That Love Is All There Is - Slytherin's Blood [MARAUDERS]

di Terre_del_Nord
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NdA:
Ciao a tutti, rieccomi dopo circa tre anni a rimettere mano alla storia. Mi spiace essere sparita ma è stato un periodo caotico e duro, durante il quale anche se scrivevo parecchio non avevo la serenità d’animo per studiare e incastrare bene la trama ed esprimermi al meglio, per questo non me la sono sentita di pubblicare qualcosa che alla fine non mi convinceva.
Ma veniamo al presente. Ho lasciato il racconto a metà di una battaglia, ho immaginato che riprendere da lì darebbe una sensazione di straniamento, catapultati in mezzo a qualcosa di cui non si sa più né il come né il perché; tempo fa, ne ho parlato sul gruppo FB e lì mi è stato chiesto di fare un riassunto: ho accolto la richiesta “a modo mio” nel senso che ho deciso di raccontarvi una storia che ancora non conoscete, mentre vi ricordo anche dove ci siamo lasciati. Questi primi nuovi capitoli sono infatti il terzo intermezzo di That, è fatto di amori, intrighi e follie varie che coinvolgono alcuni degli adulti di cui so amate leggere e in particolare è dedicato a Fear, un personaggio misterioso che ha intrigato parecchi di voi. Che c’entra fare una digressione adesso? dirà qualcuno. La trama ora è ferma, mettere questo intermezzo ora mi permette di fornire dettagli e fatti utili alla trama che verrà, senza dover interrompere poi di nuovo la storia tra qualche capitolo, e  di fare un ripasso "arricchito" da un punto di vista alternativo, dando il tempo a chi vuole di rivedersi più o meno in dettaglio dove siamo rimasti… Il capitolo finale di questo intermezzo sarà infine il capitolo che aspettate da tre anni, perché la trama dell’intermezzo finisce dove riprende la storia, la battaglia finale sulla spiaggia di Morvah.
Bon, spero che queste prossime pagine vi appassionino come in passato e che la mia capacità di rendere questo mondo non si sia arrugginita troppo durante questa pausa lunghissima. A presto. Valeria

NB: In questo primo capitolo troverete tanti nomi impronunciabili, non sono impazzita, sono il nome in forma gaelica scozzese di varie località reali della Scozia: Herrengton come sapete non esiste, è frutto della mia fantasia ma quando ho cominciato a scrivere, tanti anni fa,
senza saperlo ho descritto luoghi che assomigliano molto a luoghi reali: vi lascio alle note finali per i dettagli.
 




That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Intermezzo III - LIES - Parte prima 

intermezzo III.01



Il moccioso di Inverawe
Herrengton, Scourie - lun. 26-29 ottobre 1908

La barca toccò riva al tramonto.
Dinanzi a noi, ad oriente, sopra le colline, pulsavano le prime stelle autunnali nel cielo nero di novilunio; alle nostre spalle, l’incendio che aveva acceso isole e scogli, quando l’ultima falce di sole si era inabissata in mare, si smorzava in un tripudio di blu e viola.
Le nebbie ci avevano accompagnato per tutto il viaggio da Miughalaigh (1) a Steornabagh (2) e, dopo quattro giorni, quel mattino, si erano a poco a poco diradate, permettendoci la traversata fino alla baia di Bada Call (3): l’antica Magia del Nord proteggeva le Terre da nebbie e tempeste, durante i Sabbath, così che nessun Mago mancasse alle celebrazioni o incorresse in qualche incidente; al di fuori dei riti, però, solo l’abilità del nocchiero nel dominare la Magia delle Rune, incise sul legno della barca, poteva salvare i viandanti dalla furia del mare e degli altri elementi.
Come un mantello, l’oscurità dalle alture piombò rapida su di noi. La spiaggia, stretta e rocciosa, sparì tra i massi, accatastati a formare un’alta, minacciosa scogliera: cercai con lo sguardo, mosso da curiosità ma, da quella riva dalla prospettiva stretta, non era possibile intuire neppure la sagoma del maniero degli Sherton. Durante l’ultima parte del viaggio, mentre in silenzio risalivamo la costa fino agli archi di roccia di Sgobhairigh (4), non avevo staccato gli occhi dal profilo delle colline, sperando di intravedere da lontano le leggendarie torri di Herrengton stagliarsi contro il cielo ma le sommità dei rilievi erano rimaste tutto il tempo nascoste da una tenace coltre di nubi basse, immobili, innaturali.
E ora, mentre faticavamo per tirare in secca la barca e il mare ingrossava fin oltre le mie ginocchia, era l’aria che respiravo a sembrarmi ferrosa e opprimente: un’oscurità profonda, palpabile, che poco aveva a che fare con la notte, permeava ogni cosa attorno a noi, soffocante. Mio nonno ci raccontava, davanti al fuoco, delle antiche maledizioni che nei secoli erano state lanciate a difesa del maniero degli Sherton e di come i boschi che proteggevano Herrengton fossero brulicanti di creature magiche e sortilegi potentissimi, al punto che, per quanto nel loro mondo i Babbani la distruggessero, nel nostro la foresta che ricopriva quelle terre restava intatta e impenetrabile, come al tempo dei Daur (5).
Fu allora, mentre ripensavo a quei racconti, che lo vidi: alla nostra destra, tra gli alberi, apparve un vecchio immerso in una luminosità lattiginosa, irreale. Vestiva una lunga tunica grigia che si muoveva lieve alla brezza, come la folta criniera di capelli bianchi, sciolti sulle spalle, la cui attaccatura, a punta al centro della fronte, dava una forma a cuore al suo viso rugoso, cotto dal sole, e punteggiato da due profondi occhi d’acciaio, fissi su di me. Muto, teneva alta una lanterna nella mano destra e nella sinistra, quasi abbandonata a terra, una bilancia dai bracci piegati verso il basso (6). Mi fissò arrancare tra gli scogli, mentre frammenti di conchiglia laceravano le mie carni e il mio sangue si mescolava all’acqua; come misi il piede sulla sabbia, le braccia della bilancia si raddrizzarono, e l’uomo mormorò a fior di labbra qualcosa che non sentii, i suoi occhi così carichi di risentimento che i peli mi si rizzarono dalla paura. Infine sparì, insieme alla luce, in silenzio com’era apparso.
Mio padre, un uomo taciturno che mal tollerava le intemperanze dei suoi figli, durante quel viaggio era stato persino più ombroso del solito ed io sapevo che non era il caso di infastidirlo, eppure, scosso dalla visione del vecchio, lo presi per la manica della tunica e lo feci voltare verso di me.
 
