Capitolo 50: Disturbia, step four: about what we’ve
never had (I)
RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo
cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da
Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass,
Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui
Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere
ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare
Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà:
una donna di nome Tatia Krasova gli
aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di
lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era
stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima
dimora di Tatia Krasova,
in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia,
Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci
anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa. Tatia da sempre dotata di un
fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole
scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff,
specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato.
Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per
uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva
fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo
stesso interesse che gli aveva provocato Tatia,
altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome
dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in
Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa
straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina,
scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione
decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia
con Ilai, a cui la lega una complicità sempre
più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi
amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff,
compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco
ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo
che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il
bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione
diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche
Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita.
L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno
dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in
modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff,
Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo
figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed
Hermione apprendono dall’Empatica Helder di
essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il
demone Adamar e gli Empatici. Non potranno
sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio,
se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che
li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e
distruzione dello Zahir e al ritiro dalla
prova di Adamar a cui si era sottoposto
Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili
vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo
scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso
da Adamar nonché della sua stessa
esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione
disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto.
La Solutio damnationis è
però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e
liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff,
in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per Ilai Radcenko,
che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per
ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene
siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli
qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi
alla Solutio damnationis.
Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle
circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa
degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo
verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso
unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione
incontrano il demone Adamar e la sua
compagna di vita, Eva Dubois. La prova del
demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di
Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e,
secondo Adamar, avrebbero avuto quello che
davvero desideravano. Adamar li blocca
quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per
fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo
reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia
un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di
tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si
possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con
Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo
sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un
matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di
qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo
innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso
di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha
riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata
all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e
sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui
un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato.
Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge
alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di
uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione,
in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze
misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo
della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane,
apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la
quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova
Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia,
in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome
Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel
fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui
provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella
lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La
collana, in questo mondo, indica sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa
per la sofferenza che ha indotto a Draco con le sue accuse, Hermione accoglie
il ritorno a casa per le vacanze natalizie della figlia Rose che le confessa di
essersi innamorata proprio del figlio di Draco, Scorpius.
La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che il padre Ron potrebbe avere
per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo
promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron
rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere
pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto
ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a
casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la
verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della
figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al
clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti
chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante
Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della
sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco
ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa,
non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi
confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione
si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un
contatto delle loro mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti,
ritorna un ricordo della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione al Petite
Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity
e di Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva
automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un
momento che non ricorda. Per convincerla del fatto che sia effettivamente
completamente estraneo alla vicenda, Draco le consente di usare la Legilimanzia su sé stesso allo scopo di indagare se ciò sia
la verità. Hermione scopre così che Draco, oltre ad essere innocente, non si è
mai innamorato una volta nella sua vita. La rivelazione sconvolge Hermione per
l’intimità della scoperta, spingendola ad allontanarsi da Draco, liquidando il
ricordo come un fervido momento di immaginazione, cosa non facile da continuare
a credere quando i suoi sogni iniziano ad essere popolati da un bambino che non
conosce, biondo, e che si chiama Alex. E che è certa essere suo figlio. Ad aumentare
ulteriormente i suoi sospetti che ci sia qualcosa che non va dentro di lei, l’incontro
con l’Empatica Helder, giunta nel suo ufficio per
pratiche relative a suo marito Chris: la donna, oltre a percepire il germe del
legame con Draco, sente anche che Hermione è vittima di una magia nera molto
potente che lei non è in grado di capire da dove provenga. Le consiglia quindi
di contattare il più grande esperto di Arti Oscure, l’insegnante di Hogwarts Ilariy Radcenko. Lo scambio di missive con l’insegnante porta al
fissare un incontro nell’accademia di magia a cui però, per la natura dell’incantesimo,
dovrà essere presente anche Draco. Hermione però non riesce a contattarlo, ogni
sua lettera viene scientemente rifiutata dall’uomo, finché Hermione viene a
sapere dalla cognata Fleur della morte di Narcissa
Malfoy. La ricerca disperata di Hermione per ritrovare Draco e chiedergli scusa
della sua insensibilità ed egoismo, si conclude a casa sua dove trova Draco. Il
nuovo contatto tra i due, innesca l’ennesimo ricordo della loro vita precedente,
cosa che alla fine fa loro capire che è l’incontro delle loro mani che fa
scaturire la valanga di incomprensibili memorie. Hermione ospita Draco in
ufficio per la notte e, per ricambiare, l’uomo decide alla fine di
accompagnarla all’incontro con il professor Radcenko.
29 gennaio
I
giorni avevano preso ad accelerare come sotto il tasto dell’avanzamento veloce:
sfrecciavano, schizzavano, sfrigolavano scoppiettanti sull’orlo confuso della
sua visione periferica, ammassandosi gli uni sugli altri, traballanti come
carte da gioco.
Camminava
con il messaggio di Draco Malfoy in tasca, in borsa, in cartella: nelle ore più
disparate della giornata, chinata sui piatti da lavare, annegata nelle pratiche
sulla scrivania, chiusa nei vagoni della metropolitana, Hermione lo tirava
fuori e lo distendeva davanti a sé, lisciando le pieghe, seguendo con i
polpastrelli le linee delle lettere tratteggiate e scorticate sulla carta.
“… tu
stanotte hai fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché,
grazie a Merlino, non sei come me”: rileggeva quella frase spesso, la pergamena
e l’inchiostro profumavano, cantavano quasi, le pareva che la incensassero come
una regina.
A sé
stessa raccontava compassionevole che teneva con sé il messaggio per impedire
che qualcun altro lo trovasse, e la cosa misericordiosamente divenne vera
quando i messaggi si moltiplicarono: il 30 gennaio, la data dell’incontro con Ilariy Radcenko, si avvicinava ed
urgeva prendere accordi. E sebbene sarebbe stato meno compromettente bruciare
ogni singolo messaggio, Hermione preferiva ammonticchiarli in una scatola di
latta azzurra, nell’ultimo cassetto della sua scrivania, al lavoro.
