Touch me
Take me to that other place
Reach me
I know I'm not a hopeless case
What you don't have, you don't need it now
What you don't know, you can feel it somehow
What you don't have, you don't need it now
Don't need it now
(Beautiful Day, U2)
***
Tom
era
stanchissimo. Il viaggio da Amburgo a Berlino era stato
tranquillo e
tutto sommato anche abbastanza indolore, ma lo aveva distrutto lo
stesso.
Aveva pensato bene di inaugurare
l’arrivo nella capitale
provocando a Benjamin una bella incazzatura con una sequela di
lamentele e
imprecazioni non esattamente eleganti, guadagnandosi così
una bella strigliata
inerente il comportamento da tenere in presenza di persone esterne allo
staff e
le varie conseguenze. A coronare il tutto, c’era stato anche
il pessimo umore
di Bill, causato da nessuno sapeva bene cosa, che aveva messo addosso a
Tom
un’ulteriore dose di stress non richiesto. Si preoccupava
sempre quando Bill
aveva la luna di traverso.
Passeggiava a vuoto nella propria
suite al quinto piano
dell’hotel, una lattina di birra in mano e il cellulare
nell’altra per
ripassare gli appuntamenti che lo aspettavano nei prossimi giorni.
Decisamente
troppi, per i suoi gusti.
Erano le undici passate e fuori il
cielo era di un blu scuro
senza stelle, lambito lontano all’orizzonte dalle ultime
sfumature schiarite
dai raggi del sole ormai tramontato da un pezzo. Nevrotico
com’era, Tom sentiva
che se non avesse fatto quattro passi all’aria aperta sarebbe
impazzito. Uscire
era fuori discussione. Non voleva rischiare
l’incolumità, e portarsi dietro una
guardia del corpo sarebbe stato imbarazzante, visto il suo stato
esagitato.
Aveva bisogno solo di rilassarsi.
Decise che come compromesso si
sarebbe fatto quattro passi
dentro all’hotel. Era la prima volta che alloggiavano
lì e sembrava un posto
carino. Avrebbe fatto un giro di perlustrazione casuale, tanto per
sgranchirsi
le gambe e fare qualcosa, e poi gli sarebbe toccato tornare in camera e
cercare
di prendere sonno sopra quell’impossibile materasso marmoreo.
Vuotò la lattina di birra
in un sorso e la abbandonò sul
tavolino del salotto, poi ne prese un’altra dal frigobar e,
risoluto, afferrò
la tessera magnetica e uscì.
I corridoi dell’albergo
erano letteralmente deserti.
Scendere nella hall sarebbe stata un’idea poco intelligente:
avrebbe potuto
trovare Benjamin e qualcun altro al piano bar e proprio non gli andava
di
rischiare qualche altra ramanzina. Senza un perché, prese
l’ascensore e
selezionò l’ultimo piano. Quando le due porte si
spalancarono davanti a lui,
Tom si ritrovò in un piano meno sontuoso degli altri, con i
pavimenti coperti
di piastrelle anziché di moquette e le pareti prive di
quadri, ma in compenso
dotate di anonima lampade al neon, di quelle che restavano accese anche
in
assenza di corrente.
In fondo al corridoio, stretto e
corto, Tom notò che c’era
una porta blindata con un maniglione antipanico, con sopra affisso un
cartello
che diceva ‘Divieto d’accesso’. Lo
fissò per qualche secondo, indeciso sul da
farsi, poi, infilandosi le mani nelle tasche della felpa, si
avvicinò.
Un ragazzo qualunque dotato di un
minimo di buonsenso ci
avrebbe pensato due volte prima di aprire una porta che era vietato
usare,
salvo in condizioni di emergenza, ma Tom si disse che non
c’era niente di male
a sfruttarla per una buona causa. In fondo la sua era in qualche modo
un’emergenza.