    «Cosa vuoi? Lasciami immediatamente!»
    «L’avete visto anche voi, vero? Chi era quell’uomo, padre?»
    «Io non ho tempo da perdere con le tue sciocchezze, muoviti, ci stanno aspettando!»
    «C’era un vecchio là in fondo, sulla spiaggia, è impossibile che voi non l’abbiate visto!»
    «Non c’è nessuno, fine della discussione! E ora svegliati, o ti sveglio io con la frusta!»
 
Mio padre, ostinato, non alzò lo sguardo nella direzione che gli indicavo, s’impegnava, anzi, a non guardare neppure me. Ripresi a camminare dietro di lui voltandomi ancora e attardandomi, finché perse del tutto la pazienza e mi tirò un manrovescio, poi mi prese con forza il braccio e mi trascinò per il sentiero in salita che si apriva tra gli alberi.
Mi imposi di ricacciare indietro le lacrime, insieme all’odio, pregando in cuor mio di avere presto l’occasione di fuggire via, lontano da lui.
 
*
 
Un tempo, quando era convocata a Herrengton, la mia famiglia poteva contare sui Draghi. Sarebbe piaciuto anche a me averne uno, e non solo perché in quel momento mi sentivo morire, con le piaghe ai piedi e le ferite sulle gambe, la fame e il fiato ormai esaurito: l’arrampicata sulla scogliera, a perpendicolo sul mare di nuovo in tempesta, si faceva sempre più dura, la foresta si infittiva e strane voci e sagome sinuose provavano a distrarmi e sottrarmi al controllo di mio padre.
«Ci sono potenti e antichi spiriti in quella foresta…» diceva mio nonno, sornione, «Gli spiriti di vecchi rimbambiti e ragazzini stupidi che hanno fatto una brutta fine per non aver ubbidito ai genitori!», bofonchiava mio padre, infastidito dal nostro chiacchiericcio e dalla nostra complicità.
I Draghi erano il mio sogno da che avevo ricordi, anche se i morsi della fame, il freddo, la vita raminga avrebbero dovuto spingermi a sognare piuttosto una casa e un pezzo di pane. E soprattutto insegnarmi a restare con i piedi per terra. Le leggende che mio nonno raccontava a mio fratello Fergus e me, invece, sul venerabile delle Innse Gall che aveva sottratto Habarcat a quei debosciati dei Maghi del Sud, per portarla nelle Terre in groppa al suo Nero delle Ebridi (7), fomentavano i miei sogni di bambino.

