Double,
double, thorns and trouble (groin burn, and cauldron bubble)
– quarto capitolo –
Quando Dean mette piede fuori dall’ospedale, varcando la
soglia dall’uscita del retro che dà direttamente sul parcheggio, si sente un
po’ come Tim Robbins in The Shawshank
Redemption, quando il suo personaggio, strisciando per chilometri lungo un
canale pieno di merda, alza trionfante il petto nudo contro il cielo in
tempesta, perché sì, cazzo: quello era il miglior dito medio che potesse
rivolgere al fato. E sì, cazzo, anche
se Dean non può fare lo stesso, nella sua mente ha già ricostruito per se
stesso un’immagine analoga.
Ha tirato su il cappuccio e detto a Sam di seguirlo lentamente, come se niente
fosse. Come se non si conoscessero o non si fossero mai parlati prima (o non si
fossero finti coniugi per quasi cinque ore, no, no). Perché quando Sam è stato
portato in corsia, Dean aveva già cominciato a fiutare lo stuzzicante quanto
familiare odore del pericolo. Prima l’infermiera dell’accettazione che gli chiede
nuovamente i documenti e, subito dopo, di rinnovare le firme su alcuni moduli
che aveva già firmato all’ingresso. Poi il codice cliente dell’assicurazione,
inserito a mano sul terminale perché – stranamente – il lettore ottico non
sembra leggerne il chip, poi gli sguardi, poi i confronti con i colleghi, poi i
cenni col capo, poi, poi, poi. Tutti segni inequivocabili di una sola, unica
verità: dovevano tagliare la corda. E in fretta.
Di suo, non ha bisogno di scuse per lasciare l’ospedale: il pungente fantasma
dell’indice del dottore nel suo deretano offre già abbastanza ragioni per
desiderare di farlo al più presto, ma adesso ha una scusa ancora più valida per
andare da Sam, destarlo dal legittimo torpore in cui è scivolato grazie alla
generosa dose di sedativi meritatamente ricevuta, aiutarlo a sbarazzarsi di
quel camice ospedaliero da partoriente e farlo tornare in fretta sui suoi
piedi.
Nel vederlo così, adagiato contro lo sportello del sedile dell’impala, le mani
allacciate sul grembo e l’espressione tutto sommato serena, difficilmente
verrebbe in mente che quel Sam sia lo stesso che ha attraversato tutto
quell’inferno soltanto un paio di ore prima. Gli occhi di Dean sono un continuo
rimbalzare dallo specchietto retrovisore alla strada. Non sa esattamente dove
sta andando, non guarda neanche le indicazioni, néil navigatore sul telefono.
Vuole solo sentire Baby macinare
l’asfalto sotto le sue ruote, le miglia che lo distanziano da Yuma aumentare di
secondo in secondo, il vento dal finestrino scompigliargli i capelli. Vuole
solo trascinare se stesso e suo fratello via da quella giornata mentre sul
cielo si staglia un tramonto talmente infuocato che sembra proiettare dinnanzi
sé tutto ciò che ha in petto.
La scelta di guidare sino a Lenwood è casuale. Così casuale
che a Dean sembra quasi sia stata la sua auto a portarlo lì. Il motel in cui si
fermano dista appena una paio di miglia dall’ingresso di Barstow Heights. Hanno
portato a termine un caso lì circa cinque mesi fa.
A parte la breve parentesi in cui Dean si è allontanato per andare a recuperare
dei farmaci, Sam ha dormito per quasi tutte e cinque le ore di viaggio,
sonnecchiando in un tepore farmacologico che sembra dare più sollievo a Dean di
quanto probabilmente ne dia a Sam.
Lo risveglia poggiando una mano sulla spalla con una delicatezza che, in
effetti, Dean riconosce non avergli riservato da tempo. Dal canto suo, Sam si
sveglia piano, quasi in slow motion.
Batte le palpebre un paio di volte, fissa con occhi vacui il proprio grembo,
prima di sollevare il mento dal petto e guardarsi intorno con la stessa
espressione sbigottita di chi è appena emerso da un sogno complesso.
“Buonasera, principessa.” Dean piega
le labbra in un sorriso ironico. Lascia che Sam lo fissi un po’, non è proprio
certo sia del tutto sveglio “Sei con me?” Sam aggrotta le sopracciglia, china
di nuovo il volto sul petto prima di annuire stancamente. “Bene,” Dean si china
verso l’abitacolo, afferra piano il braccio di Sam, se lo passa dietro al
collo, “vieni qui, ti porto a letto, ho trovato un posticino tutto per te”, e
Sam, morbido come fosse di pasta frolla, si lascia portare sulle proprie gambe
senza protesta alcuna.
