La
sua guardia del corpo.
Era il suo ruolo, il compito.
Era iniziato per gioco e per casualità. Si era preso in
carico una
responsabilità mai chiesta e nemmeno per denaro. Si era
stretto alla caviglia
la catena di una ragazza indifesa, dallo sguardo brillante e la voce
vivace,
perché i lupi avrebbero potuto divorarla in un solo boccone.
Era stato un
Soldier, una macchina che non sente rimpianto nella morte, ma quel
tarlo ancora
lo masticava: morale.
Il tarlo continuava a
perseguitarlo, incastrandolo in situazioni scomode. Gli plagiava la
mente di
un’emotività che, ne era certo, lo avrebbe portato
alla morte.
In guerra i sentimenti sono
inutili.
In battaglia le emozioni sono
forvianti.
Nella vita non c’è
compassione.
Quelle emozioni lo stavano
sgretolando.
Fallito.
Non sei riuscito a proteggerla.
Quella stessa emotività che,
in quel momento, lo lasciava tra veglia e sonno, dentro un limbo di
sensazioni.
Gli sembrava di avere mille e più insetti sulla pelle che lo
deridevano e
commiseravano, mentre continuava a tornargli l’eco dello
schermo che gli aveva
rivelato il suo fallimento. Era come vederla ancora dietro quella
telecamera,
prigionoera e lontana. Lui lottava per un’utopia e lei
salvava concretamente
delle vite. Salvava Marlene. Lui, invece, si salvava mentre migliaia di
persone
venivano schiacciate sotto le macerie del settore sganciato.
Lui era vivo.
Lei era prigioniera.
E i morti si moltiplicavano.
La perderai.
E’ il tuo destino.
Cloud venne strappato dal
limbo con lo scricchiolare di una porta e di passi leggeri, esitanti.
Rimase
fermo, ancora stordito dal flusso di pensieri già
dimenticati. Ascoltò l’ascesa
dei passi lungo le scale.
Tifa?
Emise un sospiro, soffocando
dal suono rombante delle russa di Barret. Era sicuro che non si sarebbe
svegliato: se era capace di dormire con il chiasso che lui stesso stava
facendo
allora poteva uscire sbattendo i piedi che non lo avrebbe svegliato.
Cloud si
alzò recuperando istintivamente la spada. Barret era un
amatoriale, un Avalance
membro di un gruppo auto definitosi protettori del pianeta, che poi
così
diverso dai terroristi non avevano. Non avrebbe mai potuto dirlo ad
alta voce:
lo avesse fatto sarebbe probabilmente finito crivellato di colpi dal
grande
uomo con il braccio meccanico.
Chissà come ci era finito un
mitragliatore al posto della mano, poi.
Per i Soldier era diverso.
Cloud non poté non considerarlo. Erano addestrati a essere
perpetuamente
sull’attenti. Dormire era solo una stasi, un momento
superficiale dove riposare
il corpo e probabilmente illusoriamente la mente. Ogni suono, ogni
rumore, che
esce dagli schemi è un segnale di allarme. Cloud era
così: i suoni che uscivano
dagli schemi lo mandavano in allarme, quasi inconsapevolmente, la sua
mente si
svegliava, ma non abbastanza da destarlo, e se quel segnale si
prolungava
allora usciva completamente dalla dormiveglia. Come se non si fosse mai
addormentato, pronto, reattivo, capace di cogliere ogni singolo
elemento e
metterlo assieme in poche frazioni di secondo. Per uccidere e per
sopravvivere.
La perfetta immagine del Soldier.
Era pronto a tutto ciò che gli
si sarebbe parato di fronte. Eppure era calmo. Non sentiva il rush
adrenalinico, non c’era il cuore che rallentava per
ricollocale la
distribuzione del sangue alla muscolatura che gli sarebbe servita in
battaglia.
Era calmo. Desiderava solo scoprire la fonte di
quell’anomalia. Cloud si
avvicinò all’uscio della porta, lanciando un
ultimo sguardo a Barret, il legno
della casa sembrava tremare sotto il barrito di quel russare.
No, non si sarebbe svegliato.
Tornò a concentrarsi sulla
maniglia della porta, per aprirla e schiuderla a sufficienza da potere
osservare il corridoio. Era calmo, ma non sprovveduto, sapeva come
agire. Non
c’era nessuno, niente che indicasse un possibile pericolo.