Draco
Malfoy era dannatamente puntiglioso e preciso, Hermione lo scoprì in quei
giorni in modo abbastanza sorprendente. Del resto era scontato a rifletterci
su: viveva sotto il ricatto costante dei Greengrass
che, come lo avevano obbligato a sposare Astoria, così potevano decidere ad un
tratto che fosse più vantaggioso un divorzio, tenendo sempre in pugno come
costante merce di scambio il figlio Scorpius, la sola
cosa a cui Draco Malfoy era affezionato.
Perciò
negli anni l’uomo era diventato certosino nei suoi programmi ed azioni: fece
intuire tra le righe ad Hermione che aveva dovuto firmare un rigido accordo
prematrimoniale, le cui clausole erano piuttosto stringenti, specie in caso di
infedeltà coniugale. In tralice, spaccone, aveva aggiunto che questo non era
mai stato un deterrente, ma sicuramente aveva affinato la sua prudenza ed
ingegno. Ed effettivamente, Hermione congetturava tra sé e sé, nel Mondo Magico
non era mai venuto fuori un solo pettegolezzo a carico dei Malfoy, ma la
strenua attenzione ai dettagli del suo compagno di avventura faceva ovviamente
indovinare che fosse dedito alla pratica delle relazioni clandestine da diverso
tempo.
Perciò,
naturalmente, quando Hermione aveva iniziato a programmare in modo neutro ed
innocuo la loro trasferta ad Hogwarts, meditando di
raccontare a tutti che erano semplicemente andati a trovare i loro figli, la reazione
di Malfoy fu di una freddezza estrema: se doveva partecipare a quella missione
di ricerca, doveva essere lui a stabilire le condizioni e tra queste non
figurava quella confessione idiota. Ci mancava solo che lo vedessero andare in
giro per Hogwarts con Hermione Granger
in Weasley.
Tutti,
persino i più idioti, avrebbero pensato che ci fosse qualcosa sotto, se non una
relazione sentimentale, qualcosa di quantomeno sospetto.
E,
ovviamente, Draco non voleva far conoscere alla famiglia della moglie nulla che
potesse porli in un ulteriore posizione di vantaggio, compresa la conoscenza
della possibilità di essere oggetto di un incantesimo.
Perciò
bisognava prendere ogni premura del caso.
Nessuna
perciò visita ingenua ai loro ragazzi: nessuno doveva vederli assieme, nemmeno
i loro figli. Per quello, il problema fu facilmente risolto da Hermione con
l’ennesimo furto del Mantello dell’Invisibilità, cosa che oramai era diventata
una tale abitudine che non le procurava nemmeno una capriola di senso di colpa.
Ulteriore
questione fu l’orario dell’appuntamento con Radcenko.
L’insegnante
era molto impegnato, aveva già concesso a fatica un incontro e lo aveva fissato
alle sei e mezzo di mattina. Si era scusato profusamente nelle lettere, ma
poteva riceverli solo prima dell’inizio delle lezioni così da poter dedicare
loro l’attenzione del caso.
Naturalmente,
un paio di anni prima, il problema non si sarebbe posto: si sarebbero
Smaterializzati ad Hogsmeade una mezz’ora prima,
giungendo in perfetto orario al castello. Ma da circa un lustro Hogwarts era protetta da Incantesimi molto più stringenti
di quelli degli anni in cui loro erano stati studenti. Un paio di casi di
vendette trasversali di ex Mangiamorte a danno dei ragazzini alloggiati
nell’accademia, aveva fatto sì che la Preside decidesse di allargare la zona
dove la Smaterializzazione non era possibile, inglobando la stessa cittadina di
Hogsmeade e costringendo gli avventori del castello
ad un passaggio obbligato in una piccola striscia di terra da percorrersi con
mezzi ordinari come carrozze o auto babbane, in modo che qualsiasi visitatore
fosse debitamente controllato ed avvistato molto prima dell’arrivo ad Hogwarts.
Il
passaggio, naturalmente, era chiuso al tramonto e riaperto solo alle prime luci
dell’alba. Calcolando il tempo di percorrenza fino ad Hogwarts,
passava almeno un’ora. Hermione, perciò, dovette concludere con una fitta di
ansia che doveva essere attraversato la sera prima per non mancare l’appuntamento
con il professore, costringendo lei e il suo riottoso compagno di viaggio a
pernottare per la notte.
Di
nuovo, aveva scritto a Malfoy, proponendogli quindi di alloggiare ad Hogsmaede, ma naturalmente lui ancora aveva posto il veto,
troppa gente conosciuta in giro, non se ne potevano certo andare in giro per
ore con il Mantello sulle spalle.
Ed è lì
che, leggendo la lettera, Hermione aveva rischiato uno svenimento misto ad un
infarto.
Perché
Malfoy, con una naturalezza banale persino, aveva imposto che alloggiassero in
una comunità babbana che, per forza di cose, era racchiusa nella zona protetta:
si trattava di una piccola cittadina sulle rive del Lago Nero, chiamata Fort
Lachlan. Era, secondo lui, il posto più sicuro dove poter sostare, nonché il
più comodo visto che era collegato con una corriera all’altra parte del Lago,
praticamente in prossimità con il passaggio per Hogwarts.
La
spiegazione, naturalmente, non faceva una piega: Hermione, però, faticava
ancora a credere che tale sintesi mentale fosse giunta da Draco Malfoy. Passi
essere diventato più tollerante verso Mezzosangue e Nati Babbani, ma da qui a
restare un giorno in un paesino babbano, ne correva di acqua sotto i ponti.
L’eccesso di prudenza evidentemente poteva anche del disgusto più sfrenato,
constatò mentalmente Hermione, e d’altro canto, se così stavano le cose, non si
voleva perdere lo spettacolo delle sue espressioni facciali al cospetto del
mondo babbano.
Si
organizzarono quindi per partire al termine delle rispettive giornate
lavorative, avrebbero attraversato la barriera per la zona protetta
separatamente così da non essere visti assieme, per poi incontrarsi alla
fermata della corriera per Fort Lachlan, zona sufficientemente babbana per non
avere noie.