Emette un suono strano, come un gemito a labbra strette, quando il suo corpo
affonda sul letto più vicino alla porta di ingresso. Dean non sa dire se sia di
dolore o di piacere, ma ha altro a cui pensare: tipo riprendere fiato dopo aver
trascinato quel Sasquatsch di suo fratello dal parcheggio alla camera. Di
buono, c’è che Sam si riaddormenta prima ancora che Dean possa anche solo
pensare di togliergli quei jeans che gli ha fatto infilare in fretta in
ospedale, e che tanto sembrano inadeguati, considerando ciò che c’è sotto; lo
stoicismo di suo fratello, d’altronde, è un suo marchio di fabbrica, si dice Dean
sorridendo tra sé e sé.
Si concede un paio di secondi per osservarlo ancora un po’, così, disteso,
calmo e sereno. I palmi delle mani rivolti verso l’esterno, la punta della
lingua intenta a leccarsi le labbra così com’è solito a fare sin da quando era
piccolo mentre cede ad una fase del sonno più profonda.
Dean ha bisogno di riempirsi i sensi di quella immagine: vuole che scorra
potente dentro di sé e si anteponga con prepotenza su quella che vede Sam
agonizzante tra la sabbia, con le unghia conficcate nei palmi e gli occhi
sbarrati verso il cielo sgombro di nubi che non vedeva. Qualcosa, in quei
ricordi, incitano il suo cuore a battere più forte, più in fretta. Dean
distoglie il viso, sposta l’intero peso del suo corpo sull’altra gamba.
Sta andando tutto bene, si dice, rimboccando le coperte sul petto di suo
fratello. Si lascia cadere su un angolo del letto, Sam arriccia il naso sotto
il fastidio di una ciocca di capelli scivolata in una narice: sì, sta andando tutto bene.
Le tempie pulsano, la bocca rimescola un bolo amaro. Allunga la mano verso
quella di Sam scivolata fuori dalle lenzuola, la schiude al di sopra della sua
senza neanche sapere perché. Le dita di Sam, lunghe e ossute, superano le sue
di almeno mezza falange. Dean la osserva ancora un po’, solo un altro po’. Si
diletta a ricercare similitudini che non ci sono.
È una notte strana, quella appena calata. Un gufo bubola in
lontananza. I suoi sensi, così in allerta da poterlo quasi vedere lì, da
qualche parte nella camera.
-
Dean si risveglia qualche ora dopo con una forte formicolio ai polpacci e la
sensazione di star annegando nel proprio sudore. Apre gli occhi, boccheggia
sotto la luce di un fastidioso Sole che trapassa la tendina a fiori appesa alla
finestra. Realizza solo in quel momento di essersi addormentato. L’ultimo
ricordo che ha di sé, lo vede seduto sullo spicchio di letto di Sam –
esattamente lo stesso sulla quale adesso è disteso – a concedersi quei cinque
minuti di comfort-zone, gli unici di quella giornata, contemplando la figura di
suo fratello, finalmente, addormentato. Dopo, il nulla.
“Cazzo...” Torna seduto. La mano che si passa sul viso è un tentativo misero di riacquistare
sembianze umane. Un fascio di pulci elettriche folgorano ogni singolo nervo
dalla gamba in giù; è il prezzo da pagare per aver lasciato le sue gambe
penzoloni fuori dal materasso per tutta la notte, suggerisce una vocina
antipatica dentro di sé. Il connubio di tutto ciò, gli rivela una grande
verità: Morfeo è un gran figlio di puttana. Lo ha colto in fallo, gliene rende
merito.
Ma ciò che lo preoccupa, ciò che lo destabilizza davvero, è il realizzare che
quella sorta di fornace capace di bollirlo nel suo stesso sudore durante la
notte, è Sam.
Giace sulla schiena, a pochi centimetri da lui, nella esatta
posizione in cui lo aveva lasciato. Il volto affossato lateralmente sul
cuscino, le lenzuola strette intorno al petto. Ciò che c’è di diverso, è
l’immane ondata di calore che il suo corpo sembra irradiare anche da sotto le
coperte, e che ha spazzato completamente qualsiasi segno di serenità il suo
viso fosse riuscito ad acquistare.
