Lupus in fabula

di Damnatio_memoriae
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Per la pecora è lo stesso che la mangi il lupo o che la scanni il beccaio



 
«Io dico di lasciarla morire» asserì con fare intransigente Dominic, le braccia incrociate sull’ampio petto e l’espressione dura e arcigna che lo aveva sempre contraddistinto. «Gettiamola nel pozzo o lasciamola al limitare della radura. L’acqua o le bestie faranno il resto».
Udito un simile suggerimento, gli uomini e le donne che si trovavano più vicini al rude cacciatore assunsero una espressione assai contrariata. Hanna, gli occhi chiari spalancati, giunse le mani come a voler pregare, ma non proferì alcuna parola. Ambrosius, fermo dietro al suo bancone di legno, tremò versando da bere a chi glielo aveva richiesto e nemmeno il sidro che fuoriuscì dai calici bastò a riscuoterlo. Edith, invece, strinse a sé la piccola Leandra, circondandola con quelle braccia che avevano dato la luce a più bambini di quanti la sua mente potesse tener memoria, minacciando l’uomo dal basso della sua statura. «Non ti azzarderai ad alzare un solo dito su questa innocente creatura, a costo di dovertelo staccare a morsi personalmente. Non hai un minimo di rispetto per la donna che ha dato la vita pur di far nascere questa bambina? Non hai forse sufficiente senno per pensare a qualcosa di più carino da dire nei confronti di chi, appena venuta al mondo, si ritrova già orfana? O sei talmente pieno di boria da non sapere più che cosa fartene della compassione?».
«Compassione?!» scattò l’uomo, rosso in viso. «Guarda, donna!» urlò, scoprendo il moncherino «Vedi forse compassione in questo? Credi davvero che quei cani maledetti abbiano avuto commiserazione mentre mi addentavano la mano e mi laceravano le carni, strappandomele dalle ossa e riducendomi in questo misero stato? Spera che il tuo Dio utilizzi la compassione di cui vai tanto fiera come moneta di scambio, perché ti assicuro che nella tomba non ti servirà a nulla!».
«Spero che Dio abbia sufficiente pietà da elargire anche ai blasfemi come te!» ringhiò e quando la piccola Lea iniziò ad agitarsi a causa del trambusto che la circondava, la cullò. «Sempre che tu non sia empio come le creature di cui straparli con così tanto fervore…».
«Non ti azzarderai…» estrasse dal fodero la sua pistola.
«Oh, mi azzardo eccome invece! E non fingere di non averlo pensato anche tu! Non finga nessuno» guardò i presenti uno per uno «di non aver pensato o temuto quel che solo io sto avendo il coraggio di proferire. Non credo affatto che ciò che cova là fuori non abbia fatto il suo nido anche qui dentro; non credo affatto che il male che ha infettato il mondo là fuori non abbia steso le sue mani anche su di noi; non credo affatto che un vecchio portone di legno e una arrugginita serratura siano in grado di tenerci lontano dall’oscurità, ma sono senz’altro utili per tenere quell’oscurità così vicina a noi da non destare sospetti. Scusami Ambrosius, so che avevi le migliori intenzioni» aggiunse piena di sconforto, rivolgendosi all’oste che più di chiunque altro aveva dato segno di accusare quelle parole «Ma ha ragione la vecchia Nan: gli uomini sono troppo malleabili e non c’è nulla che manipoli di più i loro cuori del male. Ed io temo – no, ne sono certa! – che il Diavolo abbia già trovato un comodo nascondiglio tra queste mura».
«É questo che vuoi donna? Metterci uno contro l’altro?».
«No, questo è quello di cui tu mi stai accusando!».
«Perché lo stai facendo tu!».
«Non ho nessun bisogno di spiegare ad un bruto, ignobile essere quale sei tu del perché non mi fidi di qualcuno che getterebbe una così piccola creatura in pasto alle fiere, quando questa potrebbe essere la nostra sola speranza di salvezza!».
«Chi ti dice che lo sia?» continuò a sbraitare il cacciatore, agitando con foga le braccia in aria, trattenendosi a stento. Subito suo fratello Edmund lo raggiunse, posandogli le mani sulle spalle e invitandolo con tono pacato a moderarsi, senza però riuscirci. «Tutte le tue scellerate supposizioni si basano sul farnetichio di una vecchia suora a cui nemmeno le sue consorelle hanno mai dato credito!».
«Bhè, se anche fosse come dici tu, non vedo perché dovrei servire a delle belve una neonata come pasto domenicale».
