~ guardati
hana wa
sakuragi, hito wa bushi
{tra i fiori il
ciliegio, tra gli uomini il guerriero}
Con
un sospiro tremulo, alzò lo sguardo al cielo.
Lo
faceva spesso da quando quella pazzia era iniziata,
nel momento in cui
sentiva che le speranze scivolavano via dalla sua pelle offuscata dalle
ombre
come acqua inarrestabile, impietosa, che non si volta. Mai.
Allungò una mano
verso il fucile che portava appresso e, mostrando una
smorfia straziante, sfiorò la canna dell’arma con
le dita segnate dalle
continue battaglie. Se avesse avuto possibilità di scelta
– anche una soltanto
-, non avrebbe mai accettato quella strada.
Non
era portato per la guerra, malgrado dovesse ammettere di avere una
dannatissima
buona mira e una
certa bravura nel dare
ordini senza che gli altri soldati sollevassero obiezioni. Eppure
c’era in lui
un desiderio di essere altrove, sempre: ogni volta che impugnava
l’arma,
stringendo i denti e aspettando i fragorosi scoppi delle bombe non
molto
lontane, immaginava di trovarsi all’interno di un sogno e,
perso in una
dimensione onirica, si muoveva a rallentatore, osservandosi come se
fosse al di
fuori. Non realmente presente. Non percepiva la sua persona per tutta
la durata
dello scontro, ma tornava in sé quando la realtà
era così evidente da non
poterla più ignorare.
I
feriti nei tendoni, che gemevano sulla soglia del delirio, erano veri.
I
morti, accatastati in pile, uno sopra l’altro, pronti per
essere seppelliti in
fosse di fortuna, erano veri.
La
nebbia e le ombre, che la polvere da sparo disegnava con una maestria
terribile, erano vere.
In
quei momenti il giovane Nobu non poteva che abbassare la visiera
dell’elmetto
in modo da evitare di guardare, ma non bastava.
Da
quel settembre 1940, anno in cui il Giappone era entrato in guerra
firmando il
patto tripartito con la Germania nazista e l’Italia fascista,
la sua vita era
cambiata.
A
soli ventidue anni era stato costretto a prestare servizio presso
l’esercito
nipponico, proclamando gloria all’Imperatore, mentre gli
aerei dell’aviazione
militare JAAF sorvolavano già il cielo, a caccia di prede da
abbattere.
Ed
ora, dopo cinque anni di conflitti mondiali, lui era tornato ad
Hiroshima con
una licenza che gli era costata diverse suppliche rivolte ai superiori,
e una
fervida convinzione di volerla rivedere.
Kumiko.
Il
solo riportare alla memoria il suo nome bastava a strappargli un
sorriso.
L’ultima volta che si erano visti risaliva a due anni prima,
quando era
riuscito a tornare per celebrare il lutto di sua madre, e non era stato
un
evento felice. La ricordava minuta, con due graziose e piccole spalle e
lo
sguardo abbassato per celare le lacrime, le lunghe ciglia che
carezzavano le
guance impallidite per la sofferenza.
Così
giovane, così inconsapevole della propria bellezza.
Nobu
sospirò, su quel ponte di pietra che in futuro non
lascerà traccia alcuna, ad
ammirare i ciliegi in fiore, malgrado il resto del mondo stesse
decadendo in un
pozzo di tormenti.
Quegli
alberi erano tanto belli da togliere il fiato: alti fino ai dieci metri
con le
fronde che si allungavano verso i compagni in un intrico che appariva
come una
fitta ragnatela di sottile seta, un’esplosione di rosa e di
rosso sfumato che
ricordava il sangue. Occupavano quasi il cielo – spettacolo
di un coraggio
indicibile -, impedendo alle tenebre di trovare un passaggio
d’entrata, e Nobu
gliene fu immensamente grato. Per un attimo, il mondo d’ombre
in cui era
entrato a forza, poteva dirsi scomparso. Non esisteva.
-
Non dirmi che sei tu. -
Il
giovane uomo sussultò appena nel sentire quella voce
familiare; fu travolto da
una nostalgia abituale sul campo di battaglia, nel quale doveva
aggrapparsi
alle memorie per non soccombere, e si girò con una lentezza
calcolata, come se
avesse timore di incontrare lo sguardo scuro e profondo che
l’attendeva.
-
Mi spiace deluderti, fanciulla. Sono proprio io. –
replicò, con un tono basso,
quasi roco.
