leokasa
those
italian nights
Le notti italiane avevano la stessa lucentezza di un falò
sulla
spiaggia. I borghi si rincorrevano tortuosi tra strade e stradine, in
un continuo saliscendi di ciottolati che potevano raccontare
più
cose di quanta musica lui avrebbe mai potuto comporre e questa
energia, nel buio delle piccole ore, non scompariva, anzi; si
trasformava, permeava ogni cosa, lasciando vibrare persino le pareti
delle costruzioni più moderne, che di storia non potevano
averne poi
molta.
Ogni oggetto ne pareva infuso, quasi una magia avvolgesse in un
bisbiglio ogni cosa: ti sospingeva a pensare, sospirare, rigirarti
tra le lenzuola e, quando eri fortunato, a sognare.
Quella notte, l'incantesimo sembrava aver animato le lancette del
vecchio orologio che teneva sul comodino.
Tic, tac. Un suono che di solito passava in secondo piano,
stereotipato e annichilito in un ritmo infinitamente uguale a se
stesso, intervallato ogni tanto dalla lancetta più grande
che, pigra
e pesante, sembrava sbuffare nello scattare. Un suono così
comune...
eppure, quella notte, lo rendeva agitato.
Era passato poco più di un mese da quando lui e Izumi si
erano
trasferiti a Firenze. Leo amava Firenze: avvertiva da ogni singolo
tassello di quell'antico labirinto la creatività di chi vi
aveva
vissuto, alloggiato, percorso anche solo di passaggio. Aveva scritto
spartiti su spartiti, strappato fogli su fogli, invaso persino la
preziosa agenda di Izumi, preso dall'indomabilità
dell'ispirazione.
E poi, c'erano nottate come quella.
Leo non aveva mai pensato troppo al tempo. Era rilevante solo quando
gli dava il ritmo, solo quando doveva tradurlo in note e in brani. Lo
aveva considerato, sì, nei suoi ultimi mesi di scuola,
quando aveva
realizzato che, veloce, scivolava via dalle sue mani e a causa delle
sue debolezze, tanto aveva gettato di ciò che avrebbe potuto
vivere.
Ma in notti come quella, più che mai, l'orologio gli
ricordava che
ad otto ore di distanza, c'era il suo mondo che cambiava.
Erano le tre del mattino – le undici, in Giappone. Arreso
all'idea
che la mente e la stregoneria non gli avrebbero concesso facilmente
tregua, si sollevò con gesto appesantito dal materasso, fin
quando
non si ritrovò a gambe incrociate, la testa reclinata in
avanti
mentre fissava vacuamente le lenzuola.
“Cosa starà facendo?”
Il secondo suono affetto dagli antichi sortilegi fu il suo cuore, che
prese a battere molesto, rumoroso, mentre nella sua mente si formava,
in uno sbuffo di nebbia, il ricordo di quel sorriso che aveva
accompagnato all'aeroporto, dei ridenti occhi violacei che per un
attimo avevano esitato, prima di salutarlo.
Ecco, un altro suono: quelle delle sue dita che disegnavano
inutilmente sulla stoffa azzurro cielo delle lenzuola –
appena
percettibile, certo, ma animato di quella stessa energia che
pervadeva ogni cosa, persino quando veniva spazzato via dal
maleducato e spazientito clacson che risuonava sull'asfalto notturno.
Il corpo lo implorava di agire: quell'inutile esercizio di scrittura
non bastava a placare un'urgenza che non aveva ancora imparato ad
affrontare. Dopotutto, anche se aveva imparato a riconoscere il
sapore della nostalgia, della solitudine... quella era una sensazione
diversa, che avviluppava prima il suo stomaco, poi i polmoni ed il
cuore, facendogli morire il respiro in gola e lo spingeva a cercare
freneticamente lo smartphone che, solitamente, ignorava più
che
volentieri o di cui addirittura dimenticava l'esistenza.