Draco,
a questo punto, si sentiva al sicuro: aveva imbastito la solita storia della
trasferta lavorativa per ritirare dei carichi preziosi di pozioni rare e la
moglie, impegnata a rinnovare il maniero alla morte di Narcissa, aveva annuito
assente, non degnandolo della benché minima attenzione.
Per
Hermione, invece la questione si complicava notevolmente.
Tutto
faceva rima con l’ennesima storiella, l’ennesima bugia, l’ennesima scusa,
l’ennesima menzogna da propinare al marito, con cui condivideva ormai
un’abitazione gelida, fredda, resettata sulla cortesia di plastica che era
l’amore per il figlio Hugo che non avrebbe dovuto preoccuparsi della distanza
tra i suoi genitori: poteva dirgli la verità, Hermione lo sapeva.
Che era
stata maledetta da qualcuno, che condivideva i sintomi con Draco Malfoy, che
era necessario parlare con il professore di Difesa contro le arti oscure per
avere una diagnosi corretta del caso, prima che potesse diventare pericoloso.
Ron
l’avrebbe aiutata, ascoltata, consolata. Certo, era perfettamente da lui non
lasciarla sola.
… e
poi… avrebbe dovuto spiegare dei ricordi che le rovinavano nella testa,
potenti, spavaldi, arroganti, e che facevano sbiadire ogni sua antica memoria
della loro vita assieme. Doveva raccontare delle notti passate ad inseguirne le
tracce dentro le palpebre chiuse, mentre lui le russava accanto. Doveva dirgli che,
in quei ricordi, Draco Malfoy era sempre una certezza, e lui invece era sempre
un’assenza mai nemmeno ricordata o rimpianta.
Doveva
dirgli necessariamente che i ricordi, avevano scoperto, venivano richiamati dal
tocco delle loro mani: e allora Ron non avrebbe sentito più nulla, perché non
conosceva dimensione dove lei avrebbe toccato la mano di Draco Malfoy, così,
dal nulla, senza costrizione e violenza.
E
allora, ancora, aperto il fondo del barile, cosa le impediva di parlare ancora?
Di dirgli che lei si fidava di Draco Malfoy, che era corsa da lui non una ma
ben due volte, che conosceva a memoria di che cosa sapessero le sue mani, che
poteva riconoscere il suo odore persino da cieca, sorda, muta, forse persino da
morta?
Cosa le
impediva di dirgli che pensare di partire con Draco Malfoy le accendeva il
petto di tremule fiammelle, che erano ansia, paura, angoscia, ma che erano la
sensazione preconizzatrice di tutte le avventure che aveva vissuto da ragazza e
che oramai erano sparite dalla sua vita, come nebbia al mattino? E che avrebbe
dato manciate degli anni con lui, con suo marito, solo per avere giorni così,
quando l’attesa che era quella valigia sotto il letto, diventava un battito
asincrono nello stomaco ad ogni ora del giorno e della notte, che contava i
secondi rianimandola?
Non
poteva dirgli tutto questo.
Mentii
ancora. Parlò anche lei di una trasferta di lavoro.
Corse
nella luce del tramonto fioco, il borsone che urtava ritmico contro il suo
ginocchio.
Gli
occhi dorati, splendenti.
Non
sapeva di aver avuto quegli stessi occhi in un altro tempo, un altro luogo, un
altro mondo.
Era una
cameriera allora, ma anche un ex Auror e la futura madre di un bambino di nome
Alex.
Era
tutto diverso.
Tranne
una cosa.
Draco
Malfoy che era, restava, la sua certezza.
Quando lo vedo arrivare, nel buio fumoso di questa
sera fredda, d’improvviso tutto diventa ligneo di consapevolezza: sono davvero
qui, alla fermata di una corriera che ancora non arriva, viandante di un
viaggio che è un’altra bugia ai miei cari, con una valigia leggera ma
pesantissima assieme che ci ho messo giorni a fare, preoccupata di ogni
gradazione e foggia di abiti.
Ed il mio compagno di viaggio, il solo, è Draco
Malfoy.
Prima di vederlo, davvero, in questa sera
deserta, tutto sembrava ovviamente una specie di fantasia rincitrullita come
quando immagini come sarebbe vivere con le branchie, o avere i capelli blu
oltremare: adesso sta succedendo sul serio e non posso tornare indietro,
la menzogna detta a mio marito prende la forma della sua andatura lenta,
strascicata, annoiata che si srotola lungo i passi che lo uniranno a me, alla
mia strada, al percorso di vita che sto scegliendo stasera.
La mia mano, sudata, scivola sulla presa della
valigia, la regge appena, mi pare che mi sfugga dalle dita: ho accumulato
vestiti per una settimana, non sapendo cosa portarmi dietro, anche se non era
necessario nulla di che visto che devo restare fuori solo una notte.
Bastava un pigiama, uno spazzolino: invece, con una
specie di volontà propria, ci era entrata una gonna a pieghe azzurra, una stola
leggera ed impalpabile, e poi un rossetto rosso vermiglio che non ho mai
portato prima, orecchini lucenti ad imitare lo smeraldo, comprati di istinto,
persino un profumo all’odore di rosa inglese che mi dava le lacrime agli occhi.
Non si
sa mai, dicevo e la valigia
cresceva, pesava, si chiudeva a fatica, perché non dovevo sfigurare, perché lui
mi mette sempre in difficoltà e non dovevo dargliene motivo, perché ci mancava
solo fare la figura della piccola fiammiferaia al suo cospetto, è bastata
quella sera completamente bagnata dalla testa ai piedi… per cercare lui,
poi.
Parole su parole, pensieri su pensieri, accatastati
assieme mentre Hugo ripeteva la lezione di storia, mentre la televisione
trillava di una canzone rap, mentre Leda elencava gli impegni della giornata,
mentre Ron sfuggiva i miei occhi appena entrava nelle stanze dove ero io: ed io
annegavo nella confettura di quelle occorrenze cerebrali, e fuori sorridevo,
annuivo, correggevo, rispondevo.
Senza sentire nulla davvero, senza che niente
lasciasse traccia, come se fossi fatta della stessa sostanza delle orme sulla
spiaggia, cancellate dal mare.