L’altra
scoppiò in una risata cristallina, correndo verso la sua
direzione. Un turbinio
di capelli neri come la notte. – Oddio, Nobu, sei tornato!
– gridò la sua voce
da soprano, sovrastando il sussurro del vento – Me lo sento,
la fine della
guerra è vicina! – Lo baciò sulle
guance, alzandosi sulle punte dei piedi per
raggiungere il volto.
-
Solo perché sono tornato? – le domandò
lui, cingendole la vita. Odorò la pelle
di lei e ne rimase estasiato: sapeva di casa e di pioggia.
Kumiko
sorrise. – No. Perché sei sopravvissuto.
– Gli premette le labbra sull’incavo
del mento, e rise ancora. – Ho sentito che sono in corso
delle trattative di
pace con l’Unione Sovietica, ma non te ne chiederò
la veridicità. Voglio
crogiolarmi nelle speranze e nell’ottimismo, sai. –
Nobu
le sollevò il viso, costringendola a guardarlo. –
Non parliamo di questa
sciocca battaglia. – le sussurrò,
all’altezza dell’orecchio. – Mi sei
mancata
terribilmente. –
Kumiko
lo osservò divertita e, nonostante fosse molto
più magra di quanto ricordasse,
gli sembrò una dea.
Una
creatura intoccabile dalla guerra, lineamenti delicati ma decisi che
rappresentavano il suo ideale di perfezione.
Un’anima
pura che aveva scelto di stare con lui.
-
Guardati. – esclamò, gli occhi marrone scuro che
luccicavano d’emozione – Sei
meravigliosa. – La strinse a sé, come se volesse
unirsi a lei sotto quelle
nuvole di aprile. Sotto quei ciliegi in fiore che sfidavano il tempo.
-
Sei la mia piccola kokeshi, amore. – continuò,
baciandole una tempia, e
scendendo verso le labbra. – Adorabile bambina. -
Kumiko
fece scorrere le sue dita affusolate nei capelli tagliati a spazzola
con uno
sguardo dolce. – Mi sei mancato anche tu, Nobu-kun.
–
Un
bacio.
Cadde
un petalo di ciliegio.
L’eternità
in un istante.
-
Fai ancora il gelato al thé verde? –
esordì d’un tratto Nobu, sorprendendola
con un sorriso disarmante. – Ne ho una voglia matta, proprio
adesso. -
La
giovane si illuminò. – Ne ho conservato un
po’. Vieni a mangiarlo? –
Nessuna
guerra, nessuna disperazione, nessuna morte inutile. Soltanto, la calda
promessa di amore.
-
Non dovresti neppure chiederlo. –
A
maggio il guerriero tornò a Tokyo, nella base militare in
cui ormai le
strategie offensive rimanevano tali: un insieme di proposte nero su
bianco,
nient’altro.
Forse
Kumiko aveva ragione, la guerra avrebbe presto trovato un epilogo.
Finalmente.
Ma
arrivò il 6 agosto 1945.
Qualche
ora prima delle 8:15 del mattino, un radar giapponese captò
l’arrivo di pochi
velivoli americani e, non dando loro la giusta importanza,
ridimensionò
l’allarme.
Enole
Gay sganciò allora Little Boy sulla città di
Hiroshima, devastandola
sull’istante. In cielo, un nuovo sole. Salì un
fumo a fungo, che nascose
inizialmente la ferita ardente della terra, divenendo allegoria della
distruzione.
Del
centro urbano non rimase che cenere, e le zone circostanti furono
travolte
dalle radiazioni.
Un,
due, mille, tremila… i morti parevano infiniti.
Il
settembre di quello stesso anno il Giappone firmò la resa,
ed ebbe fine la
Seconda Guerra Mondiale.
Nobu
si sentì spezzare il cuore – frammento
più frammento – nel comprendere che non
avrebbe mai più rivisto la sua dolce kokeshi, e non volle in
alcun modo
partecipare alle operazioni di soccorso.
Gli
sembrava inutile.
A
quale prezzo poteva ora ritirarsi dall’esercito?
Strinse
i denti e si fece forza per lei.
Sotto i ciliegi,
amore, aspettami sempre.
Sarò lì dove il
sangue dei guerrieri imperiali è stato versato
per la salvezza di
un mondo che, in fin dei conti, merita di essere salvato, nonostante
cerchi di
annientarsi da sé.
Aspettami, con un
sorriso e con un gelato al thé verde.
Io arriverò.
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