Eppure, quel piccolo ed insopportabile oggetto, in quelle notti di
voci misteriose, diveniva un'ancora di salvezza. Sbattuto tra le onde
di sentimenti che non aveva ancora il coraggio di affrontare e i
flutti di un orgoglio difficile da placare, solo il cellulare poteva
mostrargli ciò a cui anelava in quelle notti sotto forma di
immagini
statiche o in movimento – niente più che una
manciata di pixel
dietro uno schermo che leniva, seppur debolmente, quella lontananza.
Le foto di gruppo, i selfie, i video delle prove, degli scherzi,
degli abbracci innocenti. E gli bastava aprire una stupida
applicazione per avere di nuovo la sensazione di averlo lì
con sé,
a portata di un messaggio: poteva annullare quella distanza con un
semplice movimento delle dita. Oppure poteva scorrere una chat
composta di brevi e superficiali conversazioni (testi stringati,
emoji, foto sporadiche) e colmare un poco quel bisogno infantile di
saperlo dall'altro capo del telefono.
A scrivere era l'incapacità di resistere, a cancellare
quanto appena
digitato la paura di vedersi rispondere davvero.
Tsukasa aveva la malsana capacità di esaudire i suoi
desideri quando
neanche sapeva di averne espressi: chiudeva gli occhi, soffiava forte
sulla candela di una torta immaginaria per spegnerla ed ecco che il
ragazzo gli si palesava davanti, avvolgendolo nella consapevolezza di
essere importante per
qualcuno.
Eppure, non poteva. Non
poteva,
perché a lui aveva affidato già abbastanza
– il suo sogno.
Per i seguenti due anni, Tsukasa Suou avrebbe dovuto indossare una
corona macchiata del sangue che solo Leo poteva vedere e che mai era
riuscito a lavare via; Tsukasa Suou portava sulle spalle un mantello
intriso di cenere di guerra, che ad ogni passo lasciava odore di
bruciato; Tsukasa Suou doveva sedere su un trono che cadeva a pezzi e
che non gli garantiva alcuna stabilità.
E da lassù, cercava di fare delle sue mani pennelli di
artista con
cui dipingeva una porta verso il futuro.
Avrebbe potuto offrirgli un supporto che non era però
realmente in
grado di dargli. Avrebbe potuto scrivergli che era orgoglioso di lui
e della luce che vedeva nei suoi occhi. Avrebbe potuto confessargli
che nessuno sapeva essere tiranno ed egoista come lui, ma che
quell'arroganza era ciò di cui più aveva avuto
bisogno nei momenti
difficili.
Ma sarebbe sempre stato troppo poco, rispetto a ciò che la
notte
italiana sussurrava.
Scrisse tutto questo e poi lo cancellò.
Lo sguardo fisso su quella barra di testo vuota, improvvisamente
divenne consapevole della sua impossibilità di scrivere le
cose che
poi contavano di più: non poteva comporre, in quel caso. E
non
sapeva tradurre in linguaggio umano quello che il suo cuore
racchiudeva in sé dolorosamente – era questo,
dunque, il blocco
dello scrittore?
«Sei patetico» mormorò al riflesso che
non poteva vedere nello
schermo del cellulare. Stava per spegnerlo di nuovo, quando un suono
lo avvertì che la chat che stava fissando da minuti aveva un
nuovo
messaggio.
Per la sorpresa, l'oggetto gli cadde dalle mani e, non contento,
suonò ancora – una vibrazione che fece tremare il
suo letto, sì,
ma più il suo animo: Tsukasa? Che gli scriveva? Proprio
mentre
pensava a lui?
Represse a stento il desiderio di darsi uno schiaffo –
«Patetico!»,
ripeté a denti stretti – e poi afferrò
lo smartphone per
accertarsi di non essere impazzito.
C'era una foto proprio lì, sotto ai suoi occhi, che parve
quasi
illuminare il suo volto. Una foto della loro stanza di sempre,
davanti alla cui parete di fondo stavano almeno una decina di
ragazzini che gli sembravano troppo piccoli per poter aver accesso a
quel luogo, troppo ingenui per poter affrontare le battaglie che
spettavano ai Knights – presenti, passate e future. In primo
piano,
invece, stavano Arashi, l'espressione catturata in un bacio lanciato
all'obiettivo, Ritsu assonnato ma sorridente e... Tsukasa Suou, la
mano libera vicina al volto, nel segno di vittoria che Leo era solito
fare quando urlava con orgoglio “Ucchuu!~”. In
allegato, la
frase: “La nuova generazione di Knights non vede l'ora di
conoscerti, Leo-san!”.