*

I Draghi erano il mio sogno ma il tempo dei Draghi, per la mia gente, era finito ben prima delle restrizioni introdotte dal Trattato di Segretezza Magica. C’era stato un tempo in cui la Confraternita era stata divisa, i Maghi in lotta e gli Sherton erano caduti in disgrazia; la mia famiglia aveva fatto l’errore di schierarsi con loro, restando coinvolta per secoli in guerre e omicidi che ci portarono sull’orlo dell’autodistruzione. In seguito, gli Sherton avevano conosciuto alterne fortune. Per noi, una delle più antiche famiglie della Confraternita, le cose erano invece andate solo peggio.
I guai personali di mio padre, in particolare, avevano condizionato la mia vita fin dalla mia nascita: mia madre era morta nel darmi alla luce, dicevano, mio padre, lo stesso giorno, aveva ucciso due babbani e da allora sulla sua testa pendeva una taglia del Ministero della Magia. Per sfuggire alla cattura, aveva lasciato la nostra casa nell’Earra-Ghaidheal (8), la terra ancestrale dei MacPherson, ma per un attacco di pazzia o di chissà cos’altro, si era intestardito a volere portarci con sé, un vecchio, un bambino e un neonato, condannandoci a condividere con lui per anni una vita dura e precaria, sotto il pericolo costante che qualcuno ci riconoscesse e ci vendesse per una manciata di galeoni.
Dopo un tempo infinito fatto di vagabondaggi tra l’Irlanda e le Na h-Eileanan Siar (9), segnato dagli stenti e dalla paura, il giorno del mio ottavo compleanno ci eravamo materializzati sulle alture di Sgùrr Alasdair (10), un massiccio di An t-Eilean Sgithanach (11) nel pieno delle Terre del Nord, un luogo bellissimo, solitario e impervio perfetto per nasconderci i mesi necessari a preparare mio fratello alle Rune degli 11 anni: in quel periodo, il nonno ci aveva insegnato a riconoscere le tracce e sentire il respiro degli elementi, ci aveva spiegato i riti legati alle Rune e alcuni rudimenti della Magia del Nord. Grazie a lui, col passare delle settimane, avevamo iniziato a governare la nostra Magia finora repressa con potenti pozioni, ed io mi ero sentito orgoglioso, nonostante il solito disinteresse di nostro padre, quando il nonno aveva detto che, pur più piccolo di quasi due anni, il mio potenziale era già pari a quello di Fergus. Era meraviglioso vivere nelle Terre, poter imparare e usare la Magia senza paura, sentire il potere di Habarcat riflettersi nel nostro corpo e nella nostra mente.
La serenità di quel meraviglioso nascondiglio era venuta meno pochi mesi dopo, una sera di inizio estate, quando un gufo ci aveva raggiunti a cena, raccolti attorno al falò: il signore di Herrengton ci avvertiva, quando mio fratello, di lì a poche settimane, avrebbe compiuto 11 anni, l’età della chiamata a Hogwarts, il Decano della Confraternita sarebbe stato costretto dalla Legge a togliergli la Protezione, la Magia imposta alla nascita ai bambini delle Terre per interferire con la Traccia del Ministero. Quando ciò fosse avvenuto, tutti noi saremmo stati immediatamente individuati.
Mio nonno, per anni, aveva implorato quel suo figlio folle e testardo perché ci lasciasse tornare a casa, a Taigh an Uillt (12), a condurre una vita normale, ora mio padre non aveva più scelta, se non avesse ritrovato la ragione, sarebbe finito ad Azkaban; pur riluttante, acconsentì, Fergus ed io eravamo increduli, il cuore diviso tra il disagio per il distacco e il sollievo per la fine di un incubo. Era tutto pronto, ci eravamo preparati ai saluti ai piedi del monte, la mano del nonno protettiva sulla mia spalla, quando mio padre, che aveva in testa una soluzione tutta sua, all’ultimo si avventò su di noi e mi strappò alla presa del suo vecchio, Duncan Liar MacPherson, urlandogli contro frasi irripetibili e minacciose.
 
    «Sparite! Voi due non servite a nessuno, tanto meno a me! Lui invece resta qui, deve sistemare le cose!»
 
Quando estrasse il coltello per puntarlo contro mio fratello, mio nonno cedette e si smaterializzò senza più fiatare, portandosi dietro Fergus in lacrime, io, incredulo, rimasi impietrito dal terrore. Secondo il piano stabilito nei giorni precedenti, il nonno doveva riapparire stanco e provato a Taigh an Uillt con mio fratello e me, attirare l'attenzione dei Ministeriali e fingere che suo figlio Reginald fosse morto; mio padre, da parte sua, doveva continuare a nascondersi su Sgùrr Alasdair fino all’inizio dell’inverno; dopo quanto accaduto, però, forse temendo l’arrivo dei Ministeriali, mio padre mi ordinò di correre più in fretta che potessi lungo il sentiero che conduceva alla spiaggia: una volta lì ad attenderci c’era una barca babbana in cui erano stati nascosti viveri, abiti, la gabbietta con dentro Halix, il gufo di famiglia e, soprattutto, il mantello caldo di pelliccia del nonno. La verità sconvolgente mi trafisse come una pugnalata: non solo mio padre, che aveva sempre dato prova di non volermi tra i piedi, non aveva mai avuto intenzione di lasciarmi andare, ma pareva che il nonno fosse complice di quell’assurdo piano. Non capivo il senso di quella commedia, né come potessi io, un bambino di neanche nove anni, sistemare i loro disastri. Soprattutto non capivo il tradimento del nonno. 

*
 
Erano passate settimane da quella giornata di follia, ormai Fergus doveva essere tornato a casa, anzi, probabilmente era già partito per Hogwarts: mi mancava, mi mancavano i nostri giochi, le nostre chiacchiere e mi mancavano, nonostante tutto, le storie e gli insegnamenti del nonno. La mia vita, oltre a essere difficile e dura com’era sempre stata, era diventata incomprensibile: avevamo raggiunto Miughalaigh, un’isola poco più grande di uno scoglio a sud delle Ebridi in circa una settimana, mio padre aveva detto di volermi con sé per risolvere i suoi problemi ma non vedevo cambiamenti tra noi. In quelle interminabili giornate, inutili e vuote, fatte di solitudine e silenzi, dopo avermi consegnato dei pesci che pescava al mattino perché li cucinassi, mi ignorava per il resto del giorno, preso com’era da una fitta e misteriosa corrispondenza che lo rendeva, se possibile, ancora più nervoso. Di notte, sotto il cielo terso e gelido, con la pancia che gorgogliava dalla fame, mi arrotolavo nel mantello del nonno, vicino al fuoco, nel vano tentativo di difendermi dal vento che dall'oceano spazzava ogni cosa.
Prima o poi non mi sarei svegliato più ed io mi addormentavo pregando che tutto finisse in fretta: ne sarei stato felice perché, ogni volta che chiudevo gli occhi, sognavo mia madre, e questo mi aveva convinto che appena fossi morto non sarei più stato solo, affamato, impaurito, ci sarebbe stata lei ad aspettarmi e a prendersi cura di me. Non l'avevo mai vista, non c’era stato il tempo, la conoscevo attraverso i ricordi del nonno che ci aveva parlato di lei quando vagavamo nei boschi, lontani da nostro padre, lui si innervosiva se si faceva cenno a sua moglie. A volte, anche in pieno giorno, chiudevo gli occhi e la vedevo correre sui prati, simile a una fata dai lunghi capelli biondi, a volte si voltava e mi sorrideva: appena lei si voltava, però, il sogno o la visione si interrompeva ed io mi affliggevo perché, senza le parole del nonno, il suo viso si faceva ogni giorno più sfocato.