Ora, adesso, la valigia pesa tonnellate, mi scava
un fosso sotto i piedi con l’intenzione di seppellirmi come se dovessero
lapidarmi: io, la spergiura, la traditrice.
Non so giocare a questo gioco, chiaro. Ho il cuore
in gola, la lacrima in tasca, le guance arrossate dal vento della sera
ghiacciata che il lago mi soffia in faccia, alla maniera di un respiro
affannoso da moribondo. Sono sotto ad un lampione, esposta al cono di luce, ho
i capelli sciolti e liberi sulla schiena, acconciati in onde morbide di
vaniglia perché, ancora, dovevo sentirmi a posto con me stessa, apparentemente
perfetta, a mio agio, padrona della situazione. Vesto di bianco e rosso, come
quando voglio sentirmi forte, spicco come un faro nel buio.
Lui no, ovviamente lui scivola nella semioscurità
come se fosse fatto di aria rarefatta, semiliquida, brumoso come un miraggio di
tenebra. Ha una borsa piccola, una specie di ventiquattrore di pelle nera che
regge con forza, facendola dondolare lascivamente, come se fosse piena di
piume.
Ha un cappotto scuro con il collo alto, lo fa
confondere con le ombre della sera, spuntano a fatica gli zigomi e la forma
aguzza del naso. A coprire gli occhi ci pensa poi un cappello a falda larga di
lana nera, sembra spuntato da un romanzo noir a tinte fosche: penso con una
punta di insania se sia qui per recitare la parte della vittima o dell’assassino.
Arriva nello stesso momento in cui, con un grande
rombo di motore, inforcata una curva a velocità sostenuta, la corriera compare
nella strada fermandosi a pochi metri da me, accecandomi con i fari come se
fossi un cervo pronto ad essere investito. Meccanicamente, faccio un passo
indietro per evitarla, sebbene sia sul marciapiede e non corra alcun rischio di
essere calpestata.
Senza rivolgermi alcuna parola, limitandosi ad un
cenno veloce della testa che vuole fungere da saluto, Malfoy attende l’apertura
della porta scorrevole dopo avermi superato ed essersi fermato davanti a me,
dandomi le spalle.
Lo vedo con una parte remota della mia mente salire
i gradini con eleganza, obliterare il biglietto per poi percorrere il corridoio
alla ricerca del suo posto, il cappello nero che spicca sopra il mare di sedili
consumati di pelle rossa.
Da parte mia, non riesco a muovere nemmeno un
muscolo, neanche gli occhi, neanche le mani. Mi aggrappo alla mia valigia come
se fosse la sola cosa in grado di darmi un peso, una dimensione, una specie di
ancoraggio fisico a qualcosa che, passo dopo passo, si sgretola
progressivamente dentro di me, attorno a me.
“Ehi bella, che fai? Sali? Guarda che questa è
l’ultima della giornata” mi apostrofa duramente l’autista, sporgendosi di lato
con una mano già poggiata sulla leva che regola la chiusura della porta.
Non gli rispondo, non so nemmeno io che cosa
dirgli, continuo assurdamente a pensare ad Hugo che tra poco si metterà a
tavola, con le gambe che non gli arrivano al pavimento e che continuano a
scalciare sotto il tavolo. Continuo a chiedermi se mangerà tutta la fettina di
carne, se non lascerà come al solito metà, tentando di nasconderla dentro la
montagnola del purè di patate. E, mentre me lo chiedo, le gambe si incollano al
marciapiede, mentre rabbrividisco fin dentro le ossa.
“Deve scusarmi, mia moglie è una svampita di prima
classe… pensi che qualcuno la chiamava la più svampita della sua
generazione…” la sua mano si chiude sul mio fianco destro, mentre l’anca
sinistra urta bruscamente contro di lui per il contraccolpo della sua presa
salda, decisa, fulminea. Registro come una sorta di riflesso condizionato il
suo odore, il solito fresco di settembre umido, ma giunge remoto alla mia testa
come il residuo flebile di un’illusione, è come se fosse distantissimo miglia e
chilometri e non fosse davvero qui. Non lo sento nemmeno quando, con decisione
spavalda, mi trascina per la vita nella corriera, facendomi sedere poi al mio
posto vicino al finestrino, poco prima che mi segua sedendosi accanto a me con
un lungo sospiro. Noto anche che, con maniacale attenzione, fa di tutto per non
sfiorarmi la mano nemmeno per sbaglio, ma me ne accorgo con una lascivia
mentale che è solo una consuetudine di ragionamento, di osservazione che è una
mia caratteristica precipua. L’informazione, come un ciottolo di fiume, scivola
dentro la mia mente, sparendo alla vista e alla coscienza, assieme alla
consapevolezza del turbinare nervoso del suo sistemarsi meglio sul sedile, come
se non trovasse la posizione più comoda.
“Quale parte, esattamente, del mio discorso
sull’essere invisibili non hai compreso, Granger?
Devo farti un disegnino?” la sua voce schiocca come un colpo di frusta
raggiungendomi dietro il collo, incassandosi nello spazio tra le scapole. Parla
nascondendosi nel collo del cappotto, muovendo a malapena le labbra come un
ventriloquo. Le dita nervose tamburellano su un ginocchio.
Naturalmente io ho la voce molto più alta di quello
che dovrebbe essere per non attirare l’attenzione. Lo afferro per la manica del
cappotto, cerco di portare a me i suoi occhi, ci riesco. Assottiglia le
palpebre, mi studia con attenzione mentre il mio labbro inferiore trema senza
controllo, gli occhi che si inabissano nelle lacrime: “Mio figlio… mio figlio
si sta mettendo a tavola adesso”. Visualizzare l’immagine nella testa, darle un
contorno ed un confine, una nettezza ben precisa nell’orizzonte fisico degli
eventi, finisce per soffocarmi in gola con un nodo di tristezza. Lo mando giù,
nell’esofago, sospingendolo al suono di un acuto selvaggio ma soffocato che
riecheggia sinistro dentro i sobbalzi della corriera.
