L’ ombra sotto la
pietra
(Io ero Helena Corvonero. E
quel giorno morii.)
~
Aprile 1012, Hogwarts
Quando venne
da me sentì l’aria della mia stanza diventare immobile, pesante, calda. Guardai gli iris blu e i gigli
bianchi distribuiti con cura nel vaso della mia scrivania con tutta
l’ostinazione che mi era possibile. La porta che si apriva e si chiudeva,
leggera, un suono inesistente lontano mille e mille chilometri.
Fuori,
pensai con forza, era Primavera.
Sentivo il sole riscaldare la mia mano inanellata posata sul davanzale della
finestra, mentre le mie orecchie registravano i borbottii incerti e imbarazzati
nel fondo della stanza.
«Barone - mi
decisi infine a dire – cosa vi porta
qui? »
Sembrava che
avesse preparato quel discorso da secoli, e ricordo bene che tanta
tenerezza mi investì, una tenerezza maligna mista alla vergogna, ad una
sensazione di sporco, di sudicio e perverso: avrei voluto prendere la mia
bacchetta e smaterializzarmi via, lontano da lui, dalle sue parole, dal suo
volto tirato e serio, dal cuore che diceva di offrirmi. Alle mie spalle sentivo
la sua voce avvolgersi veloce come un nastro (o come un serpente colorato e
astuto e pericoloso) e ricadere
altrettanto rapidamente come una pioggia di grossa grandine estiva: nessuno
avrebbe potuto sentirsi più irraggiungibile di me. Non lo amavo: ascoltai i suoi
giuramenti dondolando la testa al vento che veniva da sud-ovest, giusto un po’
più in là di quanto mi sarei spinta io. Non lo amavo. Glielo dissi tamburellando
le dita sul vetro della finestra che avevo appena chiuso con un tonfo. Mi sembrò
di chiudere con la forza un occhio severo che sorvegliava la mia vita.
«…sono
sicuro che Milady è stata colta
dall’incertezza di una proposta a cui non era stata preparata a sufficienza e
che sarà felice di esaminare la mia richiesta in un più adatto momento,
nell’intimità della propria stanza e con l’ausilio e i saggi consigli di Lady
Prisci…»
Sentii ogni
cellula letteralmente rivoltarsi al suono accennato del nome di mia madre. Uno
degli iris blu chinò il capo pesante e, aggrovigliandosi, si polverizzò secco
nel fondo del vaso trasparente. Coriandoli che volavano in un’acqua che
ribolliva. Tentai di calmarmi, di respirare, mi ripetei che ucciderlo seduta
stante avrebbe solo reso più difficili le cose, che se veramente volevo recare
offesa a mia madre, non sarebbe stato certo grazie a quel pomposo, tronfio
signore dal volto vuoto che veniva a reclamare diritti inesistenti.
«No, Barone,
avete capito più bene di quanto pensiate. Io non vi amo. Non vi amo ora, non
avverrà in futuro, nemmeno tra secoli e secoli. Il mio è un rifiuto – lo
guardai, guardai bene i suoi occhi spalancati, la sua bocca ermeticamente chiusa
- eterno»
Andò via
dalla mia stanza senza inchinarsi né sbattere la porta. Toccandomi il collo
scoprì con inquietudine che, anche se lui era scomparso, la sensazione di qualcosa che mi strisciava addosso come
una serpe e che mi colpiva ripetutamente non era andata via con lui.
Mi sedetti
sul davanzale della finestra. Un rifiuto eterno resta eterno dissi agli iris di mia madre. Più
di una promessa d’amore urlata alla mutevole luna. L’iris polverizzato si agitò
con uno spasmo per un’ultima volta prima di sciogliersi definitivamente
nell’acqua incolore.
Dicembre 1012, Albania
A niente,
quel diadema non serviva a niente, al
contrario, bruciava gelido contro la mia testa, debolmente protetta dai capelli.
Sentivo nella mia testa i pensieri vorticare come impazziti, ero preda di
ragionamenti febbrili e deliri inutili quanto un indumento estivo nel gelo. Ma
la rabbia, capii strappandomi di dosso quella corona, era un dono a me più
congeniale della saggezza.
Sapevo che mia madre mi stava cercando.
Lo faceva da mesi, da tre settimane dopo la mia scomparsa. Ovviamente aveva
aspettato prima di iniziare le ricerche: credeva che la sua saggia facoltà che per forza dovevo
aver da lei ereditato mi avrebbe riportato a casa. Aveva fiducia in se stessa,
non in me. E sicuro che mi avrebbe ricondotto da lei, più mediocre di prima e
ancora più eclissata dalla sua luce.