*

Un giorno di metà ottobre mio padre mi aveva infine rivolto la parola per svelarmi il grande segreto, una storia assurda a cui era impossibile dare credito: il signore di Herrengton aveva chiesto di me. Il signore di Herrengton, che in barba al Ministero allevava ancora i Draghi, quando aveva saputo dal nonno quanto fossi stregato da quelle creature, aveva deciso di invitarmi a veder la schiusa delle uova come regalo per il mio nono compleanno, il giorno di Samhain (13), solo per l’antica amicizia che legava le nostre famiglie. Avevo fissato mio padre allibito, non credevo a una sola parola ma, un po’ per paura che fosse impazzito del tutto e quindi fosse ancora più pericoloso, un po’ perché quella nuova follia, per lo meno, mi avrebbe portato via da quell’isola dimenticata dagli dei, dandomi forse l’occasione, se fossi riuscito a coglierla, di scappare, decisi di fingere di credergli e l’aiutai. Ubbidii a tutti i suoi comandi, ammassai delle strane conchiglie sulla spiaggia, con cui poi lui creò dei segni misteriosi sulla sabbia, mi procurai l’erica sui crinali rivolti a nord e mi svegliai prima dell’alba per i cinque giorni a cavallo della luna calante per raccogliere la rugiada.
La sera prima della partenza mio padre aveva preparato tutto l’occorrente per accendere un falò al centro della composizione di conchiglie poi, al tramonto, aveva cominciato a bruciarci dentro di tutto, non solo quello che avevo raccolto ma anche tutti i nostri averi, compresa la gabbia di Halix e i nostri vestiti. Ero terrorizzato, quei quattro stracci erano le uniche vesti che avevamo per contrastare i rigori dell'inverno ma non avevo il coraggio né la forza di oppormi e protestare. Al culmine della notte si avvicinò per prendermi il mantello del nonno, aveva passato la lama del coltello nel fuoco e ora lo teneva stretto in mano; pensai che mi avesse fregato un’altra volta, l’ultima, alla fine era a questo che gli dovevo servire, a compiere un sacrificio di sangue, tutto il discorso sui Draghi e sul signore di Herrengton erano serviti solo ad ammansirmi e a farmi abbassare la guardia mentre si preparava ad uccidermi.
Mi arpionò il braccio e io strinsi i denti, avevo paura ma non volevo dargli anche la soddisfazione di vedermi piangere e implorare. Rimasi senza fiato quando incise il mio palmo, poi lasciò gocciolare il mio sangue sul falò e mi lavò la ferita con l’acqua di mare che aveva raccolto prima in una fiaschetta. Al tocco della lama e dell’acqua, sentii la carne bruciarmi fino a tutto il torace, guardai con terrore la ferita, alla luce del fuoco si stava già richiudendo e al posto della lacerazione c’era una sottile e fitta linea nera simile a inchiostro, che scendeva sottopelle, e si diffondeva dalla ferita a tutto il palmo, il polso, l’avambraccio, su su fino oltre la spalla. Mio padre restava immobile e in silenzio, sapeva che ero terrorizzato e stavo soffrendo un indicibile tormento ma non aveva alcuna intenzione di dirmi che cosa mi stesse accadendo, quanto sarebbe durato, quando come e perché qualcuno o qualcosa mi avesse iniettato quell’inchiostro sotto la pelle su pressoché tutto il corpo.
Al culmine del rito, mentre a oriente la luna emergeva dal mare illuminando le onde d’argento e  il mio corpo stremato iniziava a essere insensibile al dolore, all'improvviso la sabbia iniziò a vibrare sotto i miei piedi e, dal nulla, apparve una catena: mio padre, seminudo e stravolto dai brividi di freddo, al contrario di me che ancora bruciavo, appena la vide scoppiò a ridere, impazzito, e a ringraziare Salazar, cominciò a tirarla, cantando una litania che non avevo mai sentito prima.
Ai primi raggi del sole nascente, giacevo inerte sulla spiaggia, senza più sensibilità al dolore, alla fame, al caldo e al freddo, gli occhi fissi su quei disegni che sembravano smorzarsi all’unisono con le fiamme del falò, ormai quasi spento: quei decori neri e vividi che durante la notte avevano tramutato il mio sangue in fuoco, erano spariti inghiottiti nella mia stessa carne, restavano in superficie solo a indicare la presenza di una invisibile ferita.
Sollevai gli occhi su mio padre, a forza di tirare aveva quasi portato in secca una sorta di relitto, una barca (14) completamente incrostata di alghe e concrezioni, una barca che, per Magia, appena fu baciata dal primo raggio di sole, si “spogliò” di tutti quei sedimenti, mostrando un legno lucido e vibrante, completamente decorato da incisioni runiche. Mio padre si sporse verso l’interno e tirò fuori una piccola sacca, ne estrasse due tuniche nere, calde e asciutte, una cesta piena di frutta fresca e un paniere con del pesce arrostito ancora caldo.
 
    «Vestiti, svelto, avrai tutto il resto della vita per ammirare quelle tue stupide Rune, ora dobbiamo andare!»