Draco sgrana gli occhi, i tendini del braccio
scattano sotto la manica del cappotto che ancora stringo, sembra che qualcosa
di freddo gli passi lungo la schiena, mentre dice asciutto: “E tu sei qui… con me”.
L’accentuazione sul finale mi fa staccare la mano
dal cappotto, mentre mi chiudo nelle spalle e pigolo a testa bassa: “Non è
questo”.
“E’ anche questo, non dire stronzate” lo
vedo con la coda dell’occhio accavallare nervosamente una gamba, al ritmo di un
sospiro lungo, fremente, irato, cosa che mi fa sentire una mocciosetta
scornata. Incasso le spalle e le dita torturano senza sosta il panno leggero
del cappotto bianco.
Eppure, come mi capita spesso quando sono con lui,
sebbene la decenza e il buonsenso mi impongano di tacere, mi pare sempre di non
riuscire a starmene zitta, immobile. Nelle viscere di me stessa, arde un fiume
di lava di parole incandescenti che, se me lo tengo dentro, mi scottano come
fuoco liquido. Le devo dire, le devo tirare fuori.
Perciò, annebbiata, guardandomi le mani in grembo,
soggiungo con la voce spezzata: “Non sono con lui. Non sono con mio figlio. E
ho mentito a mio marito. Di nuovo. Non ricordo l’ultima volta che sono stata
sincera con lui”.
Draco lascia andare un nuovo lungo sospiro
trattenuto, non saprei dire se di rassegnazione o altro. La mascella serrata,
lo sguardo gelido, guarda fisso davanti a sé, immobile come se avesse appena
scorto un Basilisco. Le labbra si muovono appena mentre geme caustico: “Io non
ricordo se sono stato mai sincero con la mia di consorte…”, la frase mi fa
raggelare sul posto irrigidendomi.
Sembra accorgersene perché, poggiando la nuca sullo
schienale del sedile, volta lievemente la testa verso di me e soggiunge con un
sorriso amarognolo: “C’è di peggio, Granger”.
“Non credo che sia la stessa cosa” sussurro,
guardandomi le ginocchia, una fitta improvvisa di compassione e pena che mi
ruzzola dentro il torace, annebbiandomi la vista. Rivedo dentro la mia testa la
confessione potente ed enorme che scorsi nella sua, non mi sono mai
innamorato in vita mia e, come spesso accade, mi sento fortunatissima.
Spesso non riesco a capire che cosa sia rimasto del mio matrimonio e del
sentimento per mio marito… ma esso almeno è esistito in un certo momento. Ci ha
fatto generare due figli. Ci ha unito in una sola carne ed anima per anni.
Lui, invece, non solo non lo prova per sua moglie,
ma non sa nemmeno che significa.
L’intimità della situazione, di questa gita
segreta, mi frastorna nuovamente, riportandomi all’immaginazione le centinaia
di volte in cui, sicuramente, ha compiuto passi simili con altre donne che,
dopo, si è portato a letto. Lo ha ammesso lui stesso tra le righe e sembra
troppo abituato a celare, a nascondere, a cercare sotterfugi ed elusioni.
Lo spio con la coda nell’occhio, una sensazione
diffusa di calore che si espande sul viso, ne hai portate tante sulle
corriere, per poi finire negli alberghi, come sta succedendo stasera con me? Mi
scopro a chiedermi se, con queste fantomatiche donne, guardasse dritto davanti
a sé, con la mascella serrata, come adesso, o se invece… forse resti
perfettamente immobile, ma allunghi le dita per toccare l’interno delle loro
mani, per far sentire che ci sei, per dare il brivido che si porteranno dentro
fino a quando ti chiuderai le porte alle spalle, spogliandole prima di arrivare
ad un letto, senza neanche stendersi supini, in piedi, come una cosa mangiata
senza fame, solo per necessità, solo per sopravvivere, solo per la colpa atroce
di non amarne nessuna.
Il pensiero, giunto all’improvviso soffuso come una
camera in penombra, mi chiude la gola, la schiarisco con un colpo di tosse.
Lui, d’un tratto, sussurra sottile, lo sguardo adesso basso, catturato come una
falena dalle mie dita che torturo, tormentata, in grembo: “Hai ragione, Granger. Non è la stessa cosa. Non siamo… la stessa cosa.
Tu e Weasley. E io ed Astoria. E nel mio contorto
modo posso persino essere felice che non lo sia…”, sollevo lo sguardo, una
punta di meraviglia sul mio viso, la vedo riflessa nel piccolo sorriso che mi
restituisce, lo sguardo ancora basso: “Posso essere davvero felice… che ci
siano ancora donne che si distruggono per il senso di colpa di aver mentito al
proprio marito e al proprio figlio”.
La sua constatazione mi fa sentire come una specie
di bestia strana, come una sorta di animale in via di estinzione: scelgo però
volutamente di vederne il meglio come se mi avesse fatto un complimento, sebbene
in modo contorto. Ignoro la fitta allo stomaco all’amarezza della sua voce.
“Dovrebbe essere una cosa normale” ribatto
ingenuamente, continuando a torturare l’orlo del cappotto bianco, il minuscolo
sorriso che mi ha rivolto che mi addolcisce la voce.
“Non lo è per me, non lo è mai stato…” prosegue lui
secco, sistemandosi meglio sul sedile come se non avesse pace “Per questo non
posso capire cosa provi, non posso nemmeno tentare, Granger.
Posso dirti però una cosa…”, la sua voce si curva in un accenno più smorto e
sottile, come un bisbiglio impalpabile che sembra raggiungermi fin dentro il
costato “Non hai mentito per te stessa, per il tuo piacere. Come ho imparato a
fare io o come fa mia moglie. Sei cristallina come una mocciosa, tu. Non
lo sai fare. Spicchi come se avessi un segnale luminoso in fronte…”, si spezza
il fiato in un suono inarticolato a metà tra lo sbuffo e la risata, stemperati
entrambi nel tono sarcastico. Mi stringo nelle spalle, incassandomi
vergognosamente, pensando alle mie riflessioni precedenti, al mio cappotto
bianco, al fatto che pure io avevo pensato che non avevo nulla del suo essere
furtivo. Ancora una volta, però, non so se nel suo caso, lui lo veda come una
lode o come un rimprovero.
