Dripping
Rain
1901, Parigi
Le
gocce di pioggia creano una melodia monotona, battendo contro il tetto della
stazione; segnano il lento scorrere di un tempo fatto di fatica, sudore e
macchie di grasso sul volto.
« …carrozze
senza cavalli, mosse interamente da motori alimentate a vapore… »
Jean
solleva lo sguardo dal proprio panino per rivolgere al suo interlocutore un’occhiata di sufficienza che spera
basti a zittirlo, quantomeno a farlo rallentare; ma Marco non è mai stato bravo a cogliere indizi,
molto più pratico con ciò che gli viene imposto o domandato
direttamente che coi sotterfugi e le furbizie in cui Jean si trova, invece, a
proprio agio. La scatola metallica con il suo pranzo giace sulle sue gambe,
abbandonata da tempo a favore dell’esposizione
delle fantasie in cui tanto gli piace perdersi, dei racconti che adora condividere
con lui – e poco importa che per Jean
quelle chiacchiere abbiano poco senso, poco importa che lui dia loro lo stesso
peso che da al suono della pioggia battente: Marco
continua a parlare, gesticolando e cercando il minimo accenno di entusiasmo nei
suoi occhi.
« …e
protesi meccaniche! »,
aggiunge, quasi fuori di sé dall’entusiasmo. « Braccia robotiche che saranno in grado di sostituire gli
arti persi dai soldati al fronte. Ho sentito dire che un dottore, un tedesco di
nome Jaeger, sta cercando un metodo per far sì che le
componenti meccaniche rispondano agli stimoli neurali… pazzesco, vero? »
Il
fischio di un treno in partenza inghiotte l’ultima
parola e li costringe a coprire le orecchie, seguire un istinto maturato dopo
mesi di lavoro. Jean osserva – rapito,
nonostante tutto – l’affascinante, armonioso movimento delle bielle motrici che
si sollevano e ripiegano su se stesse, mettendo in
moto l’enorme locomotiva; si concede
persino di distaccare le mani dal volto ed ascoltare il suono familiare del
treno che prende vita, abbandonando la stazione.
« Senti, Marco… »,
mormora, quando il treno a vapore è ormai
lontano ed il suo collega ed amico ha ripreso a mangiare. « Ma tu credi davvero che questa cosa
durerà per sempre? »
Marco,
a bocca piena, lo guarda confuso. « Che
intendi dire? », domanda, ingoiato il
boccone troppo abbondante. Jean abbandona la testa contro il muro in pietra
alle loro spalle, freddo ed umido quanto il resto della
stazione; chiude gli occhi.
Marco
potrà anche essere logorroico, un po’ infantile, ma trascorrere le pause
pranzo con lui gli piace; gli piace la luce nei suoi occhi, l’impegno che mette nel lavoro – anche quando viene loro assegnata la
manutenzione di intere carrozze da soli, senza ulteriori aiuti – e la gentilezza con cui si rivolge
indiscriminatamente a capi, amici e sconosciuti. C’è così poco
in comune, tra le loro ideologie e modi di fare, che la loro amicizia a tratti
sembra una pantomima. Non lo conosceva, prima di scappare di casa e trovare
lavoro alla stazione di Gare d’Orsay,
ma quando gli parla – e
ancor più quando Marco lo ascolta,
indipendentemente da quanto stupide siano le sue affermazioni – gli sembra che sia la persona che ha
sempre cercato, anche se inconsciamente.
« Tutta questa… rivoluzione tecnologica. », mormora,
gesticolando per indicare attorno a sé. « Macchine volanti e protesi
meccaniche. Non pensi che un giorno le persone si stancheranno e preferiranno
tornare a… qualcosa di più semplice? »
Si
stringe nelle spalle. Quel pensiero aveva molto più senso nella sua testa, semplice e lineare – immagini chiare della campagna che
ha abbandonato per Parigi, dove la vita è più semplice e le persone più cordiali. Lo elettrizzava, l’idea della città – che ha
però scoperto essere solo un’idea, ripulita dal marcio e dalla
povertà, dall’aria pesante di vapore e da un costante movimento con cui
non riesce a stare al passo.
