Kitsunetsuki
Titolo: Kitsunetsuki
Autore: SignorinaEffe87
Prompt: #18. C’era una volta (Thirty Days Hath September Challenge; Non Solo Sherlock - Gruppo Eventi Multifandom)
Fandom: Anime & Manga > Boku no Hero Academia/My Hero Academia
Tipologia: Alternate Universe - Japanese Folklore, One Shot, Slice of Life
Personaggi Principali: Kitsune!Keigo Takami/Hawks | Farmer!Fumikage Tokoyami
Note: Ispirata alle fanart di Kadeart (Kitsune AU)
Credeva che sarebbe stato più difficile raggiungere il vecchio tempio di Inari.
Si era messo in cammino al sorgere
del sole, quando la luce pallida dell’alba aveva appena iniziato a
sfiorare i tetti delle case del villaggio. Per quanto gli piacesse
cercare riparo sotto l’intrico dei rami della foresta, nei giorni
d’estate in cui il calore e le schegge di legno nelle dita si facevano
insopportabili, non aveva alcuna intenzione di restare a vagare in quel
labirinto di alberi tutti uguali dopo che era calata la notte. Alla sua
ombra sarebbe piaciuto molto perdersi lì in mezzo, l’aveva sentita
risvegliarsi non appena si era addentrato nel bosco, come un uccellino
che sbatte le ali per fuggire dalla gabbia, ma aveva già imparato da
tempo che non doveva fidarsi di quello che lei pensava al suo posto.
Era sicuro di non aver camminato
per più di un paio d’ore, perché il sole faceva ancora fatica a
insinuarsi tra le foglie mosse dal vento, nel momento in cui vide la
sagoma del torii dinanzi a sé, il legno rosso che spiccava accanto alle
cortecce scure delle piante. Avvicinandosi, notò che la vernice si era
scrostata in più punti, come se degli animali selvatici avessero usato
le colonne per affilare gli artigli; non aveva neppure preso in
considerazione di incontrare qualcosa che non fosse lo spirito
guardiano della foresta, durante quel viaggio, e, per la prima volta da
quando aveva deciso di recarsi al tempio, si pentì di averlo fatto
senza rifletterci troppo.
Avrebbe dovuto prendere con sé
l’ascia che Shoji gli aveva offerto, quando si erano salutati al
limitare della foresta, ma adesso era troppo tardi per rimproverarsi di
essere stato incauto, ma soprattutto era troppo tardi per tornare
indietro senza lasciare l’offerta. Non poteva dare ragione a Shoji, che
fino a quel saluto aveva cercato di convincerlo a non partire, e non
poteva lasciare che l’ombra gioisse dei suoi timori.
Doveva riuscire a persuadere lo
spirito guardiano, affinché proteggesse i loro alberi di mele dalla
misteriosa calamità che li aveva colpiti. Infatti, presto sarebbe
arrivato l’autunno, e con lui il corteo del daimyo Toshinori per
riscuotere il tributo. E il villaggio sarebbe stato costretto a
scegliere se pagare il tributo usando le scorte di mele accumulate per
l’inverno, condannando tutti gli abitanti a morire di fame sotto la
neve, oppure a ribellarsi a una tassa impossibile da saldare e morire
lo stesso, ma più in fretta, sotto le lame del generale Aizawa.
Sentiva la paura strisciargli lungo
la schiena come un insetto fastidioso, e non riusciva a capire se si
trattava invece della carezza inquieta dell’ombra. Comunque, deglutì
l’esitazione insieme a un sospiro e oltrepassò il torii, alla ricerca
dell’edificio principale.
Doveva essere il primo umano che
percorreva la strada in direzione del tempio dopo anni, poiché il
sentiero era stato invaso da un fitto tappeto d’erba e piante
infestanti, che si arricciavano attorno alle lanterne. Si fermò a
osservare la più vicina: era rimasta qualche traccia della cera delle
candele spente, ormai sciolta e dura quanto la pietra su cui era
incrostata. Eppure, qualcuno era riuscito a conficcare dei bastoncini
appuntiti in quell’ammasso biancastro, che adesso spuntavano ritti come
incenso su un altare domestico. Erano gli stessi bastoncini con cui
qualcuno aveva crivellato le loro mele ancora appese agli alberi, ogni
notte nel corso dell’ultima luna, anche se avevano iniziato a vegliare
all’incrocio dei rami con le asce tra le braccia.