Senza togliere le mani di tasca,
sollevò un ginocchio e
spinse contro la barra, accorgendosi che in realtà la porta
era già aperta; la
spalancò e si ritrovò di fronte a un vasto
spiazzo di cemento recintato da una
ringhiera in ferro battuto piuttosto spartana. Uscì,
lasciando la
provvidenziale lattina ancora chiusa a terra, per impedire che la porta
si
chiudesse. Avrebbe dovuto rinunciare alla seconda razione di alcol, ma
se non
altro non se ne sarebbe rimasto chiuso fuori all’addiaccio
tutta la notte.
Respirò volentieri e a
pieni polmoni l’aria frizzante della
notte. Era quello che gli ci voleva per il senso di spossatezza che non
gli
dava tregua. Si accese una sigaretta e si stiracchiò un
po’, guardandosi intorno.
L’ingresso al tetto era una specie di cubo situato nel mezzo
di un enorme
quadrato che correva tutto intorno. Aveva appena girato sui tacchi per
andare a
vedere cosa c’era sull’altro lato, quando collise
con qualcosa di morbido, che
si lasciò sfuggire un’imprecazione che lui non
comprese.
Dopo il primo attimo di smarrimento,
arretrò di un passo,
mettendo a fuoco una figura alla luce della luna piena: si trattava di
una
ragazza, o così sembrava. Era alta una spanna buona meno di
lui, con una folta
chioma di ondulati capelli di un innaturale rosso vermiglio. Portava
una strana
gonna viola a balze e un’assurda felpa rosa fluorescente, ma
Tom non riusciva a
vederle il viso, perché era china sui propri piedi,
apparentemente paralizzata.
Tom guardò in
giù e capì cosa non andava: su uno dei due
anfibi che lei portava era finito un mucchietto di ceneri incandescenti
che non
poteva che provenire dalla sigaretta che lui stava fumando. Sotto alla
cenere,
la pelle nera era visibilmente bruciacchiata.
“Oh, scheisse!”
esclamò, dispiaciuto. Non si era proprio
aspettato che ci fosse qualcun altro, anche se, pensandoci, la porta
aperta
avrebbe dovuto dirgli qualcosa. “Entschuldigung!” (“Oh,
merda! Scusami!”)
“Maledizione!”
imprecò lei, con una voce da ragazzina.
Parlava inglese. Forse non era tedesca. Tom si adeguò,
pregando di non fare
figuracce con la transizione linguistica:
“Scusa, non ti avevo
proprio vista!”
“Oh, grandioso!”
brontolò la sconosciuta, sfregando
febbrilmente la bruciatura. Tom notò che aveva una scritta
disegnata a
caratteri svolazzanti sul polso destro. “Due settimane di
attesa, ordine
diretto dagli Stati Uniti, l’ultimo paio del mio numero,
centodieci euro! Li
avevo da solo una settimana, e sono rovinati!” Si
tirò su e piantò due fiammeggianti
occhi scuri su di lui. “Ma che cos’hai in quel
maledetto cervello bacato?!”
Tom si strinse nelle spalle,
intimidito. Che caratterino che
aveva, quella…
“Scusami. Stavo
–”
“La vuoi piantare di
scusarti?” sbottò lei, scalciando a
vuoto con il piede per eliminare gli ultimi residui di cenere.
“Fino a due
volte va bene, a tre diventa irritante.”
“Scu– Ehm…
D’accordo.”
“Si può sapere
cosa ci fai quassù?” lo interrogò la
tizia. A
guardarla meglio, Tom notò che doveva essere poco
più grande di lui. “C’è
scritto ‘Divieto d’accesso’.”
“Potrei fare a te la stessa
domanda.”
Lei scrollò semplicemente
le spalle. “Riflettevo.”
“Riflettevi tipo ‘Mi butto o non mi
butto?’ o tipo ‘Cosa mangio
stasera?’”
“Una via di mezzo.” Rispose lei, sedendosi a terra,
la schiena contro il muro. “E
tu?”
Tom la imitò.
“Una via di mezzo tendente alla prima opzione.”