Assurdo, semplicemente assurdo. Guardò quei volti
sconosciuti e
paffuti uno per uno, quasi potesse così impararne nomi e
storie;
guardò i compagni a cui lui e Izumi avevano lasciato le
proprie, di
storie e poi... prima che se ne rendesse conto, le sue dita
sfioravano quel volto lievemente arrossato persino dietro il filtro
che aveva usato per la foto, quelle guance che più volte
aveva
tirato per scherno, per gioco, per sentirlo forse alterarsi o forse
ridere (o forse entrambe le cose).
Dopotutto, era da poco tempo che si soffermava su questi dettagli e
allora sì, che malediceva il tempo che aveva lasciato
scorrere.
Il telefono vibrò di nuovo tra le sue mani – un
messaggio,
stavolta:
- Leo-san, che ci fai sveglio?
Non è notte lì?
«... Ah, accidenti» mormorò allora,
prima di mordersi appena il
labbro inferiore. Dannata tecnologia, rivelatrice di notti insonni!
Non si poteva nascondere niente a quegli aggeggi!
Cercò di
scrivere velocemente, sperando di suonare naturale (ma da quando lui
poteva essere naturale?).
- Stavo
componendo, ovviamente!! Non ho intenzione di lasciare
questi giovani cadetti sprovvisti delle lame più affilate
che posso
forgiare!!
La notte, ora, sembrava persino più lunga dopo quel faro
isolato.
Sembrava addirittura eterna, al pensiero che dall'altra parte del
globo, sotto la luce del sole, stava il suo giovane erede con gli
occhi puntati su uno schermo digitale e il pensiero diretto a lui,
invece immerso in quell'oscurità assetata di sentimenti.
Leo odiava sentire con tanta chiarezza non solo il battito del suo
cuore, ma anche il calore che animava il suo volto e la voce della
sua mente che, per una volta, non lo implorava di prendere una penna
e comporre, ma di scrivere su quel freddo schermo ciò che di
più
caldo aveva nell'animo.
«Non ancora» si intimò, nel leggere
un'ultima risposta.
- Dovresti
riposare. Sei sempre il solito.
Quanto si
sbagliava, Tsukasa Suou. Quanta innocenza nel credere che in quei
pochi mesi al suo fianco non lo avesse cambiato con prepotenza, con
il dispotismo di chi crede nella felicità delle persone a
cui tiene.
Con l'egoismo che solo un vero eroe può sfoggiare con
orgoglio nel
creare il lieto fine della propria storia.
Non gli rispose, quindi. Spense il telefono col sorriso sulle labbra,
sussurrando solo alla tiepida aria italiana quella buonanotte che,
forse, un giorno avrebbe bisbigliato alle orecchie di colui a cui era
rivolta
Sperava al riparo di lenzuola comuni, stretta da mani unite tra loro.
Note: Sono davvero
contenta di poter dare il via a questo progetto che mi ha tolto un po'
di sangue dal corpo. Sette fic per sette giorni, in cui non so bene
dire cosa io abbia combinato. Volevo però contribuire, nel
mio piccolo, all'amore che questa coppia (di imbecilli) ha portato
nella mia vita.
Ho iniziato a scrivere questa fic quando in Italia era
appena scattato il lockdown. Rileggendola, mi sono resa conto che
c'è davvero tanto della nostalgia per il Paese in cui vivo e
con cui ho spesso un rapporto conflittuale. Tramite Leo, ho messo
giù la consapevolezza che sarei stata distante da tante
delle persone che amavo per un po' di tempo, più del solito.
Non so bene da quando io abbia iniziato a "convivere" col mio Leo
scritto e abbia iniziato ad infondergli un po' delle mie incertezze.
Comunque, spero che possa piacervi! Onestamente, delle sette,
è una di quelle che preferisco.
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