Capitolo dieci
CAPITOLO DIECI
“Ciò che è difficile
attrae,
l’impossibile seduce,
ciò che è complicato
spaventa”.
Paulo Coelho.
Ci risiamo, cazzarola.
“Mi ami?”
E che cazzo…
“No” rispondo ad Alice, dopo l’ennesimo amplesso.
Mi rivesto con la solita fretta, distogliendo lo sguardo dai
suoi occhi non appena si velano di lacrime dopo la mia rispostaccia.
“Ma, allora…”.
Sembra che voglia qualche altra parola da me, la pretende, ed
io l’accontento.
“Ti ho solo scopata, io non ti amo. Cosa non ti è chiaro?”
Alla faccia del mio buon proposito di diventare una persona
migliore.
Sono ancora giovane, io devo farcela. Ma non è colpa mia se
sono così solo, se mi sento tale; so che sia Alice e sia Mario vengono da me
solo per scopare, ma non appena troveranno un altro scopatore ecco che se ne
andranno felici e contenti, senza nemmeno dirmi addio. Io non conto niente per
loro, sono solo le ennesime persone che si presentano alla mia stazione e
pretendono qualcosa. Li accontento finché mi va, poi sono sincero e per me
diventano tutta carne da macello. Tanto se ne andranno presto dalla mia vita,
in ogni caso.
Piange adesso, Alice; e non è che me ne freghi più di tanto.
Ma, poi…
“Non ti rendi conto di quanto vali per me?” chiede, mentre si
allunga a stringere forte le mie mani tra le sue.
Mi ritraggo.
Per un attimo, colto di sorpresa da quel gesto così carico
d’intensità, mi viene da commuovermi. Tuttavia, mi rendo subito conto che,
probabilmente, sono le stesse parole che riserva a tutti gli uomini.
Che quadro generale mi sono fatto di Alice? Indubbiamente che
sia una malata. Sono scettico a riguardo del fatto che una cacciatrice così sia
in grado di innamorarsi.
Ma… tutto ciò è frutto della mia immaginazione?
Davvero questa giovane donna dall’apparenza così per bene è così
scatenata sotto quel punto di vista?
Torno alla realtà. A quel contatto che sto sciogliendo
frettolosamente.
“Perché dovrei valere qualcosa per te?”
Riesco a rispondere solo tramite una domanda. Cioè, per
carità, di certo Cupido spara frecce alla cazzo, però che questa ci abbia
legato, proprio no, non ci credo manco se mi paga.
“Sei speciale, Alex, peccato che tu voglia nasconderti dietro
a una maschera. Non fa per te comportarti da cattivo, hai un cuore grande e lo
sai anche tu, per quello che fai per me”.
“Scoparti?”
Quasi rido, nel mio imperituro scetticismo. Lei resta
impassibile.
“Non sai allora quanto si sta male. Un giorno ti prometto che
te ne parlerò con calma, e ti racconterò quanto soffro. E quanto tu sia la cura
a tutto questo”. E così dicendo, se ne va.
Alice, questa volta mi hai sorpreso. Resto per qualche
istante a fissare la porta nel retro dalla quale si è appena defilata,
riflettendo sulle sue parole, ma soprattutto su come me le ha gettate in
faccia. È purtroppo vero che anche io ho un buco nero dentro, che mi distrugge
pian piano, che mi fa soffrire e mi fa star male.
Ci rifletto in continuazione, ma con le altre persone sì,
indosso una maschera. Chi non lo fa, d’altronde? Meglio lasciar perdere…
È il turno di Mario.
Entra nel negozietto con viso tirato e stanco, totalmente
neutrale. Quando fisso i miei occhi nei suoi, solo allora noto che cerca di non
distoglierli. Cerca un contatto, ed io gliel’ho offerto.
Ordina dei prodotti ed io lo servo in silenzio, mentre
avverto il suo sguardo fisso su di me. So che mi desidera, altrimenti non
sarebbe mai venuto fin qui, snob com’è. Spero solo che non pretenda anche lui
una prestazione, in modo particolare perché i miei stanno per venire a darmi il
cambio e non è quindi il momento e il luogo ideale.