Aprì la porta e
uscì, lanciando una breve occhiata alla stanza di Aerith,
dove ora Tifa e
Marlene dormivano. Era chiusa. Un altro scricchiolio dalla scale,
sembrava
quasi un richiamo. Una paziente esigenza della sua attenzione, a cui
non poté
che rispondere allungandosi verso la ringhiera. La mancina guantata a
sfiorarla, mentre sporgendosi notò una familiare treccia
imbastita di un fiocco
rosa svanire dietro l’angolo degli ultimi gradini.
Gli mancò un battito.
Tutto ciò che lei ora sta soffrendo
è solo causa tua.
Schiuse le labbra, senza
riuscire a nominarla. Se avesse chiamato quel nome lo avrebbe sporcato.
Insultato. Era un fallito. Aveva fallito.
Non era lucido.
Inspirò una boccata d’aria,
improvvisamente fredda nei polmoni, sporgendosi verso la camera da cui
il
russare di Barret arrivava indifferente. Chiuse la porta e si
avviò cauto. Era
in quel momento che il cuore si agitava, sbatteva nel petto a un ritmo
lento,
micidiale, minacciando di togliergli il respiro.
L’emotività era una pericolo
per la mente. Era un danno. Un’illusione. Quella stessa
emotività piena di
morale che Aerith continuava a gocciolargli addosso: piccoli e infiniti
tarli
nell’anima. Non poteva essere lei. Era prigioniera. Era stata
catturata, si era
sacrificata per Marlene, perché lui – inetto
– non aveva potuto proteggerla. Non
poteva proteggere nessuno.
Cloud si spostò riscosso.
Ostentò passi altrettanto cauti, cercando di imitare la
leggerezza ascoltata
con un risultato scarso. Lo scricchiolio sotto gli stivali gli sembrava
l’eguale di uno sparo. Non aveva tempo per cercare una
soluzione, gli sembrava
inutile perderne, voleva accertarsi di avere finalmente perso ogni
senso
logico. Scese le scale senza guardarsi alle spalle, attraverso il
salotto senza
chiedersi nulla, fino a uscire da quella casa.
L’aria fresca della notte gli
ridiede i pensieri.
Quando aveva smesso di
respirare?
Esitò sulla soglia e guardò le
luci flebili che accarezzavano il giardino. Le tonalità
arancioni che davano
calore mentre la pelle gli si increspava sotto
l’umidità espirata dai fiori,
dalle piante, da quello stesso laghetto che circondava i piccoli campi.
Il
mondo, lì, sembrava sereno.
Spartano in guerra che
camminava tra gli Elisei.
Sei petrolio caduto in acqua cristallina. Lo
sei sempre stato. Dal
principio. Infinitamente fuori posto.
Seguì il sentiero mentre il
profumo dei fiori lo inseguiva. Gli ricordava lei. Gli ricordava il suo
sbaglio. Gli suggeriva dove cercare, come una scia impossibile da
sbagliare.
Lui non poteva sbagliare, ma sbagliava sempre. Eppure quella scia non
riusciva
a fraintenderla. Fu oltre un piccolo masso coperto di erba e fiori che
la vide,
nella vivacità dei colori ottenebrati dalla notte,
rannicchiata a sussurrare ai
fiori, sorridendo dolcemente.
Gli si indebolirono le gambe.
Era lei. Lo era davvero.
Fu attraversato da un sospiro,
che tremò sul filo delle labbra mentre si faceva forza
abbastanza da salire il
breve sentiero, avvicinarsi sotto il peso di infinite parole e
pensieri. Cloud
ne vide gli occhi limpidi e accesi anche nella penombra. Il verde
più prezioso
che avesse mai potuto incontrare, e tutto, solo vedendo quegli occhi
gentili,
accarezzati da un sorriso, divenne calmo.
«Com’è…»
Possibile. Non lo era. Aerith
era stata portata via, era prigioniera della Shinra. L’ultima
Antica che non
avrebbero ceduto nel giro di poche ore. Eppure era lì, come
la risposta che lo
aggredì senza dargli scampo. Il docile bagliore
dell’aurora danzava alle spalle
della Cetra. L’intero cielo era accarezzato da veli
smeraldini, come una cupola
che impediva di scorgere oltre. Un limite.