Rispose, sistemandosi accanto a
lei, una volta appurato che non lo avrebbe squartato vivo per via
dell’incidente. Sembrava essersi calmata.
“Ma non mi dire. Perché ti dovresti
buttare?”
“Ma tu lo sai chi sono io?”
Lei inarcò un sopracciglio
in modo irritante, imbronciando
leggermente le labbra, coperte da un vistoso velo di rossetto scarlatto.
“Volevo evitare la parte in cui io strillo il tuo nome
stramazzandoti adorante
ai piedi e tu scappi a gambe levate,” gli confidò
in tono annoiato. “Ma visto
che ci tieni… Ciao, Tom Kaulitz.”
Tom era sinceramente perplesso e
quella ragazza era
decisamente strana. Strana non solo nel modo di vestirsi e di porsi.
Era
proprio strana. Strana e basta.
“Ciao…
ehm…?”
“Ah, giusto,”
sbuffò lei. “Suppongo che tu non sappia chi
sono io.”
A dire la verità non era
proprio così. Sebbene fosse
assurdo, Tom aveva la sensazione di conoscerla.
“Non vorrei dire cazzate, ma hai un’aria
inspiegabilmente familiare. Sono
sicuro di averti già vista.”
“Vediamo se con questa mi riconosci.” Disse la
ragazza. Tirò fuori una
mascherina di pizzo nero – dal nulla, o così parve
a Tom – e se la mise davanti
agli occhi.
Improvvisamente Tom
ricordò dove l’aveva già vista: su dei
cartelloni pubblicitari che promuovevano una saga di libri fantasy che
stava
spopolando da un paio d’anni a quella parte. Aveva anche
sentito parlare di
lei, da qualche parte.
“Sei la scrittrice! Quella
tizia belga che ha scritto quei
libri sui vampiri!”
“Sono olandese,
veramente,” lo corresse lei, asciutta. “E
non scrivo di vampiri, ma di lupi mannari.”
“Mi sfugge il tuo nome.”
“Norja Schwartz.” Gli porse la mano senza troppa
convinzione. “Incantata.”
Tom si trattenne a stento dal ridere.
Nome bizzarro.
Probabilmente era un nome d’arte.
“Quella te la puoi togliere, adesso.” Le disse,
accennando alla maschera.
“Sì, scusami.” Norja si tolse la
maschera e se la mise in tasca. “Sono talmente
abituata a portarla che non ci faccio più caso.”
Era carina, tutto sommato. Non
possedeva quella che si
poteva definire una bellezza convenzionale, ma era attraente. I suoi
lineamenti
avevano un che di orientale – occhi allungati e neri, naso
piccolo e poco
sporgente, labbra fini, viso triangolare – e nonostante la
scarsa statura,
sembrava piacevolmente proporzionata.
Rimasero in silenzio per lunghi
secondi, entrambi guardando
la città che brillava nel buio.
Tom trovava la situazione ai limiti
del surreale: era sul
tetto di un hotel, di notte, seduto per terra con un’alquanto
estrosa scrittrice
di fama che a quanto pareva aveva un’idea abbastanza precisa
di chi lui fosse e
che tuttavia non dava segni di isteria o collassi imminenti. Tutto
sommato la
cosa poteva avere qualche suo potenziale positivo.
“Me la togli una curiosità?” le chiese a
un tratto.
“No.”
“Perché ti nascondi dietro a una
maschera?”
Norja gli appioppò
un’occhiata omicida:
“Sbaglio o avevo detto di no?”
“Ero solo curioso.” Si difese Tom. “A
dirti la verità, penso che sia una mossa
astuta. Potendo tornare indietro, lo farei anch’io.”
“Nasconderti dietro a una maschera?”
“E cambiare nome.”
Norja batté
interrogativamente le ciglia.
“Dai, è ovvio che non può essere il tuo
vero nome.” Disse Tom. “Ha un
significato particolare?”
Lei parve soppesare la domanda, come
se stesse decidendo se
degnalo o meno di una risposta.
