Primo capitolo
5
Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Ex base militare sovietica Chernobyl-2.
10:34.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina
Kabakova.
Il gruppo deve raggiungere Pripyat.
Le
nuvole continuavano ad aleggiare nel cielo sopra la Zona. Il gruppo di
sopravvissuti si stava preparando a lasciare la base di Chernobyl-2, controllando
armi, munizioni e provviste. Ad attenderli, al cancello, c’erano Yaremchuk,
Kovalenko e Svatok, vicino a un furgone modello UAZ-452 già carico e un pick-up modello Tarpan Honker.
«Signori,
quando volete, i miei uomini sono pronti a partire» annunciò il capitano. «Non
volevo rimandare Kovalenko fuori, dopo quello che ha passato, ma ha insistito
per voler ricambiare il favore. Svatok invece conosce la Zona meglio di tutti
noi. Un suo vecchio amico era una guida turistica, ed è venuto qui spesso.»
L’uomo
salutò il gruppo, augurando buona fortuna a tutti.
«Un’ultima
cosa. Arrivano rapporti da Pripyat che parlando di non morti provenienti dalla
Foresta Rossa con livelli di radioattività elevata. Se i dosimetri iniziano a
urlare più del solito, correte» aggiunse, prima di andarsene.
Feodor
si fece avanti.
«Svatok,
prendi con te Irina, Sergei e Boris nell’Honker,
e vai in testa. Sergente Petrova, agente Karavaev, Anatoli, voi verrete con me
sull’UAZ» disse, entrando nel mezzo.
Il
gruppo prese posto nei mezzi assegnati, poi i due soldati fecero cenno ai
commilitoni di aprire il cancello, lasciandosi l’imponente antenna alle spalle.
«Irina…
cosa ricordi di Pripyat?» domandò Boris, poco dopo aver lasciato la base.
«Poco
o nulla. Avevo tre anni quando ce ne siamo andati.»
«Probabilmente
ti ricordi il Palazzo della Cultura, l’hotel, la piscina e il luna park.»
intervenne Svatok.
«Sì,
ora che ci penso. L’Hotel Polyssia e il Palazzo della Cultura, l’Energetyk…
erano enormi. E papà mi portava spesso alla piscina Lazurny, dove c’era
la vasca olimpionica. Facevamo certe nuotate… e dopo, con mamma, andavo al Raduga,
il centro commerciale, a fare la spesa. Del luna park ricordo solo la ruota
panoramica, che sarebbe dovuta aprire in occasione della Festa del Lavoro.
Volevo farci un giro, e papà non faceva altro che ripetermi “ci andremo quando
torneremo”. Senza sapere che non saremmo più tornati.»
«Bei
tempi, Boris… erano bei tempi» sospirò Sergei, guardando fuori dal finestrino.
«Avete
avuto modo di ritornarci?»
«Ci
sono famiglie di ex abitanti che visitano Pripyat nella ricorrenza
dell’anniversario. Ma io e Irina non ci abbiamo più messo piede dal 1986. Era
una bella città… e non ho voluto rovinare i miei ricordi.»
«Ti
piacerà anche la Pripyat del 2009. Vedrai.»
I
due mezzi impiegarono una decina di minuti prima di reimmettersi sulla strada
principale, mettendo a dura prova gli ammortizzatori in quel viale che non
riceveva manutenzione dall’abbandono della stazione radio, nel 1989. Una volta
arrivati alla fine di esso, Svatok diede una rapida occhiata in giro.
«Zombie!»
fece Sergei, indicando verso destra.
Un
gruppetto di non morti, provenienti probabilmente da Chernobyl, vagava in
lontananza.
«Non
sembrano essersi ancora accorti di noi. Ma faremo bene a stare all’erta. Gli
uomini hanno paura delle radiazioni, gli zombie no» disse Svatok, voltando a
sinistra.
«Che
intendi dire?» chiese Boris.
«L’area
che stiamo per attraversare è altamente contaminata. Passeremo a pochi metri
dalla Foresta Rossa, dove, nel giorno del disastro, gli alberi subirono un
fallout radioattivo. Il colore delle foglie divenne rosso, e le piante
morirono. Anche oggi, a distanza di ventitré anni, l’area presenta livelli di
radioattività eccessivamente alti.»
I
passeggeri dell’Honker continuarono a
osservare guardinghi il circondario. La fitta vegetazione ai lati della strada
poteva nascondere senza problemi un ingente numero di zombie.
Un
chilometro dopo, la strada iniziò a curvare, fino a diventare nuovamente un
rettilineo. Ai lati di essa, la vegetazione iniziò a farsi meno fitta,
lasciando spazio ad ettari di campi incolti puntellati da alberi. All’orizzonte,
qualcosa catturò l’attenzione di Boris.
«Laggiù!
La centrale nucleare!»
Col
passare dei secondi, i quattro videro sempre più nitidamente il monumentale camino
rosso e bianco della centrale di Chernobyl. Sotto di esso, chiusi nel Sarcofago,
c’erano i resti del reattore numero 4.
Sergei
strinse la mano a Irina, che teneva come sempre Masha tra le mani. Non erano
mai stati così vicini a casa da anni.
«Non
penso sia stata una buona idea.»
Vassili
aveva rotto il silenzio. Kovalenko guardava nervoso i lati della strada,
gettando occhiate fugaci sullo specchietto retrovisore, alla ricerca di zombie.
«Che
cosa?» biascicò Olga, col lecca-lecca rigorosamente in bocca.
«Mandare
Sergei nell’Honker. Se gli zombie ci attaccano, spetta a loro difenderci. E quel
tizio non ha mai sparato un colpo in vita sua.»
