Metallo Puro

di SilverDoesNotKnow
(/viewuser.php?uid=1151796)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Tutto sta girando... è un gran giramento di palle. Sento la mia mente intorpidita e leggera. C’è un sacco di gente, musica brutta ad alto volume e così tanta noia... il momento perfetto per una sigaretta. Esco dal Locale con precauzione: il pavimento sembra inclinarsi da una parte, come se un gigante lo stesse muovendo per divertirsi ad osservare tutti quegli esserini capitombolare là sopra.
Dopo tre... forse quattro shottini stare in piedi diventa faticoso perciò decido di sedermi su uno scalino portandomi alle labbra una Lucky Strike, una vecchia marca non più in commercio ma per fortuna abbondante al mercato nero; prima o poi tutte le Luckies si estingueranno, che tristezza...
 L’accendino, cazzo. L’accendino ha l’abilità di sparire quando serve e magicamente riaffiorare nei momenti più scomodi. Mi guardo attorno: appoggiata ad un muretto che divide la strada dal fiume c’è una ragazza dai capelli verdi che gioca con una fiammella scoppiettante tra le sue dita. Cercando di non apparire troppo ubriaco -sarebbe poco elegante vomitarle sulle scarpe- mi avvicino a lei, un piede dopo l’altro. «Ciao, posso... ?», accenno alle sue mani con la sigaretta tra le labbra. Lei non sembra troppo turbata dal mio aspetto e avvicina la lingua di fuoco al tabacco. «Serata noiosa, non credi? Là dentro non c’è un cazzo da fare, la musica è troppo alta per parlare», dico per rompere il ghiaccio.
«Perché, sei venuta qua per parlare?», risponde lei. Appare diffidente, ma spero capisca che non ho alcuna intenzione di saltarle addosso.
«No, solo per bere: il rum costa poco.» La ringrazio con un mezzo sorriso e scavalco, non senza difficoltà, il muretto pericolante per trovare un posto comodo lungo l’argine.
«Aspetta!»
I suoi passi leggeri mi seguono e me la ritrovo a fianco, con quelle belle labbra rosa bagnate dai raggi della luna... ah no, è la luce del lampione. “Smettila, stupido”, mi dico scuotendo la testa nel vano tentativo di scacciare la nebbia dalla mia mente.
«I miei amici mi hanno trascinato qui. “È divertente!” ripetevano, ma apparentemente ho un concetto di “serata piacevole” molto diverso dal loro», sospira, mi fa un piccolo sorriso e decido che non è il caso di essere brusco; anche questa povera ragazza sta scappando dall’inferno dentro il locale.
«Qual è il tuo nome?», chiedo dopo un breve silenzio.
«Lora. Già, come Lorax ma senza X, non sono il Guardiano della Foresta.»
Con la sua risata riesce a farmi abbandonare l’idea di scappare a gambe levate. In fondo è piacevole scambiare due parole a mezzanotte e l’aria fresca raffredda il mio corpo in fiamme.
«Mi piace il colore dei tuoi capelli, non è comune. Ah, e grazie per...» sollevo la sigaretta tra le mie dita accorgendomi di essere arrivato al filtro e lo spengo nella sabbia. «La sigaretta è una metafora della vita: è squisita e lascia insoddisfatti.»
«E queste frasi filosofiche da dove le peschi?»
«Sciocchezze da prendere sul serio, del caro Oscar.»
«Chi è Oscar?»
«Un vecchio amico», sorrido in modo non troppo convincente e mi alzo, fissando il flusso continuo dell’acqua a mezzo metro dai miei vecchi stivali. «È stato un piacere, Lora. Bei... capelli», dico a bassa voce indicando vagamente la sua testa con la mano. “Perfetto, ottima figura di merda, stai ripetendo ciò che dici come un vecchio che racconta le avventure di guerra ai nipoti.”
Mi avvio per la strada a grandi passi con lo sguardo sul pietrisco che scricchiola sotto le suole e mi tuffo nel buio senza luna.
All’inizio le tenebre nascondono tutto ciò che si trova a più di qualche centimetro dal mio naso, ma presto i lampioni della città cominciano a illuminare la via.
Il Locale, situato fuori dalla città vera e propria, era un edificio non molto esteso in larghezza ma verso il cielo si allungava per quattro piani, più il bar nella cantina. Si diceva in giro che avesse origini talmente antiche che la gente si era dimenticata il suo vero nome: infatti era chiamato semplicemente Locale o Tana. Caso più unico che raro, era circondato da campi incolti e poteva essere raggiunto solo tramite una strada sterrata. La città non aveva ancora divorato quella zona perché il terreno era troppo instabile per la costruzione, o almeno così dicevano gli esperti.
La strada che porta al Locale si immette in una via asfaltata che segna l’inizio delle abitazioni: il mio quartiere è al confine della città e con un quarto d’ora di cammino si può respirare l’aria pulita della campagna.
Trovo miracolosamente le chiavi nella tasca dei jeans, apro il portone del condominio e arranco per quattro rampe di scale. Domani starò da schifo, ma non importa. Almeno in questo momento mi sento così confortevolmente intorpidito. Una volta entrato nell’appartamento collasso sul divano a peso morto. Immagini veloci attraversano la mia mente: il -o la, non l’ho capito- dj del Locale, un bicchiere di rum con ghiaccio, capelli verdi, quel fottuto accendino... Lentamente mi sento scivolare nel sonno, come l’acqua che scorre nel fiume.




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3931618