Se mi piace Mario? Uhm, è come per Alice.
Nì.
Sono corpi gradevoli, ottimi ripieghi per compensare ciò che
non potrò mai avere. La figura distante di G ancora mi perseguita, è come uno
spettro che riempie le mie giornate con la sua sola remota ombra.
Mario alla fine se ne va in fretta, dopo aver pagato con
qualche spicciolo.
Se ne va in modo veramente neutro, salutando tra i denti come
se fosse un cliente qualsiasi. Come se per me non fosse nessuno. Questa è la
gente che dice di amarmi!
Torno al Mary’s House
con un morale sgonfio quanto una gomma bucata da un mese. Non so cosa aspettarmi,
non so di preciso cosa cercare o come insistere, e per la prima volta durante
questo incarico mi ritrovo a essere un po’ confuso e intimidito.
La stessa infermiera
che mi ha accolto durante la prima visita viene ad aprirmi, dopo che ho suonato
alla porta.
“Buongiorno, signor
agente. Prego, si accomodi” mi saluta con cordialità.
“La ringrazio”.
“Ancora qui per il caso
Stradford?” mi chiede poi, aspettando che la porta si richiuda automaticamente
dietro di me.
“Sì”.
Fa un cenno affermativo
con il capo, poi scribacchia un istante sul tablet che ha sempre con sé.
“Tra qualche istante un
componente dello staff medico verrà a dialogare con lei. Non so chi di preciso,
abbiamo sempre tanto da fare, ma penso che non sia un problema. Li conosce già
quasi tutti” si spiega, rialzando gli occhi dall’aggeggio tecnologico.
“Nessun problema”
acconsento.
Faccio tuttavia appena
in tempo a sedermi che appare il dottor Zayne, procedendo a passo molto svelto
verso di me.
“Agente speciale
Barley, che immenso piacere ricevere un’altra sua visita” saluta, porgendomi
educatamente la mano, che stringo con prontezza. Al di là del velo di
superficiale gentilezza sembra un po’ scocciato, e come dargli torto
d’altronde.
“Piacere ricambiato”
replico. “Immagino sia tornato qui per quella faccenda, di nuovo”.
“Certo, sì”.
“Immagino anche che non
ci siano novità, altrimenti non si sarebbe presentato qui nuovamente con il
solo distintivo e senza alcun mandato di arresto o di perquisizione”.
Per un solo istante
resto pietrificato. Il medico mi ha raggelato, ha colpito abilmente nella
piaga.
Inizio a capire che sta
giocando con me, mi sta mettendo alla prova; sa che non ho ancora scoperto uno
straccio di niente, e per questo si sente ormai in una posizione più
privilegiata rispetto alla mia. O forse è solo ciò che vuole farmi credere, per
scoraggiarmi ulteriormente.
“Le indagini sono a
buon punto, ma naturalmente non posso scendere nei dettagli” rispondo, dopo
aver esitato quell’istante di troppo che ha concesso al mio antagonista di
prendersi qualche secondo di gloriosa superiorità. “Sono comunque tornato al
fine di fare qualche altra domanda”.
Zayne allarga le mani.
“Tutto quello che
desidera. Anzi, se me lo consente, farò molto di più; non importa se ha un
mandato o meno, le permetterò di visitare la clinica, in modo da sfatare
definitivamente ogni dubbio e da farle comprendere la realtà con cui abbiamo
quotidianamente a che fare”.
“E’ molto gentile da
parte sua” replico, cercando di mostrarmi strafottente e sicuro di me. Non come
se quella fosse una sua concezione, bensì come se fosse un suo dovere. Non so
se ci sono riuscito, poiché egli mi dà le spalle e accenna a seguirlo.
“Prego, mi segua”.
Quello che vedo dà i
brividi.
Sembra un lager, questa
clinica.
Minuscole stanzette
dalle sembianze di una cella sono disseminate per tutto il pian terreno, l’una
a fianco dell’altra, illuminate da finestrelle da bagno posizionate ben lontano
dalla portata delle mani dei pazienti.
