre io mi accerto con questo agente Abbott.” Il
capitano cercava di riprendere una parvenza di controllo. Come lo capivo. In
fondo era lui che aveva autorità lì come capo della polizia. Non volevo fare la
superiore, solo che iniziavo proprio ad avere una certa urgenza di parlare con
Jane. Volevo vederlo.
“La ringrazio” avevo aggiunto prima di
seguire l’agente Anderson che mi aveva accompagnata lungo un corridoio fino ad
arrivare ad una stanza con un vetro dove aveva spiegato ad un collega che avevo
il permesso del capitano di poter vedere il prigioniero.
Ed eccolo lì: Patrick Jane.
“Immagino tu debba risolvere un altro
gran bel guaio.”
Ritorno al presente quando la voce di Jane
mi sussurra piano all’orecchio. Mi sorride complice e io non posso fare a meno
di alzare gli occhi al cielo.
“Mi sa proprio di sì. Devo almeno tentare.
Vedrò cosa posso fare. Alla peggio ti toccherà rimanere qui ancora per un po’.
Non ti farebbe male.”
“Suvvia, Lisbon. Non sono rimasto in
castigo abbastanza?” Ha ripreso a schernirmi, Jane. Ma un attimo prima, quando
ha voluto dimostrarmi con quel bacio che ci siamo
scambiati che le parole dette
sull’aereo erano vere, era più serio che mai. Cerco di rimanere lucida
nonostante stia sentendo l’adrenalina scorrere come un fiume in piena nelle mie
vene.
“Non saprei. Ti aggiornerò.” Gli sorrido
ed esco, mentre con la coda dell’occhio lo vedo rimettersi a sedere. Mi toccherà
portarlo all’ospedale per fargli controllare meglio la caviglia. Chissà come se
la sarà slogata. Dovrà spiegarmi anche questo ma per ora mi basta quello che ho
appena vissuto. Sì, perché l’essere stata baciata da Jane è stato speciale.
Semplicemente speciale. Era una cosa che il mio inconscio aspettava da tempo.
Sentivo che l’affinità tra di noi era arrivata ad una svolta. Prendere o
lasciare. All’inizio avevo lasciato. Non potevamo andare avanti così per sempre
e in un attacco di rabbia, sentendomi ancora una volta usata da lui, avevo
fatto chiamare un taxi per farmi portare all’aeroporto e, come se ciò non fosse
bastato, avevo persino accetto di sposare Marcus. Dannazione! Marcus! Gli avevo
promesso che una volta preso l’aereo l’avrei avvisato dell’orario previsto di
arrivo a Washington. Non l’avevo fatto perché quel maledetto aereo non l’avevo
preso ed ora il mio cellulare era ancora tra le mani del capitano di polizia. E
sì, anche per altri ovvi motivi non ero partita, d’accordo. Beh, Marcus capirà. Me lo ripeto
ancora dopo averlo già detto anche a Jane.
“Oh, Lisbon. Eccoti qui.”
Svoltato l’angolo mi ritrovo di fronte
Abbott e il suddetto capitano.
“Buonasera, capo.”
“Tutto ok?” Vedo Abbott che mi squadra ma
non pare sorpreso di vedermi lì, anzi. È soddisfazione quella che vedo nel suo
sguardo?
“Sì. Sono restata. Ho… diciamo… quasi
volutamente perso l’aereo.” Mi sento in dovere di dargli dei chiarimenti ma non
saprei da che parte iniziare. Arrossisco lievemente mentre Abbott mi scruta
curioso attraverso gli occhiali.
“Capisco.” Mi risparmia le spiegazioni
imbarazzanti. Per ora almeno. “Beh, visto che sei qui perché non accompagni tu Jane
all’ospedale. Il capitano Smith mi ha detto che si è slogato una caviglia in
circostanze che, a quanto ho letto nella deposizione di Jane, erano questione
di vita o di morte.” Cita queste ultime parole leggendole direttamente da
un fascicolo che tiene in mano. Questione di vita o di morte. Sbuffo
appena. Perché devi essere sempre così teatrale, Jane!
“Ecco il suo cellulare, agente Lisbon.” Il
capitano di polizia me lo rende. “Ha suonato un paio di volte con un prefisso
di Washington da quando me l’ha lasciato per contattare l’agente Abbott.”
Ecco, lo sapevo. Abbasso appena lo
sguardo. “La ringrazio.”
“Bene, io vado ad avvisare che il signor
Jane può essere rilasciato. Lo aspetti qui, agente Lisbon. Glielo faccio subito
portare. Agente Abbott, arrivederci. Spero che l’FBI la prossima volta non sia
più in situazioni di vita o di morte qui in aeroporto.”
Abbott assume un’espressione seria ma
nasconde un non so che di divertito. “Non si può mai sapere, capitano Smith.
Arrivederci.”
Rimango da sola con Abbott. “Tutto è bene
quel che finisce bene, Lisbon. Penso che tu ora debba chiamare Washington. Da
quello che ho capito, presumo tu voglia restare.”