*

Quando finalmente la vidi, compresi che mi avevano mentito anche su Herrengton: al termine di quella salita infinita ed estenuante dalla spiaggia, attraverso il bosco, fin sulla sommità della scogliera, quello che si presentò ai miei occhi non fu il magnifico maniero, espressione di maestosità e potenza, tante volte evocato dal nonno nei suoi racconti, ma un’accozzaglia di ruderi, che si dipanavano come un corpo accartocciato dalla sofferenza, attorno a un inquietante cortile abitato da alberi spettrali, sovrastato da una torre vertiginosa e delimitato agli angoli da altre costruzioni semi diroccate.
Ad attenderci non c’era nessuno, a parte un Elfo macilento dalla testa china, che reggeva a fatica una torcia più grande di lui; come ci vide, zampettò via pigramente, facendoci cenno di seguirlo, ci condusse per una serie di corridoi tenebrosi, in cui riecheggiavano i fasti perduti di un passato glorioso negli spazi lasciati vuoti da dipinti e statue, spariti chissà dove. Possibile che nessuno avesse mai riportato Herrengton alla grandezza delle origini, dopo le battaglie e i tumulti di cui mi aveva parlato il nonno? O qualcosa di tragico era successo in tempi più recenti, portando di nuovo alla rovina l’antica famiglia dei Prediletti (15)? Anche mio padre sembrava preoccupato, probabilmente l’attuale realtà metteva fine a ogni sua velleità e macchinazione, qualunque fosse l’assurdità partorita nelle ultime settimane dalla sua mente folle.
L’Elfo si fermò dinanzi a una tenda lacera, la sollevò con un inchino, facendoci passare, poi corse di nuovo via. Mi guardai attorno frastornato: eravamo dinanzi a un grande, oscuro e gelido salone, solo il fondo della stanza era nella penombra, rischiarato, ai due angoli opposti rispetto all’ingresso, da due bracieri in cui i fuochi, morendo, riflettevano deboli bagliori rossastri sulla parete completamente affrescata.

    Quello è il grande albero genealogico di tutte le famiglie Slytherin… almeno quello esiste davvero…

Tutto era deserto e silenzioso, a parte la presenza dinanzi a un antichissimo sedile di pietra, di cui vedevamo solo il gigantesco schienale, di due enormi cani albini, rabbiosi, che si contendevano delle ossa, mentre un terzo, alzata la zampa posteriore, dissacrava definitivamente la solennità dei luoghi urinando contro il muro, sul nome e sul volto di qualche arcigno Purosangue.
Secondo i racconti di mio nonno, però, l’affresco, per quanto grandioso nelle dimensioni e portentoso nelle Magie che lo permeavano, non era la presenza più mirabile e importante in quella stanza. Spostai lo sguardo sulla mia sinistra, come mi era stato raccontato il salone si chiudeva con una grande parete sorretta da tre archi, scavati direttamente nella roccia: anche là c'erano delle tende tirate ma, attraverso il tessuto, era intuibile l’intenso bagliore verdastro di Habarcat, la fiamma sacra del dio Lugh che proteggeva le Terre e manteneva viva da secoli l’antica Magia.
 
    «Sei arrivato… finalmente… e hai con te il ragazzo… molto più malconcio di quanto avessi ammesso…»
 
Un uomo alto e grosso, in eleganti abiti scuri, si era alzato lentamente dal sedile, era uscito dalla penombra generata da quella specie di trono di pietra e si era avvicinato: aveva lunghi capelli bianchi legati in una lunga coda, palpebre pesanti, il viso incipriato solcato da profonde rughe, i passi lenti e gravosi resi stabili dal bastone che picchiava ritmicamente il pavimento. Non era certo l’Elija Sherton che avevo immaginato dai racconti, ma un rudere, proprio come quell’orrenda dimora. Un senso di angoscia mi prese quando riuscii a vederlo bene in faccia, ci fissava con occhi talmente chiari da sembrare quelli vuoti di un cieco, il volto insondabile. All’improvviso, concentrò tutta la sua attenzione su di me e, senza una parola, mi afferrò l’avambraccio, scostò la manica della mia tunica e mise in luce la pelle pallida della mia mano, solcata dalla sottile linea nera di Rune, là dove ero stato ferito da mio padre.

    «Bravo, MacPherson, bravo... volevi rifilarci merce avariata, a quanto vedo… Spero per te che il moccioso non abbia riportato danni irreversibili, quando hai cercato di marchiarlo!»

Mio padre alzò il mento in segno di sfida ma non rispose, l’uomo estrasse la bacchetta dalla testa di serpente del suo bastone, incise la punta del mio pollice e riempì del mio sangue una piccola ampollina. Guardai mio padre, scioccato, sperando invano in un suo aiuto ma era simile a una statua di sale, non disse niente, non mi diede spiegazioni, non mi protesse, tantomeno mi consolò.

    «Sai com’è… conoscendoti bene, come ti conosco io… meglio controllare che almeno sia il moccioso giusto, prima di far tornare a casa Elija per niente.»
    «Sherton non è qui? Sono stato quattro giorni in mare per vedere lui, non per ascoltare le stronzate di un bastardo come te, Malfoy! Voglio parlare con lui, adesso, firmare l’atto di vendita e andarmene!»
    «Nient’altro, mio signore? Ahahahahah…»

L’uomo rise, una risata cupa che morì in un rantolo, lento si asciugò l’angolo umido delle labbra esangui, poi si portò ancora più vicino a mio padre, raddrizzando completamente le spalle ingobbite: pur piegato dagli anni, lo sovrastava di tutta la testa.