“Hai mentito per proteggerli, lo hai detto tu. Per
non preoccuparli…” asserisce serio, convincente, rassicurante, al punto che
davvero inizio a crederci anche io “E hai mentito anche per me… perché ti ho
chiesto di farlo. Quindi la prossima volta che ti senti così… dai la colpa a
me, Hermione. Ci sei abituata, sarà facile, credimi”. Il suo tono, la
rassegnazione spavalda della sua affermazione, mi fa sollevare gli occhi che,
testardi, avevo tenuto fissi tutto il tempo sulle mie ginocchia serrate. A metà
strada, incontro anche i suoi di occhi, arrivati finalmente ai miei.
“Quello era Harry, non io…” sorrido con quella che
vorrei interpretasse come gratitudine per il goffo tentativo di tirarmi su di
morale. Mi poggio con la testa al sedile, inclinando il viso di lato ed
aggiungendo lieve: “Mio malgrado, ti ho sempre dato il beneficio del dubbio”.
“Sono preso da un’ondata di commozione a scoppio
ritardato, Granger” soggiunge, roteando gli occhi e
tornando a guardare davanti a sé con l’ombra, ancora, di un’increspatura
sottile sulle labbra.
Mi sento in dovere di aggiungere, incespicando
sulle parole: “E non ti darò la colpa di niente, Malfoy. Penso che abbiamo
superato quella parte”.
Ci
siamo abbondantemente oltre. Se anche un tempo fossi stata così, quale specie
di idiota sarei a darti ogni colpa del mondo come una bambinetta se, dopo,
attraverso le città e le strade soltanto per poterti trovare e sapere che stai
bene? Scivolandoti tra le braccia come se, inconcepibilmente, ci fossi nata
dentro? Come se sapessi sempre che tu, dall’altra parte, starai sempre lì ad
aspettare, le gambe piantate per terra, il respiro immobile, la mascella dura,
il corpo pronto ad incastrarsi con il mio.
Sarei
l’ipocrita del secolo.
Scrollo la testa a quel pensiero, i pensieri sono
diventati dei palloncini instabili ed isterici che se ne vanno continuamente
per conto loro. E, ancora, temo di esserci abituata, non so nemmeno io come.
“Credo che mio padre si stia rivoltando nella tomba,
io e la Granger legati da una specie di amicizia…”
commenta lui con un ghigno, guardandomi di sbieco, quasi aspettandosi una mia
reazione di disgusto alla prospettiva. In verità, la prima cosa che provo è un
enorme ed incommensurabile sollievo. Essere rientrati nella confort zone delle
battute mordaci e dei punzecchiamenti, mi rassicura come non mai. Ogni volta
invece in cui viriamo verso argomenti più intimi e personali, mi pare sempre di
essere su una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare, vicina ad annaspare se
dovessi dire qualcosa di troppo, o fare qualcosa di troppo. Cosa che,
puntualmente, succede con me che gli do sempre ogni possibilità di cambiarmi
l’umore, di rendermi allegra, di farmi chiudere il cuore dentro il petto per
paura di sentirlo ancora.
Ed anche adesso, devo ammetterlo, ci è riuscito per
l’ennesima volta, facendo accucciare il mio senso di colpa dentro il fondo
dello stomaco come un cucciolo scornato.
Rimesto nella testa ogni retroscena subdolo della
parola amicizia che, così astratta ed impersonale, mi risulta comunque
confortante nel suo essere asettica, clinica, generalizzante, come se
sterilizzasse ogni cosa strana di questo rapporto. Pare una sorta di scrollata
di spalle dialettica, chiamiamola amicizia dai ed andiamo oltre. Così ci
dimentichiamo del resto.
Nel concetto, rientra naturalmente una mia risposta
a tono, mentre schiocco la lingua infastidita ed alzo gli occhi al cielo: “A
quanto pare, siamo sposati, tesoro. Mi hai definita tua moglie,
poco fa. Cosa che mi sta ancora procurando dodici coliche renali e quindici
spasmi intestinali, ma soprassediamo”. Completo il tutto con un finto conato di
vomito, mentre lui mi guarda con un sopracciglio inarcato e gli occhi ridotti a
due fessure malevole.
“Allena il tuo apparato digerente allora, Granger…” commenta in tralice, riassettandosi il cappotto
con fare elegante e distaccato “… perché resterai mia moglie fino a domani
mattina”.
Rischio seriamente di strozzarmi con la saliva,
cosa che mi fa produrre una specie di suono inarticolato vagamente somigliante
ad un colpo di tosse misto al principio di angina pectoris.
“Che cosa?!” erompo scandalizzata, cercando di
limare la voce al suo sguardo di fuoco, vista la presenza degli altri
viaggiatori “Capisco la prudenza, ma non sarai solo lievemente
paranoico?! Siamo tra i babbani, chi diamine deve scoprirci qui?”.
Mi guardo attorno per la prima volta da quando
siamo saliti a bordo, persino sulla corriera c’è pochissima gente. Un paio di
vecchietti di ritorno da qualche torneo di bocce. Una signora carica di buste
della spesa. Una mamma circondati da cinque mocciosi urlanti. Gente decisamente
pericolosa insomma, non sia mai che qualcuno ci tramortisca con un
deambulatore, un modellino dei Transformers o con un mazzo di porri. Fuori, la
sera fredda appanna i vetri impedendo di vedere all’esterno, i sobbalzi ritmici
della corriera mi fanno dedurre che stiamo ancora nelle strade sterrate attorno
al Lago nero.
“Siamo in un villaggio babbano a poche miglia da Hogwarts, Granger…” sciorina
ovvio Malfoy, dopo avermi destinato una lunga occhiataccia pietosa alla mia
constatazione “Un posto nemmeno lontanamente turistico, o romantico, o
di una qualche attrattiva economica. Siamo letteralmente in mezzo al nulla. Non
ci viene mai un emerito cane, qui…”, allarga le braccia in silenzio, quasi a
comprendere la folla di sonnolenti avventori sul pullman che, effettivamente,
ad uno sguardo più attento, sembrano comunque saettare spesso gli occhi nella
nostra direzione.