Quando era accaduto persino durante
il turno suo e di Shoji, ed era sicuro che nessuno di loro due si fosse
addormentato, aveva capito che non poteva essere opera di un umano
particolarmente livoroso, ma, soprattutto, che l’unica scelta era
andare al tempio con un’offerta e sperare che lo spirito guardiano
ascoltasse le loro preghiere.
“Credi davvero che smetterà di
distruggere il nostro raccolto solo perché gli hai portato del tofu
fritto?” gli aveva chiesto Shoji, mentre lo accompagnava lungo la
strada principale del villaggio, con un tono che non gli piacque
affatto, perché gli sbatteva in faccia le perplessità che lui stesso
ancora nutriva su quella soluzione, sia perché sembrava malinconico,
come un addio. E lui non aveva intenzione di morire nella foresta senza
fare ritorno a casa.
“Sono spiriti, Shoji, non ragionano
come noi” aveva risposto in modo sbrigativo, e adesso rifletteva che
quelle potevano essere state le ultime parole che si erano scambiati.
Che potevano diventare l’epitaffio sulla sua lapide, insieme a sciocco
coltivatore di mele che si fidava troppo delle vecchie leggende da
comari.
Nulla di quella sciagura aveva
senso, ma niente poteva averlo, quando si risvegliava il rancore di
esseri millenari, capricciosi e annoiati come bambini di nobile
lignaggio, capaci di prendersela con gli umani solo per avere un
espediente con cui far passare il loro tempo illimitato.
Di nuovo, però, sapeva che con i
dubbi e i rimorsi non avrebbe ottenuto nulla, se non di far fremere
l’ombra nel petto, come se potesse vincere lei, e questo non poteva
permetterselo, in mezzo a una foresta oscura.
Finalmente, vide spuntare il tetto
del tempio poco lontano, accarezzato dalla luce tiepida delle mattine
che si avvicinano all’autunno: in un tempo ormai dimenticato, almeno
dagli uomini che vivevano accanto al bosco, doveva essere stato un
edificio fastoso, a giudicare dai brandelli di vernici preziose che,
seppur sbiadite e corrose dalla pioggia, ancora si potevano scorgere
sulle rifiniture di legno. Si chiese da quanto tempo nessuno lavava e
rammendava le stoffe rosse, ormai strappate e penzolanti come vessilli
di un esercito sconfitto, che avrebbero dovuto essere appese al collo
delle statue a forma di volpe, ai lati dell’edificio principale.
“Non sei venuto qui per ammirare il paesaggio, Fumikage”:
scrollò la testa, per riportare la propria attenzione su quello che era
venuto a fare, in quel posto sperduto e cadente. Salì in fretta i
gradini scricchiolanti e tolse di tasca il pacchetto con il tofu fritto
per appoggiarlo sull’altare; sotto le sue dita, la polvere volteggiò
nell’aria e ricadde, come pioggia sulle foglie.
“Ti supplico, spirito guardiano che
vegli su questa antica foresta, accetta l’umile offerta del nostro
villaggio e ascolta le nostre preghiere”: inginocchiato su quelle assi
pronte a cedere da un momento all’altro, a sentire la propria voce che
cantilenava solenne quelle parole, si convinse che aveva fatto bene a
venire da solo, perché Shoji non avrebbe riso di lui apertamente, ma
glielo avrebbe ricordato in maniera sottile durante qualche battibecco,
solo per fargli perdere la pazienza.
“Ti supplico, spirito guardiano,
accetta questa offerta e proteggi il nostro raccolto dalla calamità che
lo ha colpito” aggiunse, non del tutto sicuro di quanto dovesse essere
specifico, in quel tipo di rituali. Il fatto di essere ritenuto
l’esperto di spiriti del villaggio, solo perché ricordava a memoria
tutte le storie che venivano raccontate attorno al fuoco nelle lunghe
notti d’inverno, non faceva di lui un sacerdote o un onmyoji vero. Se
lo fosse stato, avrebbe avuto di che sfamare l’intero villaggio, anche
se le mele fossero state ridotte tutte a puntaspilli. Ma, ancora una
volta, doveva essere l’ombra a dubitare per lui.