    «Sherton è in Irlanda… ha cose ben più urgenti da fare che star dietro a un fallito come te…»
    «Tutta fatica inutile, dunque, solo chiacchiere vuote e nessun atto concreto… come sempre...»
    «No… non temere… Stavolta i conti li chiudiamo, MacPherson… ma li chiudiamo io e te… sono suo suocero, come ben sai, Elija mi ha accontentato quando gli ho chiesto di concludere quest’affare di poco conto al suo posto, secondo i termini che avete già pattuito: una Passaporta per un moccioso.»
    «Che cosa? Assolutamente no! Elija non mi ha promesso solo questo, tu vuoi fregarmi di nuovo, Malfoy, ma il marmocchio vale molto più di una misera Passaporta!»

Il Mago sorrise, astuto, arretrò di qualche passo tenendomi serrato per il braccio, si fermò ed estrasse dalla tunica un rotolo che tirò addosso a mio padre, costringendolo a chinarsi per raccoglierla. Quando la mano di mio padre fu sulla pergamena, l’uomo sollevò il piede e glielo premette sulla mano, nello stesso tempo, mi trattenne a sé con l'asta del bastone, per impedirmi di intervenire, se avessi cercato di difenderlo... Non lo feci, incapace di comprendere quello che mi stava accadendo attorno: come in un sogno, rimasi lì a osservare mio padre, in ginocchio, apparentemente insensibile al dolore nonostante la mano pestata e sanguinante ancora bloccata a terra, mentre con l’altra apriva bramoso il rotolo e leggeva avido il testo scritto sulla pergamena, gorgogliando qualcosa di incomprensibile.

    «La Passaporta è il mio personale regalo di commiato, MacPherson: se non la vuoi, puoi andartene senza, ma il ragazzino resta qui. Era “un peso morto di cui è ora che mi disfi”, no? Beh, te ne sei disfatto, una buona volta! Ora vattene… e portati via il fetore del tuo immenso amore paterno!»

Malfoy tirò via il piede e lo fissò, i suoi occhi non erano più vuoti, traboccavano odio e disprezzo, permeando di un’innaturale aura di vita e forza quel corpo decrepito da vecchia cariatide ammuffita.
 
    «D’accordo… ma tra noi non finisce qui, Malfoy! Ricordatelo!»
    «Ti sbagli, MacPherson è finita qui, adesso, per sempre! Hai avuto ciò che desideravi, molto più di quanto meritassi, Sherton ha testimoniato, io ho confermato e Black ha firmato… per il Ministero tu sei morto, nessuno d’ora in poi ti cercherà più, potrai rifarti una vita dove cazzo vorrai… ovunque… purché sia lontano da me e da tutto ciò che conta per me… se non lo farai… se solo dovessi vedere da lontano la tua ombra… da ex membro del Wizengamot, posso assicurarti che nessuno può essere incriminato per l’omicidio di un uomo che è già stato dichiarato morto! Vai, Birnòs ti fornirà le indicazioni per la Passaporta… e non fare quel muso scandalizzato, perché neanche un idiota come te può davvero pensare di attivare una Passaporta illegale qua dentro!»
    «E secondo te come dovrei arrivare fino a… dove? A Glasgow, immagino, come l’ultima volta? Proprio un bello scherzo, quello che hai fatto a mio padre…»
    «Non sono problemi miei! Ti dico soltanto, da amico, di muovere il culo, se vuoi cavartela, ho impostato la Passaporta perché si apra un’unica volta a mezzanotte. Addio!»

Malfoy mi tirò via trascinandomi dietro di sé, sconvolto e ammutolito, dalla parte opposta rispetto al corridoio che avevo appena percorso, senza darmi il tempo di fare un passo o fiatare. Mio padre non mosse un muscolo, mi vide sparire così, non fece niente, non disse niente, non pronunciò il mio nome, neppure mi guardò, gli occhi fissi su quel pezzo di carta che, qualunque cosa ci fosse scritta, aveva cambiato per sempre i nostri destini.

*

    «L’ambizione non porta mai a nulla di buono, quando non è sostenuta da un briciolo di astuzia, è inutile, voi delle Terre proprio non riuscite a capirlo, questo concetto!»
 
Inorridito, guardai Armand Theophile Malfoy (16), ex membro del Wizengamot, sghignazzare, mentre si lisciava i baffi e l’anemico pizzetto da capra: era intento a mangiare il suo immancabile grappolo d’uva nera al posto d'onore, alla tavola di Sherton, imbandita per buona parte della giornata nella penombra del salone di Habarcat, proprio di fronte al sacello della Sacra Fiamma. Quella sera, in particolare, era tutto compiaciuto mentre commentava, con dovizia di particolari, un articoletto del Daily Prophet vecchio di un paio di giorni: vicino a Glasgow, una decina di Aurors avevano preso parte alla cattura di un pericoloso pregiudicato, in fuga da nove anni, mentre cercava di raggiungere il continente con una Passaporta illegale di origine sconosciuta.

    «Giustizia è stata fatta… ci è voluto un po’, ma finalmente sono stati sistemati tutti e due…»

Alzai di nuovo gli occhi dal piatto, Malfoy ghignava e mi fissava, divertito, alla ricerca di una mia qualche reazione. In quei pochi giorni di assurda e inspiegabile convivenza, avevo già imparato a odiare quell’uomo, era incredibile come riuscissi a scoprire in ogni istante nuovi aspetti che me lo rendevano sempre più detestabile. Mi spaventava il suo modo di comparirmi all’improvviso alle spalle, la sua presenza muta e inquietante, come un pericolo ignoto che percepisci ma non riesci a visualizzare se non all’ultimo. Più di ogni altra cosa, mi ripugnava che trovasse sempre una scusa per toccarmi, che fosse una pacca sulla spalla per invitarmi a mangiare, o le dita che finivano tra i miei capelli rossi, mentre commentava, alludendo a chissà quale mistero, che buona parte dei Maghi della Confraternita, benché scozzesi, avessero i capelli scuri. E restava un mistero cosa volesse da me, perché mi trovassi lì, nella casa di un altro sconosciuto che ancora non si era mai neanche fatto vedere.