«E’
un sogno?» chiese a se
stesso, a lei. Lo chiese forse a quell’aurora stessa.
Aerith si alzò, ciondolando
appena. Era lei. Inequivocabilmente lei. Mossa da una continua energia
leggera,
pronta a scuotersi in danze mai espresse, ad alzare il mento e scrutare
il
cielo con lo sguardo. A cercare lui, osservarlo, come se cercasse
qualcosa.
«Forse…
dimmelo tu. »
«Stai
bene? »
Il sussulto della sua risata
appena accennata. Lo faceva tutte le volte che qualcosa la turbava, ma
rideva
di ogni preoccupazione. La scacciava e la esorcizzava sorridendo. Cloud
la
guardò allargare le braccia, mostrarsi. Lui,
però, la guardava già.
«Non
sembro stare bene? » lo
aveva previsto. Il sorriso di Aerith si incrinò, mentre
abbassava lo sguardo.
Cercava di essere forte, di mostrarsi incrollabile, ma aveva imparato a
leggerle lo sguardo, a coglierne la preoccupazione. Il timore.
«Un tempo vivevo nel palazzo
del Shinra… quando ero ancora piccola.
»
«Sì…
tua madre ce lo ha detto. »
Non voleva parlare di quello.
Non voleva sapere quello. Voleva sapere dov’era. Come stava
realmente. Voleva
avvicinarsi, ma i sogni svaniscono tra le dita. Non osava.
Aerith gli sorrise di nuovo.
Stava odiando quel sorriso forzato, incerto.
«Esatto.
Quindi… sembra quasi sia tornata alla mia infanzia, sai?
Onestamente… non è così
male. »
Una scossa di irritazione
pervase Cloud. Lo frustrava. Lo frustrava avere fallito e
quell’insistente
ostentazione di Aerith a sminuire quello che la feriva. La colpiva. Era
ferita,
ma sorrideva ancora. Inghiottiva le emozioni e non gli chiedeva aiuto.
Non gli
chiedeva di salvarla. Lui era la sua guardia del corpo, ma sembrava
ricordarlo
solo lui. Strinse la mascella costringendosi a distogliere lo sguardo,
per
nascondere quella frustrazione.
«Quindi?
» chiese, con più durezza di
quanto volesse, addolcendo poi la voce. «vuoi
rimanerci? »
«Avanti
Cloud… non essere sciocco.
»
L’aveva ferita.
Crudele.
«Anche
tua madre è preoccupata. »
Fu tutto quello che riuscì a
dire, cercando di rimediare, di scoccare una freccia emotiva per
ancorarla a
quel momento. A loro. A lui. Lo sguardo di Aerith si stava disperdendo
nelle
preoccupazioni, si perdeva e lui rischiava
di vederla svanire. Stava sognando. Era solo un sogno, ma
in quel sogno
lei era lì. Almeno in quel sogno voleva avere il potere di
non perderla ancora.
Aerith alzò lo sguardo,
facendolo sospirare di sollievo mentre le si animava di nuovo il viso,
in una
nota tra la perplessione e il divertimento, la piccola scintilla di
malizia che
aveva il potere di stringergli la bocca dello stomaco.
«Anche?...Quindi…
sei preoccupato per me? »
Il cuore tremò. Cloud
raddrizzò la schiena, mentre lei si faceva avanti. Gli
cercava lo sguardo, lo
incatenava alle gemme smeraldine. Era lui, adesso, che rischiava di
perdersi.
Tanto da balbettare come un idiota.
«C…certo
che lo sono. »
Di nuovo le gemme smeraldine
si dispersero. La stava perdendo. Persino nei suoi sogni le sfuggiva e
non
sapeva come trattenerla. Strinse i denti mentre il volto di Aerith si
piegava
in una nota di tristezza. La ascoltò scusarsi, dispiacersi.
Non trovò le parole.
Non doveva. Non voleva sentirla scusarsi. Voleva sentirla ridere,
ancora, ma
sinceramente. Voleva di nuovo il sole sulla pelle, il calore. Vederla
splendere
di colori raggianti, perché quel buio sembrava poterla
divorare da un istante
all’altro, strappandogliela dalle dita.