“Dannato spirito guardiano di queste inutili rovine, rispondimi”
pensò, in maniera molto poco rispettosa del luogo sacro in cui si
trovava, mentre sentiva quel silenzio opprimerlo e la calma sfuggirgli
tra le dita. Forse si era sbagliato, avrebbe dovuto dar retta a Shoji,
non c’era nessuno spirito in quel tempio abbandonato, e lui era uno
sciocco coltivatore credulone che si era fatto un’inutile scampagnata
nella foresta con del tofu fritto in tasca.
E, questa volta, non erano i pensieri dell’ombra a farglielo credere.
Stava per alzarsi e andarsene,
quando una folata di vento gelido, di quello che s’insinua nelle radici
delle piante fino a ucciderle, lo travolse, costringendolo a restare in
ginocchio, a testa bassa, per non essere accecato dalla polvere. Una
voce profonda, riecheggiante dalle pareti stesse del tempio, risuonò
nella foresta, spegnendo ogni altro rumore: “Misero mortale che
disturbi il mio sonno, vattene! La tua offerta non può essere
accettata!”
“Perché?” gli uscì, in un sussurro
incredulo. Forse, non era esattamente la prima domanda che avrebbe
dovuto rivolgere a uno spirito guardiano che si era almeno degnato di
rispondergli, e di sicuro avrebbe potuto farlo in una maniera un po’
più appropriata alle loro differenze di rango.
Di nuovo, la voce scosse le pareti
di legno e gli alberi del bosco: “Misero mortale, se vuoi che ascolti
la tua supplica, devi offrirmi un intero vassoio di yakitori!”
Se non fosse stato così spaventato,
avrebbe creduto che si trattasse di uno scherzo- Kaminari aveva una
pessima reputazione al villaggio per questo genere di giochetti,
infatti era stato accusato di aver danneggiato le mele, la prima notte
in cui era accaduto-. Le leggende parlavano chiaro, pur nel loro
linguaggio fumoso da racconti antichi: le kitsune amavano il tofu
fritto, questa era l’offerta adatta per blandirle ed essere ascoltati
da loro.
Inoltre, era stato già abbastanza
gravoso per il villaggio privarsi del cibo sufficiente per mettere
insieme un’offerta sostanziosa; con il raccolto inservibile e le scorte
che già scarseggiavano, non sarebbero stati in grado di permettersi
neppure un singolo yakitori, a meno che non fossero riusciti a mettere
le mani sulla borsa di Tawara Tōda(*). E avevano già avuto la prova che
le leggende non sono poi così affidabili.
“Noi… non possiamo offrirti quello
che chiedi, spirito guardiano” ammise, la voce appesantita dalla
consapevolezza che, alla fine, era stato davvero tutto inutile.
Stava cercando di dominare l’ombra,
gonfia in gola insieme alla paura che gli spezzava la voce, quando
percepì un fruscio alle proprie spalle, il passo rapido e leggero di un
animale peloso, lo stesso rumore che ricordava di aver sentito, insieme
a poco altro, la notte in cui lui e Shoji avevano fatto inutilmente la
guardia alle mele.
Forse sarebbe stato fulminato a
morte da uno spirito guardiano offeso, ma, per una volta, lasciò che
fosse la curiosità a prendere possesso del suo corpo: allungò la mano
verso la parete e si ritrovò a stringere tra le dita una coda soffice.
Speriamo che ne abbia una soltanto, o da questo tempio non porteranno via neppure una manciata delle mie ceneri.
Il proprietario della coda emise un
urletto stupefatto, che rimbombò nell’edificio e nel bosco come la voce
inquietante di poco prima, inciampò in una trave spezzata e lasciò
cadere la sfera che teneva tra le mani. Entrambi la guardarono urtare
il pavimento, rimbalzare con un limpido tintinnio cristallino e
incrinarsi come un uovo da cui sta per uscire un pulcino. Si accorse di
essersi dimenticato di respirare quando la kitsune esclamò, in una voce
ormai del tutto umana: “Ops.”