Dean gli tocca le guance e poi la fronte, gesto decisamente sconsiderato da
parte sua, non era pronto alla verità.
“Cazzo, Sammy.” Fanculo alle gambe intorpidite, Dean scatta
in piedi. Un’idea, come la biglia di un flipper, colpisce la sua mente: Le medicine.
Si è addormentato, come un autentico coglione, e non gli ha dato le medicine.
Avverte il sangue dal suo viso prosciugarsi, la bocca schiudersi, risucchiare
una quantità abnorme di aria nei polmoni, ma è solo l’inizio. Perché poi,
arriva lei: la paralizzante, distruttiva sensazione di aver appena mandato
tutto a puttane.
Tutto a puttane.
“Cazzo...” Dean arranca sul letto, rimuove in fretta le
coperte. Gli sembra di sentire di nuovo i granuli di sabbia tra le dita, mentre
tocca smanioso collo e torace di Sam – gli sembra di tornare lì, ai piedi del
saguaro, tra le urla strazianti e i raggi cocenti del Sole. Quel Sole che
adesso sembra bruciare su di Sam, e Dean sente sullo stomaco il tonfo di chi
non ha più agnelli sacrificali da biasimare: niente più fottute streghe, niente
più maledizioni. La colpa, questa volta, è
tutta sua.
Batte più volte gli occhi; ancora una volta la sua mano a rimodellargli i
tratti del viso, ancora una volta un paio di improperi interiori. Preme i
polpastrelli sul torace di Sam, lo scuote - “Sammy...ehi, Sam?”
Sam annaspa, apre gli occhi di scatto, come se Dean, con quel richiamo, lo
avesse liberato da qualcosa che gli aveva impedito di tornare cosciente
“Dean—?”
Per un attimo, Sam ha gli occhi di chi non ha capito niente. Lo guarda
perplesso, e Dean riesce mentalmente ad anticipare ogni smorfia in cui quel
volto si increspa non appena il cervello prende consapevolezza delle condizioni
del suo corpo. Poggia una mano sulla guancia mentre Sam tagliuzza aria tra i
denti con un sibilo che in breve tempo, diventa un lamentoso “Cazzo—“
“Va tutto bene, Sam.” La mano sul petto disegna adesso cerchi a pieno palmo, ma
forse Sam è troppo indolenzito per apprezzarli davvero.
“Cazzo che male, Dean—“ mormora rauco e sofferente. Le dita protese verso il
proprio basso ventre sono come rami. Tremano quando sfiorano le pieghe dei suoi
jeans, si allontanano quando toccano un gonfiore sospetto che non dovrebbero
toccare. È a quel punto che Dean decide di agire; mormora qualcosa di
indefinito che si perde tra i respiri grossi di Sam, slaccia la cintura in un
gesto a cui sembra già aver fatto una certa abitudine.
“Ti tolgo i pantaloni, okay? Te li tolgo subito, Sammy, sta
tranquillo—“
Sam non dice niente, è il silenzio di chi ha già rinunciato
a qualsiasi forma di pudore. Curva la schiena con tutto il suo peso, puntella
la nuca madida di sudore contro il cuscino e digrigna i denti, mentre Dean fa
scivolare i pantaloni lungo le cosce gonfie. Le garze intorno al pene sono
fradice di sangue e di una sostanza vischiosa che Dean ritrova anche sul
bendaggio delle aree circostanti, possibile impiastro tra betadine e pomata
antibiotica. Dean attutisce con frasucole senza senso i lamenti che strappa
alle labbra di Sam quando le sue dita si impossessano delle mani che tentano
vagamente di boicottare il suo operato.
“Mi dispiace, Sammy—“ inclina il viso;
sa che quello che la sua mano destra sta facendo, fa male - Cristo, rimuovere
quel bendaggio appiccicoso non può non farne; al posto suo, probabilmente
starebbe già piangendo come un bambino, altro che strozzare i singhiozzi in
gola e affondare le scapole sul materasso come sta facendo quella sorta di
vichingo di suo fratello.
Quando ogni singolo strato viene via e i feroci colori dell’infiammazione si
aprono alla sua vista aggressivi e roventi più che mai, Dean, seriamente, ha
paura. Sente il sangue pompare nelle vene, il cuore pronto ad esplodere al
minimo cedimento.