Aerith si distrasse. L’aurora
nel cielo aveva iniziato a muoversi, i veli di verde brillante
scivolavano come
tende mosse dal vento, cosparsi da piccole stelle altrettanto luminose.
Non
guardava il cielo, guardava lei che gli voltava le spalle, un passo
più
lontana. Due. Infinitamente più lontana e lui bloccato in
quel campo. Le gambe
paralizzate, come quando nel momento, in cui lei gli rivelò
di volere rimanere
con lui, il cranio gli diede l’impressione di spaccarsi
mentre la schiena di
Aerith si allontanava, squarciandogli il petto di un dolore senza nome,
senza
paragone. A cui nessuno lo aveva addestrato.
«Tutti
noi moriamo… primo o poi. » fu
la profetica preghiera di Aerith.
«Smettila…»
«Per
cui… dobbiamo cercare di estrapolare tutto ciò
che possiamo dal tempo che
abbiamo…per vivere le nostre vite come vorremmo.
»
«Aerith…
smettila. »
L’urgenza nella voce di Cloud.
Quella piaga stava tornando. Il dolore sordo che squarciava il petto,
l’emotività a cui non era stato addestrato. Le
guardava la schiena e gli
sembrava farsi sempre più lontana. Gli dolevano le nocche. I
pugni così stretti
da indolenzire le braccia, mentre l’eco di un pianto
familiare gli apriva il
cranio.
«Ogni
minuto… ogni momento… ha importanza.
»
Cloud sentiva la bocca asciutta
mentre lei si voltava. Gli occhi innocenti di lei di nuovo dispersi,
quasi
irriconoscibili. Lucidi di un sentimento che raccontava addio, un
arrivederci
che non aveva mai chiesto ma che gli doveva. Un addio che apriva il
cranio
dell’ex soldier. Le leggeva timore negli occhi, ma anche una
stilla di felicità
raccolta nei pensieri. Quello sguardo lo uccideva strangolandogli il
petto,
togliendogli il respiro che accelerava assieme al battito cardiaco.
«Sono…
grata a tutte le parole che abbiamo condiviso. …Ogni
momento… ogni memoria…»
Lei lo sa. Non puoi proteggerla.
«Smettila!
»
Quella schiena non c’era più.
Quel momento si era sgretolato nell’attimo in cui Cloud le
aveva affettato il
braccio, facendola sussultare, strattonandola a sé con tale
urgenza da
strapparle un lamento e farla scontrare contro il suo petto.
Anche nel suo sogno Aerith
profumava di fiori. Il respiro agitato della fioraia sopra la maglia
era brace
in contrasto con l’aria fredda della sera. Sentiva la fronte
premuta contro di
lui, appena sotto la gola, la presenza a un soffio, un passo. Forse la
stava
stringendo troppo, ma non osava allentare la presa. Aveva paura
scivolasse
ancora via da lui, paura di vederne la schiena allontanarsi e non avere
la
capacità di raggiungerla.
Le emozioni erano nemiche dei
Soldier, confondevano e dissociavano dal ruolo, portavano a compassione
e una
lunga serie di inutili emotività. Lui era una guardia del
corpo, era sua dovere
proteggerla, recuperarla e portarla alla madre. Lui… la
rivoleva. Voleva sentirla
ridere, spronarlo a vivere. Aveva bisogno di lei. Aveva bisogno che gli
ricordasse che anche lui era vivo. Lei era viva ed era vita. Voleva
respirarla
di nuovo.
«…Non
parlare come se fossimo un ricordo.
»
Tremò nel percepire la mano di
Aerith appoggiarsi contro il suo ventre. Lei si rilassava,
sciogliendosi
fiduciosa a lui dopo lo stupore iniziare. Si modellava alla presenza
dell’Ex
Soldier, raddrizzando la schiena ma non svelando ancora il viso. Lui,
invece,
si tendeva. Una corda di violino in attesa della vibrazione giusta,
inebriato
dal profumo della fioraia, dalla presenza tiepida, dalla mano di lunghe
dita
che si stringevano alla maglia, tendevano il tessuto e accarezzavano la
pelle.
Dove lei toccava, rimaneva
fuoco. Una brace che si dilatava nel petto cancellando
l’abisso iniziale,
scongelando i timori. Lei poteva fare retrocedere i demoni
dell’ex soldier,
mettere a tacere i loro bisbigli ghignanti. Tutto, con lei, era calore.