Era così incredulo da non riuscire
quasi a sbattere le palpebre, anche se era sicuro che sarebbe stato più
opportuno distogliere lo sguardo: la kitsune aveva riacquistato una
forma umana, ad eccezione dell’unica coda che lui teneva ancora stretta
in mano e delle orecchie a punta in mezzo a una chioma di capelli color
paglia, abbassate in una posizione che tradiva tutto il fastidio per
quella situazione imbarazzante.
I suoi occhi erano gialli e
guizzanti, la resina che s’incendia durante le tempeste di fulmini, e
gli si appuntarono addosso come spilli: “Come pensi di risolvere questo
disastro, corvetto?”
“Non mi chiamo corvetto,
io sono Fumikage Tokoyami” lo corresse, con quell’aria compunta che
Shoji trovava divertente ed esasperante allo stesso modo. Si pentì
immediatamente delle poche parole che aveva detto, quando vide le
labbra sottili della kitsune incurvarsi in un sorrisetto divertito:
“Oh, se fossi stato davvero il temibile spirito guardiano di cui
parlano le vostre stupide storielle, quali orribili cose avrei potuto
far fare a un corvetto così stupido da rivelarmi il suo nome.”
Nonostante quella giocosa minaccia,
la kitsune si limitò a raccogliere da terra la sfera e piagnucolare
come un bimbetto offeso: “Invece, sono solo una povera bestiolina
solitaria e ora senza magia, grazie a un corvetto pasticcione! Allora,
dimmi, come pensi di sistemare quello che hai combinato?”
Guardò la sfera incrinata fra le
sue dita, in cui aleggiava a malapena un bagliore misterioso,
sufficiente perché l’ombra si dimenasse nel suo petto per cercare di
ghermirlo: “Quella era… è la tua Hoshi no Tama? Non si può riparare?”
La kitsune nascose la sfera
nell’ampia manica dell’haori, prima di chiarire, nel tono scocciato di
chi sta cercando di insegnare l’alfabeto a un allievo particolarmente
ottuso: “Si aggiusterà da sola, ma ci vuole tempo, e io senza magia non
so nemmeno allacciarmi l’hakama! È colpa tua se si è rotta, quindi devi
rimediare! Subito!”
Tentò di passare in rassegna le
leggende che conosceva, nel caso in cui qualcuno, prima di lui, si
fosse trovato in quella assurda situazione, ma non gli venne in mente
nulla di risolutivo. Di solito, chi danneggiava le proprietà divine
finiva in polvere o trasformato in qualche mostro orripilante, che
veniva poi ucciso senza pietà e senza troppe domande da qualche
coraggioso samurai in cerca di gloria. Nessuna delle due alternative lo
allettava in maniera particolare, quindi rimase in silenzio.
“Allora, sto aspettando e non ho
molta pazienza, corvetto” insistette la kitsune, agitando la coda come
un gatto infastidito. La guardò sedersi sull’altare impolverato e tirar
fuori uno yakitori dalla manica dell’haori: “Hai tempo fino a quando
finisco di mangiare.”
In quell’istante, la consapevolezza
lo trafisse come l’occhiata attenta dello spirito. Le mele crivellate,
i graffi sulla vernice del torii, i bastoncini piantati nella cera
solida, l’offerta in yakitori: aveva avuto tutti gli indizi sotto gli
occhi, ma era stato troppo impegnato a guardare il paesaggio e
preoccuparsi dell’ombra per vedere davvero: “Sei stato tu. Tu hai
distrutto il nostro raccolto.”
“Io detesto le mele” ribatté la
kitsune, mentre inghiottiva in un solo boccone gli ultimi pezzetti di
carne e piantava il bastoncino nel legno dell’altare, come l’aveva
conficcato nei loro frutti nel corso dell’intera luna, “Ti faccio
notare che il tempo è scaduto, corvetto. Allora, la tua risposta?”
Ignorò i ruggiti silenziosi
dell’ombra contro le tempie, che avrebbero voluto convincerlo a
scagliarsi addosso alla kitsune per lottare e fuggire. Invece, si
inginocchiò di nuovo, come aveva fatto quando ancora sperava che il
tofu fritto potesse salvare le sue mele e il suo villaggio: “Non c’è
nulla che io possa fare per ripagarti della sfera infranta, spirito
guardiano. Divorami pure, se ciò può servire a placare la tua rabbia,
ma, ti supplico, smetti di tormentare i nostri alberi, o la mia gente
morirà.”