“Schwartz come nero, il mio colore
preferito,” disse infine. “Ma dubito ti
servano delucidazioni in merito. Norja significa Norvegia in
finlandese, un
paese e una lingua che adoro.”
“Sei proprio
fantasiosa.” Commentò Tom, increspando la
fronte.
“Ti concedi un po’ troppo sarcasmo per conoscermi
da solo due minuti,
ragazzino.”
“Ragazzino a chi?”
“Vedi qualcun altro qui a cui io mi possa
rivolgere?”
“Perché, quanti
anni hai tu?”
“Più di te.”
“Quanti?” insisté Tom. A occhio e croce
gliene dava ventitré, massimo
ventiquattro. Non poteva avere più di un paio
d’anni più di lui.
“Sei un bel cafone!” si indignò lei.
“Non ti hanno mai detto che non si chiede
l’età ad una signora?”
“Vestita così mi sembri tutto fuorché
una signora. E comunque hai cominciato
tu.”
Norja sostenne il suo sguardo di
sfida, ma alla fine
cedette:
“Venticinque anni da
compiere in autunno. Contento?”
“Allora non sei vecchia come sembri.”
“Riporto alla tua attenzione il commento sugli eccessi di
sarcasmo.”
“Hai Tom Kaulitz qui con te, non puoi soprassedere sul
sarcasmo?”
“Cosa ti fa pensare che
avere qui Tom Kaulitz sia tanto
diverso da avere qui Pinco Pallino?”
“Non farmi ridere!” ribatté lui.
“Hai una french manicure nera alle unghie, la
scritta Heilig tatuata sul polso e….” Tom finse di
scrutare attentamente il suo
sguardo. “Oh, guarda! Nei tuoi occhi c’è
scritto ‘I love Tokio Hotel’!”
Un impercettibile
fremito solleticò che labbra di Norja, ma lei
non si lasciò scappare il
sorriso che Tom aveva già intuito.
“Continuo a sostenere che
ti stai prendendo un po’ troppa
confidenza.” Lo rimproverò, ma questa volta
c’era un inconfondibile nota di
vivacità nel suo tono.
“Guarda che non ho mica intenzione di saltarti addosso e
violentarti.” La
rassicurò. “Non sei nemmeno il mio tipo.”
“Ti mette a disagio parlare con ragazze che riescono a
dialogare con te anziché
sbavarti addosso?”
“Come siamo acide… Prova a fare sesso, ogni tanto,
aiuta molto contro lo
stress.”
Norja si avvolse le ginocchia con le
braccia e lo fissò con
un’espressione inquisitoria
“Sei esattamente come ho
sempre immaginato che fossi.”
Tom sfoderò un sorriso
seducente.
“Bellissimo e
irresistibile?”
“Un impostore.”
Tom si sentì personalmente
offeso. Forse non era un campione
di spontaneità, in pubblico, ma non poteva accettare di
farsi dare
dell’impostore.
“Tu mi odi.” La
accusò, mettendo il muso.
“Cosa te lo fa
pensare?” domandò lei con assoluta innocenza,
ma c’era una vaga sfumatura di rosa sulle sue guance candide
che diceva a Tom
che la sua non era un’ipotesi poi così campata per
aria.
“Perché?”
“Perché
cosa?”
“Perché mi odi?”
Il rossore sulle guance di Norja si
intensificò.
“Non è vero che ti odio. Non ti conosco
nemmeno”
“Vuoi farmi credere che sei così scontrosa con
tutte le celebrità che
incontri?”
“Sì.”
“Chissà che toccasana per la tua immagine
pubblica!”
“Sempre meglio che andare
in giro a raccontare patetiche
balle monumentali sulla propria vita sessuale.”
Tom emise un debole rantolo
frustrato. Ma perché le donne
volevano a tutti costi disintegrare la sua autostima?
“Questa si chiama offesa
gratuita.” Si lamentò, incrociando
capricciosamente braccia e gambe.