Lui
stesso diventava calore. Allentò la presa della mano contro
il braccio della
fioraia, ma non la lasciò. Non le permetteva di scivolare
via da lui.
«Non
possiamo innamorarci. »
sussurrò Aerith, con voce tremante.
Cloud tornò a stringere la
mano attorno all’esile bracco della fioraia. La guardava,
ora, mentre lei
sollevava il volto, piegato in un’espressione che non le
aveva mai visto.
Forse era veramente un sogno.
Crudele.
Osservò come uno spettatore il
verde liquido di quegli occhi familiari, sotto l’eco del
cuore che gli
martellava nel petto. Era pieno del suo profumo. Stava annegando nella
sua
presenza e non riusciva a lasciarla andare. Non voleva. Non poteva. La
traccia
delle dita di Aerith scorreva lungo l’addome, saliva,
depositava lava sulla
pelle anche tramite quella maglia, fino a toccargli il viso. Era
delicata, leggera
come il tocco di un petalo adagiato sulla pelle e rovente come il corpo
dell’ex
Soldier. Cloud sentiva la schiena inumidirsi, mentre i polpastrelli
della
fioraia facevano pressione, gli assaporavano la pelle. Lo toccava come
mai
aveva tentato prima e lui osava come mai aveva fatto, non per
proteggerla, non
per scudarla. Lo faceva perché desiderava sentirla,
comprendere le pieghe di
quel corpo e dei suoi colori. Impregnare il suo profumo
nell’anima. Premette
l’altra mano guantata contro i lombi della fioraia, la spinse
contro di sé,
espirando il fiato trattenuto quando le dune dolci di quel corpo
così fragili
si infrangevano caute contro di lui.
Aerith non si opponeva, ma i
suoi occhi erano pieni di indecisione. Di dolore.
«Sarebbe
inutile. »
Crudele.
Fu a quel sussurro tremule
della fioraia che l’ex Soldier lasciò il suo
braccio. Sentiva ancora la
pressione contro il guanto, premere contro il palmo, le dita. Non
c’era più
nessun pensiero, solo istinto. Non c’era tattica e strategia,
il mondo era
vuoto e l’aurora spenta. Non esisteva niente, nessun nemico e
nessun amico.
Solo il cuore della fragile contro il suo petto e il suo, di bestia,
contro di
lei. Le leggeva paura negli occhi, ma sapeva con una certezza alla
soglia della
follia che lei non aveva paura di lui.
Non poteva lasciarla andare.
Non voleva sentirla parlare
così. Voleva ancora il suo sorriso, gli occhi raggianti che
lo sfidavano a
contraddirla. La sua energia vibrante che si scatenava su di lui, per
scorrergli nelle vene e trascinarlo in follie patetica, senza la paura
di una
sua reazione, di un suo sguardo. Della sua anima di assassino. Lei non
lo
temeva. Non vedeva la bestia dagli occhi di Mako. Vedeva un ragazzo
interrotto
che poteva completare. La guantata dell’ex Soldier si alzò a
raccogliere la mano della fioraia
ancora contro la guancia, circondarla e assaporarne la forma. La
grandezza. Le
lunghe dita, per scoprire che, in realtà, quelle mani erano
piccolissime in
confronto alle sue.
Era sempre stata così fragile?
Le dischiude le mano,
guidandola scorrendo i polpastrelli tra le dita, scivolando tra esse
fino a
raggiungere l’incavo, incastrare le proprie tra quelle di lei
e curvarle fino a
premere i polpastrelli contro il palmo della mano della fioraia.
Abbassarla,
con l’aria fresca della notte a baciargli la pelle rovente,
la bocca dello
stomaco stringersi in una sensazione nuova, limpida, pungente, mentre
si curva
su lei. Disperso. Pieno di quel profumo.
Il respiro di Aerith si
velocizzò. Gli piaceva. Era caldo sulle labbra.
«Questo
lo dici tu. »
Crudele.