“Sì, capo. Sempre che sia possibile.”
“Per un agente come te le eccezioni si
possono fare. Non ti preoccupare per l’aspetto burocratico del tuo
reinserimento in squadra. Penserò a tutto io. Tu per ora hai ancora la tua
settimana di congedo transitorio. Risolvi la tua situazione. Ci vediamo presto.
Ah, e dì a Jane che mi deve un favore.”
“Un favore, Abbott?” Ho lo sguardo
perplesso.
“Sì, Lisbon. Ho prestato la mia macchina a
Jane e lui l’ha tranquillamente abbandonata alla mercé di tutti di fronte
all’aeroporto. Per fortuna la sicurezza qui non è niente male. L’hanno
requisita. Ora andrò a reclamarla.” Alza le spalle e mi sorride.
“Il solito Jane.” Mi giustifico alzando
gli occhi al cielo ma lasciandomi sfuggire anche io un mezzo sorriso.
“E la questione di vita o di morte.”
Ormai non so più quale soglia di rossore
io abbia raggiunto. Dannazione, Jane! Questa me la paghi!
Il cellulare inizia a vibrare nella mia
mano e poi squilla. Per un attimo sono grata per questo diversivo che mi evita
di rispondere ad Abbott che ne approfitta per farmi un cenno di saluto,
rivolgermi un sorriso enigmatico e sparire oltre il corridoio.
Ora però guardo il telefono come se fosse
uno scorpione velenoso o qualcosa di simile. È Washington. È Marcus. Devo
rispondere. Chiudo gli occhi e premo il tasto verde.
“Teresa, a che punto sei? Devo organizzarmi
per venire a prenderti in aeroporto.” È allarmato, non seccato. Solo ansioso.
L’ho fatto stare in pensiero.
“Ciao Marcus. Ho avuto un contrattempo.”
Un contrattempo? Quello che è successo con Jane tu lo chiami un semplice
contrattempo? Suvvia, Teresa, qualcosa di meglio no? Cerco di zittire il mio
inconscio e riprendo a parlare.
“E sono dovuta restare qui.”
Dall’altra parte della cornetta sento uno
strano silenzio. Il respiro di Marcus è lieve, poco percettibile.
“Non verrai, vero? Non mi raggiungerai più
a Washington.”
L’ultima non è una domanda.È una considerazione. Un dato di fatto.
“Scusami.” Una lacrima mi sfugge
involontaria e mi riga la guancia. Sento che se gli avessi sparato al petto con
la mia pistola probabilmente gli avrei fatto meno male di quanto gliene sto
facendo ora. Ma adesso non posso più mentire. A me, a lui. Gli dovrei dare
delle spiegazioni. Sento che se le merita ma continuo a rimanere in silenzio.
“Capisco.” La voce di Marcus arriva alle
mie orecchie come se partisse da un baratro. Beh, Teresa, non avevi forse detto
a Jane che Marcus avrebbe capito? Hai indovinato. Sì, ho indovinato ma mi sento
uno schifo comunque. Continuo a non parlare.
“Teresa, dimmi solo una cosa. È Jane,
giusto?”
Mi ritrovo ad annuire al telefono non
capendo subito che lui non mi può vedere.
“Teresa?”
Mi riscuoto. “Sì, Marcus. È Jane.”
“D’accordo. Addio Teresa.”
La linea cade. Il persistente tu-tu-tu del
telefono mi rimbomba nelle orecchie. Una vigliacca. Ecco come mi sento. È stato
triste oltre ogni dire. Ma non potevo continuare a mentire. A me, a lui.
Passerà, dovrà passare.
“Agente Lisbon?”
Asciugo veloce quell’unica lacrima
traditrice e mi volto verso la voce che mi ha chiamata. E poi lo vedo: il mio
piccolo sole personale. E tutto pare improvvisamente più chiaro. Più bello e
sereno. Jane è aiutato a camminare dalla guardia che ci teneva d’occhio quando
lui mi ha baciato solo mezz’ora prima? – non ho più
davvero la cognizione del tempo, è un dato di fatto –.
“Oh, sì. Lo lasci pure. Lo aiuto io.”
Jane mi mette un braccio attorno alle
spalle mentre io lo sorreggo in vita. Per un attimo si lascia quasi sostenere a
peso morto da me ma poi, di fronte alla mia occhiataccia di rimprovero, mi
sorride e si sostiene meglio.
“Ce la fate?” La guardia pare preoccupata
anche se guardinga.
“Sì sì. L’agente Lisbon è una tosta, non
si preoccupi. E grazie per la sorveglianza.”
“Jane!” Non posso fare a meno di
ammonirlo.
“Che c’è? Che ho detto?”
“Guarda che se non la smetti ti lascio
ancora qui, ok?”
“Non penso che mi rivogliano, vero
Arthur?”
La guardia ora sembra terrorizzata. “No,
no, signor Jane. Vada pure. Lei è libero.”