“Te la sei
cercata.” Sostenne Norja. Aveva lo sguardo perso
nel vuoto davanti a loro, pensoso.
“Stai ancora riflettendo sul ‘mi butto o non mi
butto?’, per caso?”
“No,
perché?”
“Ti avrei volentieri dato una mano a scavalcare la
ringhiera.”
Norja si lasciò finalmente
andare in una risata divertita.
“Suppongo di doverlo
considerare un gesto di premura.”
“Certo!” Tom era
soddisfatto di essere finalmente riuscito a
smuoverla da quel suo fastidioso atteggiamento distaccato.
“Io odio quando nei
film c’è sempre qualche idiota con manie di
eroismo che tenta di far cambiare
idea all’aspirante suicida. ‘Avanti, va tutto bene,
dammi la mano!’… Insomma,
lasciatelo in pace! Ci sarà qualche valido motivo se quel
poveretto vuole
saltare, no?”
Norja rise di nuovo, con
più discrezione. Aveva una risata
buffa, ma gradevole. Se non altro non sembrava una gallina su di giri.
Era stata una buona idea, in fin dei
conti, optare per una
passeggiatina notturna. E poi, doveva riconoscerlo, era rilassante
dialogare
con quella ragazza.
“Cosa
c’è giù ad aspettarti?”
Tom cascò dalle nuvole.
“Come, scusa?”
“Giù di sotto.” Specificò
Norja. “Cosa ti aspetta, uscito di qui? Sei qui da un
quarto d’ora a scambiare carinerie con una che è
ovvio che non sopporti, o
sopporti a stento… Da cos’è che stai
scappando?”
Tom spense il mozzicone di sigaretta
contro il cemento del
suolo, lasciandolo poi cadere.
“Da un manager incazzato nero, un letto scomodo e un fratello
con la sindrome
premestruale.”
“Ah, brutta, quella!” esclamò Norja,
comprensiva. “Te lo dice una che ce l’ha
trecentosessantacinque giorni all’anno.”
Tom rise.
“Immagino che vita facile
avrà il tuo ragazzo.”
“Non ce l’ho.” Ammise Norja, sollevando
le spalle.
“Ah no?” Tom era stupito. Per qualche motivo aveva
dato per scontato che fosse
impegnata. “Come mai?”
“Che c’è?” fece lei, sulla
difensiva. “È obbligatorio essere accoppiati? Da
quando serve una scusa per essere single?”
“Come sei permalosa! Ero semplicemente sorpreso, tutto
qui.”
“Il mio ultimo, delizioso ragazzo mi ha lasciata un anno fa
per una bionda del
suo corso di dottorato.” Gli raccontò lei, atona.
“Simpatico.”
“Bene,” Norja si alzò in piedi, si
tirò su le maniche della felpa con un gesto
sgraziato e si avvicinò al parapetto, guardando in
giù. “Ora che mi hai fatto
rivangare questi bellissimi ricordi, credo di non avere più
bisogno di
riflettere sul ‘mi butto o non mi
butto?’.”
“Bitte, spring
nicht!” la pregò Tom, ridendo, senza nemmeno
alzarsi a sua volta.
Norja si voltò, le mani
appoggiate alla ringhiera, e sollevò
un sopracciglio:
“Come sarebbe a dire
‘Spring nicht’? Fino a due minuti fa
volevi buttarmi giù tu!”
Tom finalmente si decise a tirarsi su
e la raggiunse. In
lontananza riuscivano a vedere la Porta di Brandeburgo, illuminata da
potenti
riflettori.
“È che mi sono appena reso conto che
c’è la terrazza della mia suite, da questa
parte.” Le rivelò, indicando il grande balcone che
sporgeva un qualche metro
sotto di loro. “Se cortesemente tu volessi buttarti
dall’altro lato, potresti
comodamente sfracellarti sulla terrazza della suite di Georg.”
Una folata di vento
scompigliò i capelli di Norja mentre lei
sollevava le braccia sopra la testa e si stiracchiava.