Una risata argentina, che subito
dopo divenne sguaiata come il verso di un cane folle, questa fu la
prima risposta che ricevette dalla kitsune. Adesso sarebbe morto, senza
aver mai imparato a ridurre al silenzio l’ombra, e aveva detto addio a
Shoji soltanto con qualche parola vuota e piena di fastidio.
Era però ancora inequivocabilmente
vivo, quando la kitsune gli rifilò uno schiaffetto a palmo aperto sulla
testa, come se stesse cercando di educare un cucciolo bizzoso:
“Figuriamoci se posso mangiarmi un corvetto tutto piume e ossa come te!
Non basti neanche a sporcarsi le zanne!”
D’accordo, non sarebbe morto
adesso, ma di sicuro il ghigno allegro della kitsune non poteva
significare nulla di buono: “Te lo dico io, cosa puoi fare per
rimediare, corvetto. Resta con me, qui al tempio, come servitore e
apprendista, fino a quando la mia sfera sarà di nuovo intatta. In
cambio, ti prometto che smetterò di danneggiare il vostro raccolto. Lo
giuro sulla mia coda vaporosa, che possa restare incastrata in una
tagliola se mento.”
Poteva fidarsi delle promesse di un
bizzarro spirito guardiano che preferiva gli yakitori al tofu fritto?
Se fosse rimasto nella foresta, al suo servizio, avrebbe davvero
salvato l’intero villaggio dalla morte per fame?
La vera domanda, però, gli affiorò alle labbra prima che potesse cercare di reprimerla: “In che senso, apprendista?”
In quelle iridi gialle, aveva letto
la derisione, la minaccia, l’imprevedibilità, ma, soltanto in quel
momento, vi vide balenare una saggezza quasi malinconica, come se,
all’improvviso, l’essere millenario avesse preso il sopravvento sullo
spirito dispettoso: “Ascoltami bene, corvetto, e rifletti. Perché
nessuno ti ha fermato, quando hai detto che saresti venuto qui a fare
un'offerta per convincermi a proteggere il vostro raccolto?”
Shoji ci aveva provato, con quella
sua quieta preoccupazione, ma non era bastato per convincerlo a
rinunciare, sicuro com’era che le leggende raccontassero la verità:
“Speravano che ci riuscissi?”
Non ne era convinto neppure lui,
ancora prima che la kitsune scuotesse la testa ad orecchie abbassate,
perché ogni parola che stava per dire gli pesava come un macigno sulla
lingua: “Mi piacerebbe lasciartelo credere. La verità è che stavano
cercando di liberarsi di te, corvetto.”
Sentì l’ombra contorcersi, affamata
del suo dolore: nessuno, al villaggio, poteva pensare questo di lui. Di
sicuro non Shoji, la sua coscienza e la sua ombra, quella che non era
crudele e indomabile. Neppure Kaminari, che pure era il primo a
prendersi i suoi rimproveri, quando si nascondeva a dormire al fresco
nei magazzini invece di partecipare alla potatura, o quando faceva
morire ogni innesto che aveva la sciagura di finire tra le sue mani:
“Non è vero.”
La kitsune incrociò le braccia
nelle maniche dell’haori: “Mi spiego meglio, in maniera più… umana,
diciamo così. Non è che ti detestino o altro, corvetto, sia chiaro.
Però, di sicuro, anche loro hanno iniziato a percepirla e, forse,
proprio perché ti vogliono bene così come sei, hanno deciso che
mandarti da me nella foresta ti avrebbe aiutato a imparare a
controllarla. A dominarla prima che si impadronisca del tutto del loro
corvetto. Dopotutto, credono davvero in te e nelle leggende che tu hai
raccontato.”
“Di… di cosa parli?” balbettò, e
non sapeva più se faceva fatica a respirare per ricacciare in gola le
lacrime, o se perché l’ombra nel suo petto non era mai stata così
selvaggia e priva di freni.