Al di là della maga brillante, un iris polverizzato.
Rubare il
diadema non era stato difficile: lei si fidava ciecamente di ogni sua creatura,
dagli incantesimi più banali alle sue figlie di cera. Tutto ciò che esce da me, diceva, prima o poi torna.
«Ma non io!» gridai, abbandonata la
caverna che mi aveva protetto dalla bufera della mattinata. Il pallido sole
invernale rifletteva i suoi raggi bianchi sulla neve che faceva rimbalzare
quella luce fredda contro ogni cosa.
Ad un tratto, tra due alberi lunghi e rinsecchiti che alzavano i loro
rami spogli contro il cielo bianchissimo, vidi lui. Era tornato. Inghiottii una saliva amara
come fiele. Lui era tornato a
riprendermi. La frase rifiuto eterno veniva pompata nel mio
corpo insieme al sangue.
«Barone –
ripetei, come se fosse stato un incantesimo con cui avrei potuto salvarmi – cosa vi porta qui? »
Era bello.
Molto più bello dell’ultima volta che lo avevo visto, ma non per questo meno
pericoloso. Una nuova fitta mi trafisse il petto, come l’ombra sbiadita di una
ferita rimarginata che duole al cambiare del tempo. I suoi occhi vuoti si erano
riempiti di una luce brillante, pulsante e malata.
Ma io non lo
amavo, ero inattaccabile. Inattaccabile. Senza colpa, innocente come una
fanciulla. Io non lo amavo. Un
rifiuto eterno è una promessa più profonda dell’amore. Avrei continuato a non amarlo per sempre, a quale altra
fedeltà più alta avrebbe mai potuto aspirare?
«Sua madre
vorrebbe sapere per quale motivo…»
«Sapere, sapere! Non le è mai bastato
quel che già sapeva» ruggii.
Abbassò gli
occhi. Era un giovane barone con un futuro promettente: si era innamorato della
persona sbagliata. Passerà, pensai.
Passerà presto e non lascerà segni,
come una gelata. L’amore si polverizza, non dura. Era stata solo un incidente di
percorso, solo qualche mese di ritardo sulla tabella di marcia.
«Sua madre –
ricominciò prendendo fiato, sempre ad occhi bassi, una mano guantata e tremante
che afferrava qualcosa sotto il lungo mantello da viaggio – vorrebbe che lei
tornasse. »
«Una ragione
in più per non farlo»
«Ma Lady, – pronunciò il mio titolo con infinita
dolcezza – se fossi io a chiederglielo?»
Rimasi in
silenzio, lì, in quello spiazzo nevoso con i sassi che galleggiavano come
spettri sospesi su quel mare bianco. Io
ero solo un incidente: passerò presto. Tra un anno al più non si ricorderà
più di me, niente è eterno, tranne un rifiuto, e quello è un incantesimo senza
ritorno.
«No, Barone.
No. E non mi aspetto che voi capiate. Io
non vi amo, Barone. Non lo farò
mai. E ora vi prego di andarvene, – mi mossi verso l’albero cavo all’entrata
della grotta - di tornare alla
vostra casa e di riferire a mia madre, per l’ultima volta, che non tornerò mai
più finché sarò in vita»
Vita fu l’ultima parola che pronunciai.
E mia madre fu il mio ultimo pensiero. Il Barone si lanciò su di me come la
serpe della mia inquietudine e mentre mi stringeva il collo, il suo pugnale
d’argento entrò preciso e fatale dentro di me. Caddi a terra con la guancia
nella neve, mentre il mio sangue caldo già si spargeva sotto il mio corpo:
l’ombra sotto la pietra, piena di buio e di rimpianti, aveva la stessa forma del
sorriso della mamma quando mi guardava studiare.
~
Ho sempre
pensato che l’ispirazione, nel momento in cui si manifesta violentemente, arriva
per una qualche precisa ragione. E quindi è stato bello scoprire che dopodomani
sarà il tuo compleanno: queste due pagine, allora, sono per te Koks, per quella
pazza sconclusionata e simpatica che non sei altro. Tanti tanti auguri di
compleanno, anche se con anticipo. <3
N.B.
Non ho
trovato notizie precise riguardo le dare di nascita e morte delle Corvonero:
quel 1012 si riferisce ad un’unica notizia che ho trovato in rete la quale pone
la nascita di Rowena RavenClaw nella seconda metà del 900 d.C. Spero di non aver
forato più di tanto. Infine, il periodo riguardo le bambole di cera si riferisce ad una
magia della maga Faey del libro La città
di luce e d’ombra di Patricia A. McKillip: solo un piccolo prestito.