Il primo uomo che
scorgo è un signore di mezza età legato su una sedia.
“Dio mio” sussulto, al
cospetto di così tanta violenza.
“So che può sembrare
bestiale, ma è per il suo bene. Esclusivamente per quello” dice Zayne, notando
il mio disappunto. Si allunga a sfiorare il polso nudo dell’uomo, che inizia
subito a lanciare grida lancinanti.
“Se stesse slegato, si
morderebbe. Si farebbe tanto male, fino a provocarsi lesioni molto gravi; forse
si mangerebbe anche da solo, non ci è dato conoscere la profondità della sua
follia. Tuttavia è qui con noi e i nostri metodi gli fanno bene”.
Udendo le strida acute,
un’infermiera giunge di gran fretta e ci allontana con un sol gesto risoluto.
“Perdoni il personale,
agente. Il nostro è un compito delicato e serve sangue freddo” notando il mio
silenzio, prosegue, “se si sta chiedendo se è in regola tutto questo, be’, le
dico che lo Stato ci ha concesso un permesso speciale per portare avanti le
nostre cure. Che fanno bene, ripeto, tanto bene”.
Continuo a seguire il
dottore, fintanto che incrociamo altri pazienti, tutti imbragati dalle camicie
di forza. Gridano, gemono; sembra di essere in un altro mondo.
“Se mi libero, mi
ammazzo” grida un giovane dagli occhi sgranati, ed io mi ritraggo. Vorrei solo
andarmene da qui.
Zayne mi sfiora un
braccio e mi indica di tornare indietro.
“Oh, immagino sia troppo
forte per lei. Ma adesso capisce perché in questa clinica le condizioni sono
proibitive. Chi arriva qui di solito piomba frettolosamente, sbattuto da
qualche altro centro medico, e la maggior parte è così folle da volersi
togliere la vita”.
Colgo il chiaro
riferimento al caso Stradford, anche se sono in soggezione.
Mi riaccompagna
indietro senza che io abbia la forza per fiatare, ma prima il medico ha una
sorpresa per me. Accenna verso una stanzetta impregnata dall’intenso odore di
disinfettante, e quando mi affaccio noto Morrow, lo psicoanalista, seduto al
cospetto di un paziente che mi volge le spalle.
Si tratta di una donna
che piange sommessamente.
Il dottore le pone
domande sul suo passato in un modo perentorio e glaciale, mentre la signora
grida e si dispera.
“Serve polso per un
posto come questo” sussurra Zayne al mio orecchio, poi mi afferra delicatamente
per un braccio e mi fa retrocedere di nuovo.
Una volta tornati nella
calma zona d’accoglienza, il vasto atrio dove finora sono stato accolto, l’uomo
mi rivolge il primo freddo sorriso e mi pone la mano destra da stringere, in
segno di commiato.
“Come vede, abbiamo
molto da fare. Lei torni a fare il suo lavoro e dorma sonni tranquilli, agente.
Su quel caso non c’è nulla da aggiungere, l’ha visto anche lei che matti che ci
mandano. Se uno di essi s’ammazza, poco importa se era un senatore o meno;
nessuno ne ha causa”. E mi congeda così, lasciandomi di ghiaccio.
A passi lenti me ne
vado, abbandono quella clinica degli orrori dopo aver ingoiato ogni rospo
possibile. Alla fine sono stato sconfitto, non ho proprio più niente da
aggiungere.
Torno alla mia volante
e mi metto alla guida; per oggi basta, torno a casa dai miei. Ma domattina vado
di corsa a far archiviare questo caso, che evidentemente non ha davvero più
nulla da aggiungere.
Oppure sono io che sono
un codardo facilmente impressionabile?
Be’, allora non è il
mio lavoro. Meglio tornare a sfogliare scartoffie in ufficio, anche se mi
dispiace che qualcuno abbia risposto fiducia in me e che io non ne sia stato
all’altezza.
Mi dispiace, ma alla
mia età penso di saper prendere una decisione precisa.
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