Nonostante l’abbigliamento da spia russa di Malfoy
e il mio appiattirmi sul sedile, abbiamo comunque un’aria sicuramente diversa
da loro, più “cittadina” e meno familiare. Dubito, del resto, che molta gente
che non sia del posto, prenda abitualmente questa corriera. E da qualche cenno
di saluto intercettato prima, deduco che gli altri viaggiatori siano più o meno
degli habitué. Naturalmente, mi tengo
per me i miei pensieri, ci manca pure dargli ragione a questo punto. Incrocio
perciò con sussiego le braccia, alzando gli occhi al cielo, mentre continua la
sua filippica: “C’è però una categoria ben specifica di persone che qui,
nonostante tutto, ci viene spesso…”, saettando uno sguardo dardeggiante nella
mia direzione, motteggia insolente: “Prova ad indovinare”.
“Le coppie sposate, forse?” sbatto le ciglia con
stupore, fingendo la concentrazione da oca giuliva che non ci capisce nulla
delle sue virili e complicate trame mentali, quando ovviamente ci sono arrivata
da un pezzo.
“Esattamente…” sputa fuori con accondiscendenza,
anche se naturalmente dal sospiro rassegnato che lascia uscire fuori, intuisco
subito che ovviamente non si è bevuto la mia manfrina “Ossia i genitori di
mezzosangue e che vengono a trovare i loro figli…”, abbassa la voce,
guardandosi attorno circospetto per timore di essere sentito “A questo i
babbani si sono abituati e non fa notizia… in generale non fa notizia da nessuna
parte che due coniugi alloggino da qualche parte. Caso diverso per un uomo ed
una donna apparentemente liberi che viaggiano assieme. Scommetto che daremmo a
questa topaia di buco infernale l’occasione per ciarlare per mesi. Arrivando
anche a qualche magico paio di orecchie”.
Sbuffo ancora ravvivandomi i capelli con un gesto
volutamente arrogante, evitando però di sottolineare che, in ogni caso, ci
vorrebbe comunque poco per due fedifraghi o per due che hanno una qualche trama
losca, dire che sono sposati. Non è che sia così geniale come piano, ma minimo
se glielo faccio notare, diventerà ancora più dannatamente paranoico, costringendomi
ad ingurgitare otto pinte di Pozione Polisucco,
corretta al bulbo pilifero di qualche vecchietta baffuta.
“Per me sei fin troppo ansiogeno, santo cielo…”
dico comunque, tanto per punzecchiarlo, attività che trovo sempre dannatamente
divertente, specie quando respira come un mantice, profondamente, solo per
resistere all’impulso di rispondermi male “Se è così, mi meraviglio che non ti
sia portato dietro un paio di occhiali con annessi baffoni… devo farmi bionda,
tanto per stare tranquilli?”.
Naturalmente, Draco non mi lascia troppo tirare la
corda e, guardandomi di sbieco, soggiunge truce: “Bè, le regole erano le mie o
te ne sei scordata? Possiamo sempre tornare indietro, eliminare il tuo senso di
colpa da novella Pinocchio ed abbandonare la manfrina coniugale”.
Non ho motivo di dubitare che, se lo innervosissi
troppo, sarebbe davvero capace di mollarmi nel bel mezzo di questo posto
dimenticato dal mondo, con buona pace di tutto l’incontro con il prof. Radcenko. Perciò, ingoiando un groppone di orgogliosa
stizza, replico con un lungo respiro: “Va bene, dannazione. Mi chiamo ancora
Hermione o mi hai pure cambiato l’identità in qualcosa di osceno tipo, che so, Henrietta
Umbridge?”.
Il nome lo fa ridacchiare tra sé mentre si passa
una mano nei corti capelli biondi, non posso impedirmi il tonfo dentro lo
stomaco al suono della risata, colloso del pensiero dolce di avergliela
procurata io.
“Ora che me lo dici mi tenta parecchio come
opzione… peccato non averci pensato prima… Comunque no, ti chiami Margery Carrington. Il tizio che mi fa i Confundus per i documenti aveva solo questo disponibile
adesso. Accontentati, tesoro”. Faccio una smorfia disgustata,
arricciando il naso, sembra il nome di una delle amiche sgualdrine di Leda,
minimo ha preso ispirazione da qualche tizia dalla morale simile. “E tu invece?
Chi diamine saresti?” chiedo, guardandolo storto.
“Julian Carrington” risponde orgoglioso e tronfio
di sé stesso, del resto penso che qualsiasi cosa sia un miglioramento rispetto
a “Draco”, seppure limitato a poche ore.
“Sembra il nome di un gigolò francese di basso
profilo” replico a tono, cercando di smontarlo.
Ovviamente non si scompone minimamente, anzi
azzarda pure uno sguardo di approvazione al mio indirizzo: “Brava, inizia a
fabbricare un bel background, ci potrebbe servire. A te sta sicuramente bene la
novizia fuggita dal convento per amore del qui presente capolavoro di
virilità”.
“Certo, inventiamoci il romanzo di fantascienza
adesso, ci manca solo che abbiamo avuto un figlio e tu nemmeno lo sai…”
commento, incrociando le braccia. Il pensiero è così assurdamente scomodo che
mi riempie di pelle d’oca le gambe, fino al fondo della schiena.
Dopo il suo ennesimo borbottio, restiamo immersi in
un silenzio non scomodo, forse persino piacevole, intervallato solo dai
sobbalzi regolari della corriera e dalle voci degli altri viaggiatori. Mi
azzardo persino a chiudere gli occhi e ad appoggiare la testa contro il
finestrino, assorbendo per un secondo la sensazione di friabile calma, prima che
naturalmente la realtà contingente mi colpisca di nuovo come un treno impazzito
lanciato a tutta velocità. A quel punto, però, riaprendo gli occhi con
lentezza, respiro piano in modo continuo e ritmico, di modo che l’ansia e
l’angoscia escano fuori dal mio corpo come un veleno cattivo. Sento ogni tanto
lo sguardo di Draco tornare verso di me come se stesse studiando e valutando le
mie mosse, ma quando cerco di incrociare i suoi occhi, lui pare catturato dal
riflesso nel finestrino mentre si approssima qualche sparuta casa di legno,
dandomi quindi l’impressione di essermelo immaginato.
