Il processo

di Kimmy_90
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Era successo nel tempo di tre battiti.
Tre, secchi e rapidi, spinti dall'adrenalina.

Nel primo aveva realizzato cosa stava succedendo.
Al secondo aveva capito cosa sarebbe potuto succedere.
Col terzo, agì.

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Nadja Rubin sedeva a un tavolo più vecchio di lei, sua madre e sua nonna messe insieme. Era largo, quadrato, e avrebbe facilmente potuto accogliere una ventina di persone.
Dall'altro lato un uomo, in piedi, si ostinava a leggere e rileggere due pagine di un fascicolo alto quanto un vocabolario. Accanto all'uomo sedeva una donna, forse sessant'anni, dai lunghi capelli argentati e il volto curato, ben truccato, le sopracciglia perfettamente simmetriche e candide: vestiva una tuta da ginnastica nera, chiusa sino al collo.
La guardava.
Da mezz'ora, non faceva altro che guardarla.
La donna si chiamava Eva Santoro, ed era - era stata - Procuratrice della Repubblica a Tolmezzo, una cittadina appoggiata alle prealpi carniche di cui nessuno, sino a qualche anno prima, si era mai troppo curato.
C'erano due motivi per cui Eva Santoro sedeva in quella stanza - anzi, tre.
Il primo era che a Tolmezzo c'era ancora un tribunale funzionante. Magistrati, amministrativi, tecnici informatici e inservienti erano non solo tutti in vita, ma anche tutti pronti a lavorare: pronti a mettere a posto gli archivi disastrati, pronti a mettere in sicurezza gli uffici sventrati, a pulire i calcinacci, a rimettere la malta, a lavorare sulle scale, sui prati o nei tendoni allestiti poco lontano. 
Se quindi si fosse dovuto svolgere un processo, quello era il luogo giusto per farlo. Infatti, di processi ne avevano già svolti una decina: piccole banalità, vecchie storie da chiudere, un paio di furti in recidiva.
Il secondo motivo erano i piani alti. Gli ingenui avevano immaginato che i piani alti sarebbero stati i primi ad accusare il colpo di quanto era successo, disintegrandosi: errato. I piani alti erano sopravvissuti - non senza contraccolpi o mutilazioni, ma erano sopravvissuti. Loro, e i media: reti televisive e radiofoniche, piattaforme web dell'uno o dell'altro tipo, erano esplosi non appena era tornata la corrente, riempiendo il baratro lasciato dai big. Tutto era cambiato, e nulla era cambiato: la gente esigeva un processo. 
... fra le altre. Esigeva anche acqua potabile, scuole, cibo e medicine, ma soprattutto esigeva un processo. Lo dicevano i media, lo dicevano i piani alti, lo diceva la gente.
Arriviamo al terzo motivo. Il motivo per cui, a quel tavolo, sedeva Eva Santoro, e non Massimo Righi, o Lucia Linz. Eva Santoro era lì perché era brava, sì, perché era affidabile, sì, perché era viva - sì. Ma anche e soprattutto perché sapeva benissimo quanto quel processo, in realtà, non si potesse fare.
Eva Santoro sedeva fissando Nadja Rubin da un'ora.
Non voleva essere lì. Odiava essere lì. 
Eppure era lì.
Si alzò, dando un colpetto sulla spalla all'uomo accanto a lei.
"Va bene. Iniziamo."
Nadja Rubin si irrigidì impercettibilmente sulla sedia.
Eva Santoro inforcò gli occhiali, prese una matita, due fogli dal plico, due fogli da un cassetto, e tornò a sedersi.
"Posso verbalizzare io, Dottoressa..." farfugliò l'uomo.
Eva Santoro lo guardò sottecchi: "Sì, vabbè. Tu, capire le cose, mai."
Quello aggrottò leggermente le sopracciglia, ma non rispose.
"Non verbalizziamo un cazzo." spiegò la donna.
"Come scusi?"
"Vai a prendere dell'acqua, piuttosto. Sarà lunga."




 

 





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