«Non
penso che sia una cattiva persona.» intervenne Anatoli. «Scommetto che, nel
momento del bisogno, saprà sorprendere chi non gli ha dato fiducia.»
«Lo
spero per lui. Quell’uomo merita un po’ di redenzio…»
La
radio di Feodor si accese, propagando la voce di Svatok.
«ARRIVANO!»
Dal
lato sinistro della strada uscirono una ventina di zombie urlanti, che
iniziarono a seguire i due veicoli.
«Non
sparate!» continuò il conducente dell’Honker via radio. «Possiamo seminarli,
non sono tanti. Il problema, forse, verrà tra poco, quando arriveremo ai ruderi
di Kopachi.»
Arrivati
nei pressi del villaggio parzialmente demolito, le paure del soldato si
rivelarono fondate. All’altezza del memoriale eretto a ricordo del paese che
non c’era più, i soldati e i civili trovarono decine di zombie che, alla vista
dei mezzi, si lanciarono all’inseguimento, unendosi ai precedenti inseguitori.
«Kovalenko,
sorpassami! Se le cose dovessero mettersi peggio di così, fungeremo da esca»
ordinò il conducente dell’Honker, che venne sorpassato dopo pochi secondi
dall’UAZ.
Col
passare dei secondi, il numero dei non morti che gli stavano alle calcagna aumentava.
A momenti, i loro versi sovrastavano il rumore dei mezzi.
Poco
dopo aver oltrepassato il cartello che indicava la fine dell’ex villaggio, un
bivio apparve agli occhi di Feodor.
«Svatok,
dobbiamo dividerci! È l’occasione buona!» esclamò in radio, iniziando a voltare
verso destra.
«No!
Quella strada porta ai cantieri dei reattori 5 e 6. Finiremmo per portarli
troppo vicini alla centrale!» urlò il commilitone, costringendolo a sterzare
bruscamente per infilarsi sulla strada a sinistra.
«Allora
trova una soluzione in tempo, Svatok! Se siamo così vicini alla centrale, vuol
dire che non abbiamo molta strada da fare per raggiungere Pripyat.»
Kovalenko
iniziò a sudare. Non intendeva morire. Non dopo esser scampato a morte certa il
giorno prima.
A
Olga non sfuggì lo sguardo impanicato del commilitone, che peggiorò non appena
arrivarono al confine sud della Foresta Rossa, sentendo il dosimetro di Vassili
iniziare a fare baccano.
«Oh,
cazzo.»
Il
poliziotto, tra gli alberi, vide spuntare i famigerati zombie radioattivi. Il
dosimetro urlava sempre di più.
«Svatok,
siamo nella merda!» urlò alla radio Kovalenko.
«Aprite
il fuoco! Ho un’idea!» esclamò l’altro.
Il
gruppo mise le armi fuori dai finestrini e iniziò a sparare. I passeggeri dell’Honker riuscirono a sfoltire, seppur di
poco, il gruppo degli inseguitori, e, con grande sorpresa di tutti, Sergei
aveva preso a sparare col suo AK-74.
«NON
AVRETE MAI MIA FIGLIA, STRONZI!» urlò, accoppando uno zombie dietro l’altro.
«Che
ti dicevo, Vassili?» rise Anatoli.
Due
chilometri più avanti, il gruppo trovò l’ennesimo bivio, ma stavolta non
avevano dubbi su quale strada prendere. Una stele di marmo bianco con la
scritta Pripyat 1970 indicava verso sinistra.
L’urlo
che sentì Kovalenko dalla radio qualche secondo dopo lo spaventò.
«PREMI
QUELL’ACCELLERATORE E SEMINAMI! CI VEDIAMO A PRIPYAT, FRATELLO!»
Feodor
non se lo fece ripetere due volte. Affondò il piede sul pedale e sfrecciò sul
rettilineo. Dallo specchietto retrovisore, fece appena in tempo a vedere
l’Honker svoltare a sinistra, su una strada secondaria, prima che il dosso
formato dal ponte che aveva appena passato, rimasto nella leggenda come Ponte
della Morte, gli ostruisse la visuale.
L’UAZ
continuò a sfrecciare lungo il viale disseminato di lampioni arrugginiti, fino
a quando non iniziarono a vedere la sagoma di alcuni palazzi stagliarsi sopra
gli alberi.
«Che
spettacolo» sussurrò Olga.
La
città era stata invasa dalla foresta. La natura sovrastava il cemento, e i
palazzi si ergevano in condizioni fatiscenti. All’epoca era una città modello
dell’URSS, quasi un paradiso terrestre all’ombra dell’atomo. Ma ora, in pieno
autunno, ventitré anni dopo il suo abbandono, Pripyat apparve ai loro occhi per
com’era: lo scheletro di un’epoca passata così lontana e vicina al tempo stesso.
Un
checkpoint, un cartello col nome della città, delle barriere di filo spinato e
un paio di militari accolsero Feodor, Olga, Anatoli e Vassili tra le rovine
dell’atomgrad rimasta ferma nel tempo alle ore 14 del 27 aprile 1986.
«Benvenuti
a Pripyat, signori.»
In lontananza, si sentì
un’esplosione.
continua...
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Sì, signore e signori. A causa del limite di parole del contest,
ho dovuto concludere col colpo di scena finale la storia.
State tranquilli, però. Il sequel è in fase di scrittura,
arriverà per settembre/ottobre e sarà ancora una volta
una mini-long.
Vi ringrazio infinitamente per avermi seguito fin qui.
Alla prossima,
Frenz
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