“Penso che andrò
a buttarmi nel mio letto prima che accada
l’irreparabile.” Dichiarò.
“Cioè prima che ci finisca io sfracellato sulla
terrazza di Georg?” indovinò
Tom.
“Prima che io mi innamori della tua brillante prontezza di
spirito.” Rispose
lei, e lui non capì se fosse seria o meno. Probabilmente no.
“Ti facevo meno
sveglio, lo ammetto.”
“E te ne vai
così?” protestò lui, mentre lei
già gli dava le
spalle per dirigersi alla porta. La vide fermarsi a metà
strada e girarsi:
“Volevi un bacio della buonanotte?”
Tom sollevò entrambe le
mani e scosse la testa.
“Oh, no, grazie. Il tuo rossetto si intona male con questa
maglietta.” Azzardò una
fugace ammiccata, che lei accolse volgendo pazientemente gli occhi al
cielo. “Magari
la prossima volta, con un rossetto diverso o una maglietta
diversa.”
“O senza rossetto.” Suggerì lei.
“O senza maglietta.” Le fece eco lui, soave.
Norja rimase ferma dov’era
per un po’, la gonna e i capelli
che ondeggiavano ad ogni alito di vento. Lo scrutava in modo insolito,
a metà
strada tra il sospetto e il compiacimento. Forse non le stava poi
così
antipatico come credeva lui.
“Buonanotte, Tom
Kaulitz.” gli augurò alla fine,
avvolgendosi con le sue stesse braccia, poi raggiunse la porta.
“Buonanotte, Norvegia
Nera.” Le disse Tom, appena prima che
lei entrasse. Norja si voltò di nuovo, gli mostrò
la lingua e poi sparì oltre
la sua visuale.
Tom rimase lì, appoggiato
con i gomiti alla ringhiera, faticando
a capacitarsi di quanto era appena successo.
Aveva davvero passato mezzora a
chiacchierare di
insensatezze con una perfetta sconosciuta? Ed era possibile che quella
stessa
chiacchierata, durante il quale era stato maltrattato come raramente in
vita
sua gli era capitato, gli fosse piaciuta?
Scosse la testa, incredulo. Non le
aveva nemmeno chiesto
quanto a lungo sarebbe rimasta lì.
Ridacchiando fra sé,
andò a recuperare la lattina di birra e
rimase a bersela lì sulla soglia. Se non altro il malumore
gli era passato.
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Note:
so
che per voi questa storia sarà una sorpresa, ma in
realtà lo è stata anche per
me! XD
Qualche giorno fa Lady Vibeke mi ha
parlato di quest’idea
che aveva per una storia in stile commedia, e mi è piaciuta
subito, ma siccome
lei sostiene di non avere tempo e ispirazione per scriverla, le ho
chiesto se
potevo “adottarla” e scriverla io. Dato che ho
gentilmente avuto il permesso,
eccomi qui!
Come sempre, il capitolo introduttivo
è un po’ breve, ma gli
altri saranno più lunghi. Vi devo premettere che si tratta
di una storia molto,
molto diversa da Lullaby For Emily e The Truth Beneath The Rose.
È una ff
completamente a sé stante, da leggere senza gli impegni
profondi e psicologici
delle altre mie creature. È una commedia scritta per
sorridere e ridere, senza
impegni, scritta anche in modo molto più leggero, diverso
dal mio solito stile.
Spero comunque che potrete apprezzarla lo stesso. ^^ Non
sarà lunghissima,
cinque o sei capitoli al massimo, quindi non aspettatevi
chissà che. ;)
Per ora spero che abbiate gradito la
lettura e che la
troviate meritevole di un commento. ^^
Alla prossima!
P.S. grazie di cuore a Lady Vibeke per avermi fatto l'immagine di presentazione della storia e a Irina_89 per avermi aiutata a spulciare la rete alla ricerca di innagini che somigliassero a Norja! ;)
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