All Might's daughter i dragon slayer

di 0421_Lacie_Baskerville
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Il cielo era attraversato dalle scie bianche degli aeri in volo.
Lei sollevò lo sguardo e si tolse gli occhiali da sole per osservare il paesaggio cittadino fuori dall’aeroporto. Era un mondo diverso quello, rispetto alla calma cittadina di Magnolia.
I marciapiedi larghi sembravano stretti tanto erano affollati, fu urtata e non le domandarono nemmeno scusa. Gli edifici erano palazzoni alti con pannelli pubblicitari interrativi. Le macchine erano lente, bloccate nel traffico infernale dell'ora di punta, eppure nessuno urlava, nessuno si attaccava al clacson o passava ignorando il rosso del semaforo.
Davanti a una vetrina, una decina di televisori mandavano in onda lo stesso servizio. Una panoramica desolata del campo di battaglia cittadino di Kamino e dell’eroe che si ergeva in piedi, smagrito e determinato, coperto di sangue e polvere.
≪ Il Simbolo della Pace ha sconfitto il suo ultimo nemico, prima del suo ritiro definitivo dalle scene ≫ diceva la cronista.
Le sue labbra si schiusero, fissando quelle immagini desolanti. L’uomo che lottava per proteggere le persone alle sue spalle, puntando i piedi e stringendo i denti, e ancora gli edifici ridotti a macerie e polvere, le persone ferite che si muovevano a stento. Perfino adesso, sentiva una morsa di angoscia stringerle il torace a rivederle.
La prima volta che aveva visto quella battaglia – dallo schermo TV della sala comune della sua accademia – le gambe avevano preso a tremare fino a farla crollare a terra. In ginocchio, aveva guardato le immagini terrificanti del Simbolo che combatteva, mettendo a rischio la sua vita, contro un nemico che appariva inarrestabile.
 Non morire. Era tutto quello che aveva pensato. I suoi amici, il resto del mondo, aveva pregato che il Simbolo vincesse, l’eroe numero uno doveva sopraffare il nemico e salvare tutti, ma lei aveva pregato per l’uomo che stava dietro quella maschera. Va bene anche se lo lasci scappare, ma torna a casa vivo. Ti prego. Non morire così, Toshinori.
In un mondo come il loro, una cosa del genere era prevedibile che accadesse. Dal momento in cui era comparso il “fattore quirk” ogni essere umano aveva avuto nelle sue mani un qualche tipo di potere da usare. Per esperienza, sapeva che il potere implicava sempre una lotta, che fosse per ottenerne dell’altro o per impedire che venisse usato scorrettamente, sempre di combattere si trattava.
Eroi e Villan. Il mondo si era ridotto a questo, ed i cittadini comuni stavano lì a guardare mentre i primi due si inseguivano e combattevano, usando i loro poteri.  
Guardò il cellulare. Il segnale era inesistente, ci giocherellò inutilmente, sempre più infastidita.
Non era mai stata in Giappone prima, anche se lui le aveva promesso che un giorno ci sarebbero stati insieme: sarebbero andati a vedere i cedri che gli piacevano tanto, e i ciliegi in fiore e tutti quei posti che erano stati significativi per la sua crescita.
Una promessa che aveva continuato a rimandare, con una scusa o con un’altra. Lei aveva continuato la sua vita a Fairy Tail, con i suoi amici e compagni, lui aveva continuato a fare avanti e indietro, alternando il suo lavoro in Giappone con le visite che le faceva in America.
Si scostò i lunghi capelli rossi dal viso, riprendendo a camminare. C’erano eroi in ogni angolo della strada, la guardarono senza riconoscerla, più attratti dal rosso scarlatto dei suoi capelli o forse dalle sue forme, che dalla sua identità.
E menomale, si disse sollevata. Detestava tutto il circo mediatico che negli ultimi decenni aveva preso a girare intorno alle figure eroiche. In questo, lei era molto alla vecchia maniera: fai del bene e dimenticatene. Non tutti erano d’accordo, però. Ad alcuni piaceva stare al centro dell’attenzione più di quanto gli piacesse aiutare gli altri.
Quel genere di persone non le voleva nemmeno riconoscere come eroi.
Aveva il corpo indolenzito per la lunga e forzata immobilità; la testa confusa per aver dormito poco e male. Era partita che era quasi l'alba ed ora era già un altro giorno. Un orologio in strada segnava mezzogiorno, ma il suo corpo non era d'accordo. Le comunicava che era notte. Era colpa del fuso-orario, da lì all'America, c’era una differenza spaventosa.
Riguardò lo schermo del telefonino. Non per provare a chiamare - perché tanto non c'era verso di farlo funzionare - ma per guardare la foto che teneva come schermo.
I suoi amici l'avevano sempre presa in giro per questo, dicendole che era infantile, ma lei non ci aveva mai dato peso. Voleva avere sempre con sé qualcosa che gli ricordasse di lui; anche se era lontano, anche se ci pensava spesso durante la giornata, anche se si sentivano praticamente ogni giorno sfidando i mille impegni reciprochi, il fuso-orario e le emergenze da eroi.
In tutte le foto che aveva di lui, sorrideva sempre, spavaldo e sicuro di sé. Quella foto, però, gli piaceva proprio perché il suo sorriso non era quello impostato che consegnava a giornalisti e colleghi. Lui le teneva una mano sulla testa e sorrideva di felicità, sorrideva perché lei stava ridendo, ed erano felici.
<< Sto venendo da te  >> mormorò, stringendo la presa <<  Aspettami  >>.




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