La mano della fioraia rispose,
nella sua. Si contrasse sigillandogli le dita. Si imprigionavano a
vicenda. Un
brivido rovente scorse lungo la schiena dell’ex Soldier,
scivolò fino al ventre
per languirvi e scaldarsi calando docile. La mano libera di Aerith gli
premeva
esitante contro la schiena, le dita si muovevano e accarezzavano.
Sembravano
esplorarlo, cercare di capire fin dove poteva osare. E lei
osò, facendolo
sospirare sulle sue labbra, scorrendo verso l’alto, tra le
scapole che si
contrassero in un guizzo di muscoli. Gli sorrise, tra le lacrime che
già
traboccavano sulle guance. Sorrideva alle reazioni innocenti che lo
stordivano,
alla sua espressione corrugata, quasi stesse tentando di concentrarsi
su quella
stregoneria.
«E’
quasi mattina…»
Quando le dita della fioraia
si immersero tra i capelli dell’Ex Soldier tutto si
svuotò di ogni altro
significato. Cloud abbassò il viso trovando la bocca morbida
di cui conosceva
ogni inclinazione ridente, dalla pura all’addolorata. Chiuse
la propria sulla
sua, assaporandola, assaggiandola mentre a quel solo tocco un rantolo
rovente
gli colò lungo il torace, scaricandosi al ventre, languendo
in bassezza. Inalò
bruscamente, nel momento stesso in cui Aerith si stringe a lui,
tremando,
stringendogli delle ciocche di capelli tra le dita, senza violenza, ma
semplicemente per spingerlo contro di sé mentre di nuovo le
bocche si univano,
si modellavano con una consapevolezza improbabile. Si schiudevano e di
nuovo si
stringevano a vicenda in docili schiocchi. Musica e desiderio.
Il respiro dell’ex Soldier
accelerò, ogni cellula del suo corpo era sensibile alle
forme della fioraia. Ne
sentiva il seno contro il torace, la tensione delle dita tra le proprie
e tra i
capelli, la sentì sussultare mentre spingeva con
più veemenza la mano contro
quei lombi tra i fianchi sottili, la sospingeva contro il proprio
bacino.
Pulsava. Il suo corpo intero pulsava, mentre chiedeva di più
senza sapere come
provare a ottenerlo. Aerith sorrise, reclinò il capo
guidando il bacio
maldestro per suggergli il labbro inferiore, facendolo fremere. Fu lei
a
scivolare nella sua bocca, a guidarlo nel calore umido di una danza
deliziosa.
E Cloud, per l’ennesima volta, non poté che farsi
trascinare da lei gemendo di
disappunto nell’istante in cui fu la fioraia a ritrarsi,
reclinando il capo per
premere la fronte contro quella dell’ex soldier e distanziare
le loro bocche
abbastanza da mescolare i respiri, da essere pronte a suggellarsi
ancora,
chiedere di più, osare di più.
«Devo
andare. »
L’ex Soldier aprì gli occhi.
Lucidi, languidi, dilatati di pulsioni senza nome, senza senso. Rovente
di lei,
di quel profumo, di quel sapore. Non poteva andarsene. Lui
l’aveva tratta a sé,
catturata. Non poteva andarsene. Eppure piccoli pistilli di luce verde
iniziavano già ad alzarsi dal corpo della fioraia,
sgretolando ogni sua
illusione, trascinandolo senza inibizione alla realtà delle
cose. Lei non era
lì, quel sogno era per lui, ma lei non era lì.
«Verrò
a prenderti. » ringhiò
Cloud, contro quella bocca turgida.
«Se
proprio insisti… ti aspetterò.
»
Il destino è crudele.
Cloud spalancò gli occhi.
Era realmente mattina. Era
realmente stato un sogno. Su di lui rimaneva solo l’eco di un
calore languido,
fatto di sussurri e respiri mescolati. Rimaneva il sapore di una bocca
che ha
desiderato nella piega di emozioni senza nome. Il languore del ventre
si plasmò
in uno stomaco contorto, mentre stringeva la mascella e il respiro
accelerava
ancora, ma sotto una nota differente, fischiata tra i denti.
La bestia dagli occhi di Mako
stava tornando a ruggire. Selvatica, feroce.
Questa volta non avrebbe
fallito. L’avrebbe protetta.
Non era più il Soldier
disciplinato. Era, oramai, una bestia senza guinzaglio.
Il destino era crudele ma lui
poteva esserlo molto di più.
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