Dopo l’ennesimo tornante che l’autista prende con
sfregio assoluto della sicurezza stradale, portando la corriera quasi a
ribaltarsi, dal finestrino appannato vedo finalmente dei grappoli intermittenti
di luci, sparsi come una coperta di diamanti sul dorso scosceso delle montagne.
Gli occhi mi pizzicano quasi per la commozione, Hogwarts,
non la vedevo in versione notturna probabilmente da anni, forse persino dal
diploma. Un solletico sulla nuca mi informa che anche Draco, come me, è
catturato dalla vista, ovviamente impossibile per i babbani sul pullman che continuano
a vedere i brulli rilievi oscuri o pieni di rovine.
Sento Draco sento sporgersi leggermente verso di
me, mentre aguzza la vista dentro il finestrino annacquato dal vapore. Il suo
respiro mi sfiora la pelle dietro le orecchie, riconosco l’odore del suo fiato,
di quel afflato singolare di menta e limone di cui ho impressa nella memoria
ogni singola nota olfattiva, ancora, non so nemmeno io come. Resto immobile,
congelata, le spalle tese e le dita chiuse sul cappotto calato sulle mie
ginocchia. “Sei venuta a cercare… me, Granger?”. La
nuova vicinanza richiama in modo inatteso quella di qualche sera fa, costringendomi
a serrare gli occhi come se fossi sotto una luce intensa, abbacinante, mentre
tutto invece è buio sotteso e soffuso e sono solo io che, così, tento di
mettere in un angolo della testa quelle immagini. La sua mano sotto il mio
mento, a tiro dei suoi occhi, non sia mai che scappassi altrove. La mia guancia
piccola, umida contro le sue dita aperte a coppa. La mano veloce, fulminea, che
si chiude sulla sua, la copre, la stringe. Le immagini di quel mondo che non
conosco che mi piombano nella testa.
E adesso
sono qui, con lui, ancora, di nuovo, sempre, le cornici cambiano, le bugie
dilaniano, i colori sbiadiscono, eppure sulle corriere affollate, o nelle
strade bagnate, o nei corridoi deserti, o sui pavimenti accanto ad un
pianoforte: lui è lì ed io sono con lui.
Ancora,
di nuovo, sempre.
Il ricordo di quella notte piena di pioggia e del
mio comportamento assolutamente irrazionale, mi frana nel petto come una
slavina, traducendosi in un suono inarticolato di gola che anche Draco ode
evidentemente perché, di scatto, si allontana fulmineo da me come se fosse
stato trapassato da una scarica elettrica. L’imbarazzo tangibile, per fortuna,
dura poco perché, con un ultimo sbuffo asincrono che ha l’effetto di farmi
sbattere contro il sedile del passeggero di fronte a me, la corriera finalmente
si ferma, mentre la voce gracchiante dell’autista bercia che siamo al
capolinea.
Fort
Lachlan.
Con quello che pare un moto di sollievo, Draco
afferra brutalmente la sua piccola valigia con una mano dopo essersi calato di
nuovo il cappello sulla testa, attento a farlo aderire perfettamente. Senza
nemmeno aspettarmi, inforca il corridoio scansando persone con malagrazia,
scendendo dal mezzo prima ancora che io abbia fatto in tempo a recuperare le
mie cose.
Andiamo
bene.
NOTA
AUTRICE:
Non aggiorno
da, non so nemmeno io quanto tempo. Ed è una cosa che per tutta una serie di
motivi mi fa stare davvero male ogni volta che ci penso, non voglio nemmeno andare
a cercare appunto da quanto non lo faccio.
A chi ho avuto modo di sentire più direttamente ho spiegato un pochino di cose,
di quanto sia un periodo difficile per la mia famiglia, di quanto ciò abbia
influito sul mio carattere e sul mio approccio a tante cose della mia vita, non
da ultimo la scrittura. Dovrei scrivere un trattato a riguardo, ma non penso
che sarebbe molto interessante... Senza contare che, davvero, sembra da un paio
di anni che non abbia granché pace. Per chi legge, magari, questo può sembrare
anche una scusa o un'esagerazione... Ma davvero ci sono stati momenti in cui
era difficile anche fare le cose più semplici, figuriamoci scrivere.
Figuriamoci se ci pensassi persino.
Questa storia però è casa mia. E io ho un dovere verso di essa e verso di voi.
Mi ha fatto conoscere persone che, ora, chiamo amiche. Mi ha fatto conoscere
una parte di me che non conoscevo. Mi ha fatto capire chi sono e dove voglio
andare. Ed un debito così, bisogna saldarlo prima o poi.
Perciò, al netto di ciò che sarà di me e con tutte le cautele del caso, ho
deciso di cambiare l'approccio che ho a questa storia, cercando così in tempi
più serrati di completarla.
Non faccio promesse scritte su pietra perché come vi ho spiegato, ho imparato
una mia assoluta impotenza nelle vicende della mia vita. Ma cercherò invece di
non fare più capitoli enormi e far passare anni tra uno e l'altro, ma invece di
farne altri molto più piccoli e pubblicarli magari uno ogni mese o ogni due.
Manca poco alla fine e non posso, non voglio arrendermi così. Comincerò già da
quel poco che ho, e così continuerò sperando di farcela. Perciò questo capitolo
è così piccolino e per questo, accanto al titolo, c’è un numero (I) in
parentesi. È solo una piccolissima e prima parte di come lo avevo concepito all’inizio.
Ma ci sono di nuovo, spero di esserci presto di nuovo, e questo già adesso è un
sollievo. Siamo al capitolo 50 e, dopo più di dieci anni, questo dice già
moltissimo su quanto questa storia sia stata e sia ancora una parte enorme
della mia vita.
Se ci
siete ancora, grazie come sempre.
Se non ci siete più, grazie comunque per quello che mi avete dato.
Cassie ❤️