    «Non te l’aveva detto, eh? Già… pur di non subire il piagnisteo di un moccioso, neanche io, al suo posto, avrei detto che il nonnetto è finito ad Azkaban il giorno stesso in cui vi siete separati.»
    «È impossibile! Mio nonno non può essere ad Azkaban! Mio nonno non ha fatto nulla di male!»
    «Nulla di… ahahahah… certo… certo… proprio nulla… beata l’ignoranza della gioventù!»

Ero saltato in piedi rovesciando a terra la sedia, volevo scagliarmi contro di lui, ma quando vidi la sua aria soddisfatta, capii che stava cercando di provocarmi, raccontandomi mezze bugie miste a mezze verità solo per godersi lo spettacolo delle mie reazioni. Non volevo dargliela vinta. Cercai di calmarmi, per quanto sembrasse impossibile, dovevo impormi di non credere alle sue parole, a nessuna delle sue parole.

    «E mio fratello? Mi direte che hanno incriminato e messo ad Azkaban anche lui, vero?»
    «Perché mai dovrei dire una sciocchezza simile? Tuo fratello Fergus ora è a Hogwarts, come ogni giovane Mago della sua età… quando avrà finito la scuola tornerà a casa sua, a Inverawe o come diavolo la chiamate qui, e sarà cresciuto dagli zii: è pur sempre l’erede dei MacPherson e dovrà impegnarsi a ridare lustro al nome di famiglia… non che sia facile, tantomeno possibile, naturalmente, ma sarebbe mal giudicato dalla società magica e dalla Confraternita se non ci provasse nemmeno!»
    «Ed io? Se Sherton mi ha fatto venire qui solo per tendere una trappola a mio padre e con la scusa della Passaporta consegnarlo ai Ministeriali, ora che ci è riuscito, non dovrei tornare a casa mia, ad aspettare mio fratello per i riti di Yule e fare di tutto per riabilitare il nostro nome? Se cresceranno lui, gli zii non dovrebbero crescere anche me?»

Lo scoppio di una risata incontenibile fece vibrare l’aria morta di quella stanza, fu talmente potente che temetti potesse scoppiare in mille pezzi anche lui, l’orrenda cariatide, travolgendo pure me. Strinsi i pugni e lo fissai con tutto l’odio che sentivo montarmi dentro, mentre continuava a guardarmi con le lacrime agli occhi e aveva notevoli difficoltà a trattenersi dal continuare a deridermi.

    «I tuoi zii dovrebbero allevare anche te, dici? Parliamo degli stessi balordi che hanno lasciato te e tuo fratello, in tenera età, in mano a due pregiudicati in fuga e pericolosi, a vagabondare e rischiare la vita nei boschi, mentre loro sottraevano e dilapidavano tutti i beni di tua madre? Gli stessi che ora si son resi disponibili a occuparsi di tuo fratello, di tuo fratello bada bene, ma non di te, solo per avere l’opportunità di mettere le mani anche su ciò che resta dei beni di tuo padre? Sono questi i tuoi parenti, ragazzino, se Elija non ti avesse fatto venire qui, quella gente avrebbe detto a tuo fratello che eri morto nello scontro con gli Aurors, dopo averti tranquillamente lasciato davanti a un orfanotrofio babbano, questa è la verità! Io stesso, al posto di Elija, avrei fatto come loro, non sarei intervenuto, avrei fatto di tutto per far finire ad Azkaban quei due delinquenti, certo, ma non mi sarei occupato di voi, vi avrei lasciati al vostro destino, ad arrangiarvi, da soli, nell’Argyll o in qualunque altra dannata palude di questa terra di merda… perché non avrei guadagnato niente dall’intervenire… e a dirla tutta, a me fa ribrezzo già la sola idea del sangue marcio che vi scorre nelle vene!»

Strinsi i pugni, fino a conficcarmi le unghie nella carne mentre quel cadavere parlante continuava a sprizzare veleno e indegnità contro tutto ciò che avevo di più caro. Ma mi morsi la lingua per non rispondergli.

    «Quindi sarà Sherton ora a mandarmi in un orfanotrofio dei babbani!»
    «Ahimé, no… resterai qui… perché mio genero è un coglione dal cuore tenero e se fosse stato per lui, non sarei neanche riuscito a cogliere l’occasione per vendicarmi, li avrebbe lasciati scappare… esatto, sono stato io, non mio genero, a farli sbattere dentro… perciò prenditela tranquillamente con me e goditi la fortuna che hai avuto: quando Sherton tornerà a casa, invece di rompergli le palle sul perché ti ha comprato, o fargli la guerra perché mi ha indirettamente aiutato a mandare in galera i tuoi parenti, mostragli riconoscenza, nessun altro ti avrebbe protetto, solo qui, a Herrengton, non dovrai più temere la morte o la fame, e soprattutto… qui non dovrai più curarti di nessuno della tua dannata famiglia!»
    «Ma io sono Duncan Reginald MacPherson, dei MacPherson di Inverawe! E Fergus è mio fratello!»