La mano
di Marco si posa sulla sua, una goccia di caldo nel gelo della giornata
autunnale. Jean la fissa senza pronunciare una singola parola, raccogliendo a sé il coraggio di sollevare lo sguardo
da quell’unione fin troppo
perfetta – la mano di Marco copre
perfettamente la sua, la carnagione scura e tempestata di lentiggini contro il
suo pallore, i polpastrelli rovinati dai graffi esattamente come i suoi – per posarlo sul sorriso di Marco,
ampio e sincero.
« A me piace stare qui. », ammette, senza che il sorriso
vacilli un istante. « Mi
piace Parigi, la destinazione che sta prendendo questo mondo strano… o non avrei mai scelto di diventare
un meccanico. Ma se un giorno dovesse venirmi a noia
sarò più che
felice di vedere il mondo che tu desideri mostrarmi, Jean. »
Lui non
osa dire nulla. Lavora con le macchine: ha imparato a riconoscere il suono che
fanno due ingranaggi quando si incastrano perfettamente, il calore di un motore
che si avvia.
*
1936, Berlino
La luce
del laboratorio si accende all’improvviso
e Jean è costretto a chiudere gli
occhi, sopraffatto dall’intensità delle lampadine. Per un uomo che è nato e cresciuto al lume di candela,
quella benedetta energia elettrica è più una maledizione.
« Dottor Kirschtein,
è ancora qui? »
La voce
che chiama il suo nome gli è
familiare. Solleva un braccio per indicare la propria presenza, il volto ancora
nascosto nell’incavo del braccio, piegato
contro il piano da lavoro. Si è
addormentato nel bel mezzo della trascrizione di alcune formule; gli capita
sempre più spesso, con l’avanzare degli anni.
Il suo
assistente gli si avvicina borbottando sottovoce; entra nel suo campo visivo
nell’istante stesso in cui Jean
apre gli occhi, strizzandoli più volte
per abituarsi alla luce. I capelli legati lasciano scoperta una metà del volto, quella ricostruita con
parti meccaniche, piccoli ingranaggi dorati che ruotano e donano alla parte
mancante del suo volto l’illusione
della vita. Anche il ragazzo, come lui, è ancora
in abiti da lavoro: la targa di riconoscimento riportante la scritta “Jaeger Labor
– A. Arlert,
Ingenieur” svetta
sul suo petto, diligentemente appuntata.
« Non essere troppo duro con me,
Armin. », sospira, raddrizzando la
schiena. Il suo sguardo scivola su un punto lontano, dall’altra parte della stanza. « Ci sono vicino, così vicino da non riuscire neppure a
dormire normalmente, di questi tempi. »
Anche
Armin guarda nella sua stessa direzione, verso la parte del laboratorio meno
disordinata. Sul lato dove Jean conduce i suoi studi regna il caos: pagine e
pagine di appunti sparsi, di libri accatastati uno sopra l’altro, di componenti meccaniche
montate a metà e poi abbandonate a se stesse; ma dall’altro
lato, quello della vasca d’acqua
che si eleva fino al soffitto, non c’è un
singolo strumento fuori posto.
« Vicino, eh? », Armin sorride. Condivide il suo entusiasmo, animo
gentile e curioso qual è. « Quanto, precisamente? »
Jean si
sistema gli occhiali sul volto. Il corpo che fluttua nella vasca ha smesso da
tempo di sembrargli finto, una ricostruzione robotica di qualcosa che ha dovuto
abbandonare per sempre: ora è più che mai simile alla promessa che ha
compiuto sul letto di un amico morente. Sente il calore delle sue mani come lo
avesse già con sé, lo rivede sorridergli, rivede le proprie dita – giovani, ancora inesperte – tracciare linee tra le lentiggini
scure sulla sua pelle, le stesse che ha ricreato sulla pelle dell’automa.
« Più vicino
che mai. », mormora, in risposta ad
Armin.
Nella
sua testa sente il rumore stridente di un ingranaggio che insiste per occupare
il proprio posto nel disegno che si è creato
nella sua mente dalla morte di Marco, una melodia incessante e monotona, come
quella creata da gocce di pioggia.
Questa storia è stata
scritta su commissione. I più
sentiti ringraziamenti al committente, Eleonora!
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Vi ringrazio per l’attenzione,
alla prossima!
-Joice