«Semplicemente perché un giorno in meno per lei potrebbe significare un giorno in più per noi, sempre che con i suoi urli non abbia risvegliato tutti i luridi canidi da qui fino al confine. Oppure concedi una grazia a tutti i presenti: lasciaci la poppante e immolati per la causa al posto suo. Almeno, con la tua carne, gli animali avranno da mangiare per un bel po’. Sempre che tu non voglia tenere la bambina per puro egoismo, giusto per trovare quel briciolo di conforto che il tuo ventre arido non è stato in grado di concederti. Quanto devi essere stolta per sperare che una bambina così piccola possa sopravvivere, senza una madre e senza un padre, in un mondo come il nostro? Cosa pensi abbia lei?» la indicò con il dito e Leandra, come se si sentisse sotto minaccia, iniziò a mugugnare tra le braccia della donna che aveva cessato di cullarla, impegnata com’era a trattenere lacrime amare. «Cosa pensi abbia più di noi? Cosa pensi abbia più di tutti i nostri compagni che sono morti o scomparsi pur essendo infinitamente più grandi, più forti e più scaltri? Il mio è un atto di misericordia e che voi non lo riteniate così non mi tange. La bambina non vi ringrazierà quando si troverà a dormire ogni notte che Dio manda sulla terra nella più angosciosa paura e desidererà non essere mai nata quando si troverà ad assistere inerme alla morte di tutte le persone che la circondano. E allora si troverà da sola, in balia di un mondo che sarà divenuto ancora più spietato e ancora più crudele e talmente pericoloso da costringerla a sperare solamente in una dipartita rapida e indolore. Se foste tutti meno ipocriti le risparmiereste un simile destino, ma so bene che nessuno di voi sarebbe in grado di prendersi una simile responsabilità e io non ho voglia di assumermi responsabilità che mi verrebbero rinfacciate fino alla fine dei miei giorni. Tenetevi pure la bambina, ma sappiate che le nostre fatiche si sono appena triplicate».
Sul Canide Sdentato calò il silenzio e nella sala principale della sperduta locanda tutti gli uomini di Ambrosius chinarono il capo. Alcuni tirarono un sospiro di sollievo, altri sperarono nell’arrivo di una gelata che potesse portarsi via senza dolore l’infante, altri ancora rimasero a lungo divorati dai dubbi. Ma tutti, indiscriminatamente, si allontanarono di un passo dal proprio vicino, non sapendo più di chi potersi fidare.
 
 
Per Hanna, quella notte, non fu semplice prendere sonno e quando le parve chiaro che l’oscurità che circondava il Canide Sdentato – un buio tetro che nulla di buono lasciava presagire – non le avrebbe concesso sogni sereni, decise di lasciare la sua stanza e di scendere dabbasso, nella speranza che il fuoco del camino le riscaldasse, se non lo spirito, almeno le ossa. Lungo il corridoio buio e umido, dove le assi del pavimento scricchiolavano e i chiodi arrugginiti rischiavano di ferire i malcapitati, diversi erano i suoni che si potevano udire: in una camera una lenta nenia cercava di tenere buona la piccola appena nata; in un’altra il giovane garzone, Albert, russava rumorosamente, forse a causa di quel naso un po’ malandato che Jacob non era riuscito a rimettergli a posto; dall’ultima porta del corridoio, che Hanna sapeva essere quella della stanza di Georg, provenivano certi suoni che la fecero arrossire e, involontariamente, rallentò il passo.
Non l’aveva mai capito, quel Georg. Con i suoi occhi verdi e gli scompigliati capelli castani, le era sempre parso un giovane mediocre, senza infamia ma certamente senza lode, appena riconoscibile dalla tendenza a scherzare su tutti e su tutto. Quando Hanna era giunta alla locanda del Canide Sdentato, lui, di una decina d’anni più grande, già si trovava lì, insieme alla sua combriccola di soli ragazzi, sempre pronti a bere, scherzare, fare a botte e fare pace – in un modo tutto loro che, solitamente, passava di nuovo dall’alzar le mani. Agli occhi degli avventori di Ambrosius, che li aveva visti crescere insieme, quella manica di ragazzi sembrava destinata a non dividersi mai. Qualcuno li paragonava agli apostoli di Gesù Cristo, qualcun altro sperava di vederli arruolati nello stesso reggimento, altri ancora avrebbero scommesso sul loro futuro di contrabbandieri, sempre al di fuori della legge ma per nulla al mondo divisi. Così doveva essere, e così forse sarebbe stato davvero, se Lilith non si fosse fermata nella nostra sventurata locanda. Forse inconsciamente - più probabilmente con intenzione ma senza coscienza - la Lupa della Bassa aveva portato così tanto scompiglio nella mente e nei corpi di Georg e dei suoi amici da far crollare come un castello di carte qualsiasi proposito di solidale fratellanza.
Il primo a risentirne fu Thomsen, dei quattro il più gentile, per gli altri il più ingenuo, che giurò sulla loro amicizia di considerare Lilith alla stregua di una santa, di un’intoccabile, una dama da venerare da lontano nel rispetto dei sentimenti manifestati dai suoi compagni. Di fatto lo fece, almeno fino a quando non si rese conto che l’unico ad aver rispettato il patto era stato anche l’unico ad averlo proposto: lui.
Benedict aveva manifestato da subito le sue intenzioni, tutte alquanto profane e che poco spazio lasciavano all’intuizione, ma si era ritrovato a dover ingoiare un grosso e amaro boccone di fronte all’evidenza che, nonostante il suo impegno e le molteplici battute allusive, l’unica donna ad averlo mai rifiutato era anche la sola che lui avrebbe davvero voluto. E un orgoglio schernito, almeno per il fiero Benedict, non era qualcosa che potesse essere lenito da bambineschi patti d’amicizia eterna.