“Okay –” annuisce a
quella vista, accetta ogni responsabilità. Si alza in piedi perché sente che
non riuscirebbe a sopportare un altro istante impalato lì, senza far nulla. “– okay, Sam” ripete meccanico. Copre le nudità di Sam con un
lembo del lenzuolo, si volta, dà le spalle a tutto. Si ferma a tirare un
respiro profondo prima di volgere gli occhi al borsone dentro il quale aveva
scaricato l’intero carrello che in ospedale avevano preparato per Sam. Lo
raggiunge in fretta e riversa sul proprio letto tutto il contenuto.
Un numero imprecisato di flaconi, fiale, porta pillole arancioni, soluzioni
fisiologiche e altre amenità ruzzolano sul copriletto rosso, disseminandosi
intorno come una sorta di squadra d’assalto pronto a raggiungerlo nella sua
battaglia. Dean ne afferra un paio, legge smanioso le etichette, non capisce.
Un foglio accartocciato fa capolino tra un non-ben-identificato-dispositivo
medico ancora nella sua confezione e un grosso tubetto di pomata. Dean lo
afferra, ne toglie le pieghe sfregandolo su una gamba, ne legge le prime righe:
è la terapia. Il sorriso da ebete spunta sul suo viso senza che se ne accorga.
“Tempo delle medicine, Sammy!” Si beffa. Perché diciamocelo: è una beffa.
Stando a quanto stampato sulle tabelle nel foglio, avrebbe dovuto dire questa
tiritera prima ancora di varcare la soglia del motel, ripeterla almeno altre
due volte nel cuore della notte, e un’altra ancora anche all’alba. Non certo
adesso.
Appende una flebo di antibiotico alla lampada a muro che pende sul capezzale di
Sam, ne collega tubi e tubicini, e ci mette davvero un attimo a prendere la
vena buona, quella cicciotta e ancora integra che Sam ha nell’incavo del
braccio destro.
“Adoro le tue vene, sono perfette!” si lascia scappare con soddisfazione, il
modo in cui fissa l’ago-cannula al cerotto sembra quasi una carezza.
“Un po’ strana—come frase—“ Per lo meno, lo ha distratto.
“Dai, non puoi dire che io non sia diventato bravo a mettere una flebo,”
sorride compiaciuto mentre solleva gli occhi a regolarne il deflussore; si
rilassa più di quanto dovrebbe – “di certo, sono più bravo di quell’infermiere
che ti ha fatto il prelievo ieri. Guarda che razza di livido ti ha lasciato!”
indica con un cenno del mento il braccio sinistro tumefatto.
Probabilmente Sam indulgerebbe volentieri in quella chiacchiera leggera, ma una
nuova fitta, o qualcosa del genere, esplode da qualche parte tra sue gambe e
mette fine a qualsiasi speranza di risolvere la questione pacificamente. Sam si stringe su sè stesso nel tentativo di
trattenere un lamento, si contorce.
“Calmati, ehi, ehi!” Dean ne blocca il bacino con una mano, con l’altra
trattiene il braccio in cui ha appena preso l’accesso venoso. “Che succede?”
Sam non risponde: la bocca gli serve per ingoiare aria e metabolizzare ciò che sta
avvenendo. Dean fa scivolare la sua mano sulla sua fronte solo quando è certo
che non tenterà di rotolare giù dal letto: sta veramente andando a fuoco.
“Adesso calmati, cerca di spiegarmi cosa succed—“
“Non lo so—è qui sotto— “ La mano di Sam si divincola dalla stretta di Dean, si
piazza sul bacino, proprio sotto l’ombelico. La nuova fitta che arriva da lì a
poco non gli permette di trattenere un lamento. Dean è perplesso.
Insinua le sue mani prepotenti sul ventre senza saper bene cosa fare o cosa cercare,
ma la risposta, incredibilmente, giunge prima di quanto abbia potuto
prospettare.
“Sam—“ Non c’è traccia del Dean di pochi istanti fa in quel tono; il dubbio lo ha già tramutato in
qualcos’altro. “Sam, mentre eri in ospedale sei riuscito a urinare?”
“Cosa?” Sam schiude gli occhi, sono adesso due fessure lucide e arrossate.
“Sei riuscito a far pipì anche solo
una volta da quando quella strega ti ha tramutato in un cactus?” domanda ancora, tuonante e solenne, in perfetta antitesi
con i contenuti della sua domanda.