Guardo entrambi stranita. Poi prima che la
mia pazienza possa essere messa a dura prova venendo a conoscenza di fatti
strani, decido di allontanarmi almeno dall’aeroporto. Per oggi, qualcuno
qui ha già procurato abbastanza guai.
Saluto la guardia e mi trascino, con Jane
sempre accollato a me a modi cozza sullo scoglio, fino all’uscita
dell’aeroporto.
“Chiamo un taxi. Reggiti un attimo.” Sfilo
veloce il telefono dalla tasca dove l’avevo riposto in fretta e furia dopo la
chiamata di Marcus per non farmi vedere da Jane. Sfortunatamente per me
l’elenco delle chiamate rapide rivela il prefisso di Washington. Guardo Jane di
sott’occhi e mi accorgo che mi sta guardando. L’ha notato. Avverto una leggera
tensione fra di noi ma è solo un attimo.
“Potresti far presto. La gamba sana inizia
a dare segni di cedimento, vorrei stendermi un po’”
Rimango a bocca aperta ma poi mi riprendo
subito.
“Certo che sei forte! Ti fai male in modo
sconsiderato e poi hai pure il coraggio di avanzare delle pretese.”
“Suvvia, Lisbon. Per favore, puoi chiamare
un taxi?” Mi guarda con uno sguardo talmente melenso e finto supplichevole che
mi strappa un sorriso.
“Ok, ma bada a ciò che dici o ti lascio in
ospedale e ad Austin rientri per conto tuo.” Cerco il numero del servizio taxi
della zona e attendo in linea. L’ultima volta che l’ho usato stavo scappando
infuriata da Jane verso un altro stato mentre ora sono qui, con Jane, e mi
sento bene. Stranamente bene, dopotutto. Mi sento al mio posto.
“In ospedale? Io non voglio andare in
ospedale. Sto bene. L’ospedale è per i malati e io non sono malato” protesta
quasi come un bambino.
Scuoto la testa e nel frattempo aspetto
che la signorina del servizio clienti mi dia conferma della disponibilità di un
taxi nella nostra zona. Ma proprio mentre mi stanno dicendo che ne arriverà uno
tra cinque minuti, ne accosta un altro poco distante da noi che scarica una
coppia di turisti. Jane attira subito l’attenzione dell’autista sbracciandosi e
finendo quasi a terra per via della foga. Io lo
riacciuffo in un attimo e gli evito che la sua bella faccia vada a spiaccicarsi
letteralmente - e non solo - sul
marciapiede. Lui si riprende e mi sorride, mi frega il telefono, ringrazia la
signorina parlando della tempestività del loro servizio e riaggancia. Poi mi
rende il telefono.
“Tutto apposto” continua a sorridermi. Non so
esattamente quante volte mi stia sorridendo in quel modo da quando l’ho rivisto
oggi, ma è qualcosa di diverso dal solito. Conosco il suo perenne sorriso da
anni ormai ma oggi è diverso. È come se, finalmente, mi sorrida davvero per la
prima volta.
“Vi posso aiutare?”
L’autista del taxi ha visto le condizioni
di Jane. “Slogatura? Vi porto all’ospedale?”
“Sì”
“No”
Inizia un gioco di sguardi. Io guardo in
cagnesco Jane, pronta a combattere per portarlo in ospedale. Lui mi guarda
disinvolto come se nulla fosse, sfidandolo quasi a contraddirlo. E l’autista ci
guarda stranito.
“Jane, devi farti vedere la caviglia. Se è
slogata dovranno farti una fasciatura e darti delle stampelle.”
“Io ho già la mia stampella” mi guarda
ghignando.
“Ah ah. Davvero spiritoso. Io non sono la
tua stampella. Forza, sali e non fare storie.” Tengo la portiera aperta e
l’autista, saggiamente, sentendo il mio tono autoritario, decide di non
intromettersi e si mette al posto di guida, pronto a partire aspettando
indicazioni.
Jane scuote la testa e si siede sul sedile
del passeggero. “Ok, d’accordo. Ma solo se mi prometti che dopo l’ospedale,
qualunque cosa mi dicano di fare, tu verrai con me in un posto. Prendere o
lasciare.”
Alzo gli occhi al cielo. E ti pareva che
non avesse in mente qualcosa?
Ma questa volta so perfettamente cosa
fare. Ho già lasciato una volta. Ora prendo e non lascio più.
“D’accordo. Come vuoi tu.” Faccio la finta
rassegnata. Mi siedo dietro e dico al taxista: “Ci porti all’ospedale più
vicino, grazie.”
“Subito, signorina.”
Guardo la strada di fronte a me mentre ci
allontaniamo dall’aeroporto e poi guardo lo specchietto. Incrocio per un attimo
lo sguardo scintillante di Jane che mi sorride. E io non posso fare a meno di
sorridergli di rimando. Sì, per l'ennesima volta.
To be continued...
|