Il più intelligente del gruppo fu anche quello che durò meno nei suoi propositi. Nonostante si fosse sempre distinto dagli altri per ponderatezza, Klaus aveva dovuto presto rassegnarsi all’idea che, in alcuni frangenti della vita, una mente, per quanto bene allenata, è succube degli strani istinti primordiali dei quali aveva avuto modo di leggere, ma che non aveva mai sperimentato né combattuto. E, con Lilith, non sembrava neppure essere intenzionato a trattenerli.
Georg, invece, non era né il più leale, né il più sfrontato, né il più ponderato della compagnia, eppure, oltre all’indole moderata e ai lineamenti apprezzabili, aveva dalla sua una peculiarità di cui Lilith non avrebbe mai potuto fare a meno: l’arrendevolezza. Che si trattasse di accondiscendere a qualsiasi sua richiesta o di lasciare libero il campo affinchè lo potesse fare qualcun altro, Georg si era rassegnato ad interpretare la foglia in balia del vento, ad essere messo da parte e poi ripreso alla stregua di un soprammobile secondo i tempi dettati dalla sua fiamma, nell’assoluta convinzione – quella sì – che Lilith si sarebbe un giorno scoperta follemente innamorata di lui. E la Lupa della Bassa era senz’altro in grado di lasciargli intendere ciò che più lo avrebbe tenuto a bada.
Hanna fece appena in tempo a poggiare il piede sul primo gradino della stretta scala che la porta della camera di Georg si aprì cigolando. Subito la ragazza si impietrì e solo dopo qualche istante, quando un’ombra si venne definendo nel buio del corridoio, tornò a respirare.
«Che cosa fai verginella? Origli?» le domandò con fare scocciato Lilith, sistemandosi i capelli ancora scompigliati.
«Ti assicuro che non ho bisogno di origliare per sentirti».
«Sei forse invidiosa?».
«La tua non è certo una condizione invidiabile» ribattè ferita Hanna, voltandole le spalle per tornare da dove era venuta, dimentica del motivo che l’aveva spinta a lasciare la sua stanza. Si voltò appena a guardarla con aria torva. «E più ti ostinerai a comportarti come se nulla dovesse capitarti, meno invidiabile diventerà».
L’altra le si lanciò addosso, cogliendola di sorpresa. Le agguantò il polso, stringendolo in una morsa ferrea e storcendolo in una posa innaturale. «Devi fare più attenzione ai nemici che ti scegli, Hanna. Se io vado a fondo, tu vieni con me» le sussurrò minacciosa e un guizzo nei suoi occhi avrebbe lasciato intendere a chiunque una certa gioia nell’essere la ragione del dolore altrui. «Siete in minoranza, lo siete sempre stati e siete destinati a perdere. Vuoi fare la spia? Corri, Hanna, corri, più veloce che puoi. Vai da Ambrosius a confessare quello che sai, ma non dimenticarti di dirgli da quanti anni è che gli nascondi una serpe in casa». Poi, in una frazione di secondo, come se fosse stata investita da un acuto senso di colpa, lasciò la presa. «Mi fai talmente pena da farmi passare persino la voglia di minacciarti. Ma non sarà così in eterno».
«Tu non sei mia nemica» balbettò la bionda, stringendosi la mano al petto e massaggiandola.
«Non sono nemmeno una tua amica. Ti sono solo debitrice, mio malgrado. Mi hai messa tu in questa situazione. Se mi ritrovo qui, imprigionata come un cane legato a un gancio, sei l’unica persona che ho da ringraziare».
«Lo dici come se avessi avuto scelta».
«Ce l’avevi! Era la mia scelta. Avresti semplicemente dovuto rispettarla».
«Per quanto ancora me lo vorrai rinfacciare, Lilith? Non ti basta mai? Non ti consuma la solitudine?».
La mora si mise subito sulla difensiva e quasi ringhiò: «Io non sono sola».
Hanna non riuscì a trattenere una smorfia. «Certo…lo vedo».
«Non permetto a nessuno di giudicarmi, men che meno a te».
«Scaldare un letto non ti farà sentire meno sola. E non si tratta di un giudizio, ma di un fatto».
«Allora avresti dovuto lasciarmi morire, anziché tenermi in vita e manifestarmi una così bassa considerazione. Ma non è più possibile tornare indietro adesso, né per te, né per me, e giuro che non mancherò un solo giorno di rinfacciarti tutte le conseguenze che la tua stolta decisone ha avuto. E non fingere con me Hanna: lo so che ti penti ogni giorno della scelta che hai fatto. Sei solo troppo codarda per ammetterlo» concluse Lilith con rabbia e senza aspettare una risposta se ne andò. Nel sorpassarla per tornare alla sua stanza, la urtò così violentemente che quasi non la fece cadere.
Rimasta sola, quando ormai nessuno avrebbe potuto udire la sua confessione o intuire le sue emozioni, Hanna sussurrò: «No che non me ne pento. Ma me lo rendi così difficile, sempre così difficile…».




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