Sam inclina la testa, esita, chiede una tregua al dolore
(che a giudicare dal suo volto non arriva, ma non può dire di non averci
provato) e nello sguardo di suo fratello che rimbalza contro il suo, Dean trova
la risposta negativa che si augurava di non trovare. Stira le labbra.
“Okay – “ annuisce, ma il gesto è tutt’altro che
rassicurante. Scollega temporaneamente la flebo, si china su Sam “–coraggio, ti
accompagno in bagno”. Le labbra di Sam rilasciano l’aria che stava trattenendo
per contenere il dolore, si lascia trascinare in piedi e accompagnare
barcollante verso il bagno. Dean lo adagia sulla tavoletta del wc, come fosse
una fottuta ragazzina. Sam non
protesta; evidentemente, sta usando tutte le forze rimastegli in corpo per non
urlare, o svenire, o mandare a fanculo davvero tutto e tutti, perché cazzo se dev’essere stanco di tutto
questo.
“Chiamami se hai bisogno di qualcosa, d’accordo?” in fondo, un po’ di privacy
Sam se la meritava; e anche lui si meritava un momento in cui maledire se
stesso, per l’ennesima volta. È un fifty-fifty.
Fuori dalla porta del bagno, Dean scrolla le braccia, tira un respiro profondo.
Si guarda intorno per la prima volta. La carta da parati a tema San Patrizio è
quantomeno singolare, così come trova originale quella lampada al magma posta
sul frigorifero anni cinquanta, l’abito da sera in paillettes rosse appeso al
muro della piccola sala da pranzo, e la dispensa in mogano. Dean sorride,
quell’accozzaglia di roba senza senso si sposa alla perfezione con il caos
della sua vita.
“Sam? Hai fatto?”
Sono passati dieci minuti, dopotutto. La domanda sorge spontanea. Le mani di
Dean sembrano esitare sul cosa fare: entrare in bagno? Restare in attesa della
risposta?
Quest’ultima sembra immediatamente una pessima idea, dal momento in cui Sam
tarda a rispondere.
“Sammy?” Il richiamo va di pari passo al cigolìo della porta. Sam, ancorato con
le dita al lavandino di fronte al wc, il busto piegato in due e il viso
nascosto tra l’incavo delle braccia tese, solleva piano il viso purpureo in sua
direzione, come se il richiamo lo avesse infastidito. In quello sguardo, Dean
può leggere tutte le sue responsabilità venute meno, tutto il fallimento del
suo lavoro, tutto il peso della sua incapacità.
E mentre un’imprecazione lascia le sue labbra e Sam torna a contorcersi dal
dolore nell’incavo dei suoi avambracci, Dean si dice che no, no – quello non è
il modo corretto di reagire, no.
Deve fare qualcosa, deve correre ai ripari se vuole davvero aiutare il suo
fratellino, no. Rimesta nella sua
mente così come nel volto di Sam, scorre le dita tra le ciocche dei capelli
ingrassati dal sudore; “Sistemeremo tutto, non preoccuparti” dice, ma è solo un
modo per schermarsi da quella shitstorm
interiore che sta operando ai suoi danni.
“Fottute streghe.” mormora Sam con un filo di voce, ed è
l’inconsapevole sterzata di cui Dean ha bisogno per ritornare in pista.
L’esorcismo che spazza via tutti i demoni interiori che stanno banchettando
sulla sua anima.
“Già...” sorride, avvicina la testa di Sam contro il proprio grembo, lì, dove
qualcosa adesso si sta agitando. “Hai proprio ragione, fratellino. Fottute streghe.”
Fine quarto capitolo
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- Betaggio a tempo record di Petsheart, grazie
mille!
-Doveva essere l’ultimo capitolo, ma in realtà stava venendo spaventosamente
lungo, così l’ho tagliato. Spero di poter concluderlo nel prossimo, ma non ci
conto molto. Ugh. Probabilmente ce ne saranno altri due. Purtroppo ho il pessimo vizio di trattare
tutto in modo iperrealistico, compresi i prompt scemi :D
- Capitolo di transizione. Lega un po’ gli eventi precedenti a quelli che
verranno. Il prossimo, se tutto va bene, tra una settimana. ;) Grazie per aver
letto sino a qui!
- Prompt nato
da una sfida sul mio gruppo Hurt/Comfort Italia. Venite a trovarci!