“Mi sta dando il tormento da quando
hai oltrepassato il torii, quella maledetta ombra”: la kitsune digrignò
i denti, il pelo della coda ritto come se fosse stato percorso da un
fulmine, “Il fatto che tu sia riuscito a sopportarla fino a oggi, senza
un addestramento spirituale e senza che la tua umanità ne venisse del
tutto divorata, mi dice che sarai un ottimo apprendista, Fumikage
Tokoyami.”
Cercò di ritrarsi- l’ombra cercò di
ritrarsi, per la prima volta era lei a provare paura-, nel momento in
cui la kitsune appoggiò il palmo aperto sul suo petto, all’altezza del
cuore. Fu come essere travolto dalle onde di risacca in riva
all’oceano: l’ombra si contorse, dilaniando la pelle che la conteneva,
tentò di esplodere nella carne per spezzare l’incantesimo, poi si
quietò di colpo, intorpidita nel retro della sua mente. Nel silenzio
desolato del tempio, faticava a ricordare l’ultima volta in cui si era
sentito davvero solo, senza l’ombra a manovrare i suoi pensieri, a
provare i sentimenti al suo posto.
Si ritrovò steso a terra, e il
dolore alla schiena servì almeno a riportarlo alla realtà: “Avresti
potuto avvisarmi che sarei svenuto.”
La kitsune gli spazzolò via la
polvere dalla testa con il lembo candido della manica: “Vedila così, ho
dovuto usare gli ultimi sprazzi di magia rimasta nella sfera per
metterla a nanna e far ricrescere tutto il vostro raccolto distrutto.
La caduta è stato il danno collaterale, corvetto.”
Quello spirito bizzarro aveva
ragione, non poteva fare ritorno al villaggio prima di aver imparato a
controllare l’oscurità che celava dentro, troppo a lungo ignorata. E
poi, adesso aveva un vero debito con il guardiano della foresta, e non
sarebbe bastato né un cartoccio di tofu fritto, né un vassoio di
yakitori a ripagarlo. Shoji avrebbe dovuto aspettarlo al limitare del
bosco ancora per un po’.
Si rimise in piedi, appoggiandosi al suo braccio: “Quando cominciamo?”
“Subito, c’è da mettere in ordine
questa schifezza di posto da cima a fondo, non possiamo mica vivere in
una tana per i topi!” strillò la kitsune, allargando le braccia a
indicare il tempio mezzo crollato attorno a loro. Quindi, sorrise, di
quel sorriso astuto che lo faceva sembrare infantile e antico allo
stesso tempo: “Un nome per un nome, corvetto. Se lo desideri, puoi
chiamarmi Sommo Spirito Guardiano e Perfettissimo Maestro Keigo Takami.”
“Maestro Takami andrà benissimo”
concluse, asciutto, rimediando una linguaccia e un soffio irritato:
“Sai essere un allievo davvero noioso, corvetto.”
§§§
C’era una volta, nel folto del bosco, un tempio abbandonato, dedicato al dio Inari…
“Allora, corvetto, cosa ti sembra più adatto all’occasione? Fantasia di camelie o fantasia di nuvole?”
Sollevò il pennello dalla carta
insieme allo sguardo: il maestro si stava pavoneggiando in mezzo alla
stanza, agitando i due haori dai colori vivaci come vessilli di un
esercito in marcia: “L’occasione sarebbe..?”
La bocca del maestro formò un
cerchio perfetto, come se fosse stato tracciato da un abile calligrafo:
“La festa del dio del fuoco sotto il vulcano, corvetto, non dirmi che
te ne sei dimenticato?”
Posò il pennello e passò
rapidamente in rassegna le carte sparpagliate sul tavolino da
scrittura: “Non siamo stati invitati a quel ricevimento, Maestro
Takami.”
Il maestro gli fece l’occhiolino, e
lui seppe che, almeno per quel giorno, non sarebbe riuscito a finire di
scrivere la propria storia in pace: “È proprio per questo che ci
andiamo, corvetto!”
(*)
Tawara Tōda è il protagonista di una leggenda giapponese, secondo la
quale ebbe in dono una borsa di riso che non si svuotava mai da una
principessa (in altre versioni, un’ancella o una dama) del Palazzo del
Drago sottomarino, come ricompensa per aver ucciso una scolopendra
gigante (mukade).
|