Il vecchio Mago si alzò stancamente, sistemò la sedia al suo posto e mi guardò severo, la mano ingioiellata a indugiare fastidiosamente prima sulla mia spalla, poi sulla mia testa.

    «Il sangue che ti scorre nelle vene è un grosso limite, lo so… spero che prima o poi, però, tu comprenda le mie parole: farai un grande favore a te stesso a scordarti chi sei e da dove vieni, perché quando vi rivedrete, tuo fratello Fergus sarà il primo a non voler avere nulla a che fare con te!»

Voleva chiuderla lì, con le sue solite parole sibilline, ma io mi alzai, gli corsi dietro e lo raggiunsi subito, lento com’era, intenzionato a strappargli la verità. Erano tre giorni che mi trovavo chiuso in quel castello: mi era stata data una bella stanza con un baldacchino dalle coperte morbide, vero, e anche un caminetto in cui il fuoco non si spegneva mai, acqua calda per le mie necessità, abiti nuovi e la visita costante dell’Elfo Birnòs che si materializzava per chiedermi se avessi bisogno di qualcosa. Ma ero un prigioniero, recluso nella mia stanza, senza la libertà di muovermi da lì se non quando Malfoy bussava alla mia porta per portarmi a mangiare nella sala dell’arazzo. E nessuno mi aveva detto ancora la verità sulla mia presenza lì, né per quanto tempo sarei dovuto restare.

    «Che cosa significa che devo scordare il mio nome? E perché mio fratello non vorrebbe avere nulla a che fare con me? Voglio sapere perché sono qui, che cosa volete ancora voi e Sherton da me?»
    «Io? Assolutamente niente! Quanto a tuo fratello, di certo non avrà piacere a ritrovarsi davanti un giorno lo stupido mocciosetto responsabile della carcerazione di tutta la sua famiglia.»
    «Io non ho fatto nulla per far incarcerare mio padre e mio nonno!»
    «Davvero? Questo è quello che affermi tu… Ma mettiti nei suoi panni: tu ti sei salvato, non sei rimasto ferito negli scontri con gli Aurors, come è successo a lui, nel disperato tentativo di salvare vostro nonno… Tu non sei tornato a casa, a soffrire con lui la situazione che si è creata. Tu sei qui, a Herrengton, a vivere nella bambagia, con gli uomini che hanno ingannato i suoi familiari… Per come la vedo io, potrai dirti fortunato se si limiterà a prenderti a calci in culo, una volta che vi ritroverete a Hogwarts…»
    «Ma… io non ho fatto nulla, io non voglio stare qui, io voglio andare da lui! Mio fratello deve sapere che io non c’entro niente!»
    «Prima regola: un ragazzino che è stato venduto dal proprio stesso padre, qui dentro non può più permettersi di usare la parola “voglio”, siamo intesi? E ora finisci di mangiare, che sei la metà di quello che dovrebbe essere un moccioso di nove anni… e in queste condizioni, Merlino solo sa a cosa potresti servirgli…»

*

Di tutte le parole dette da quel pallone gonfiato su mio padre, su mio nonno, sul fatto di essere stato venduto, nulla mi aveva prostrato quanto l’idea che mio fratello potesse considerarmi un traditore.  Non riuscivo a prendere sonno, vagavo come un’anima in pena attorno al baldacchino, arrivavo fino alla grande bifora e guardavo il cielo che iniziava a essere illuminato dalla luce della luna crescente. Di lì a un paio di giorni sarebbe stato Samhain, e io avrei compiuto finalmente nove anni.

    Che cosa cambia? Non può certo essere un compleanno a sistemare le cose...

Mi avvicinai al caminetto, c’erano molti libri in quella stanza, potevo leggere qualcosa, per distrarmi e prendere sonno, ma mi ritrassi subito, quella notte era già troppo caldo, stare vicino al caminetto era improponibile,

    Se solo fossi libero, se solo la porta non fosse bloccata da qualche incantesimo, uscirei in quella specie di cortile di spettri che ho visto al mio arrivo, a respirare l’aria salmastra che sale dal mare. E chissà, magari potrei proprio scendere giù, fino al mare… e provare a fuggire…

La stanza in cui mi trovavo era alla base della torre, dalla parte opposta rispetto al cortile, e si affacciava in una specie di giardino piccolo e raccolto, l’unica porzione del maniero, insieme al salone di Habarcat, che potesse considerarsi in condizioni passabili; mi issai sulla mensola della finestra, guardai di sotto, c’era un dislivello, vero, ma nulla di insormontabile per un ragazzino abituato a salire e scendere dagli alberi alti diversi metri da quando aveva cinque anni: se mi fossi lasciato penzolare e scivolare via dalla mensola lentamente, sarei finito giusto in mezzo a un cespuglio abbastanza fitto da attutire la mia caduta.

    Non ho idea di come potrò rientrare in camera, prima che qualcuno si accorga della mia fuga, ma tanto più di imprigionarmi come stanno già facendo, che cosa possono farmi?

Presi coraggio, scavalcai la finestra e mi lasciai cadere di sotto.

*

    «Non avevi alcun diritto di intervenire, Armand, questa faccenda non è affar tuo!»
    «Io ho tutto il diritto di tutelare mio nipote, quando suo padre prende decisioni assurde che possono mettere a repentaglio la sua incolumità!»
    «Incolumità? E di grazia, dimmi, che interesse avrebbe un bambino di appena nove anni a fare del male a qualcuno di cui neanche conosce l’esistenza?»
    «Sei un patetico stolto, Sherton, al quale la vita non ha insegnato niente! Non pensi che cercherà di vendicarsi, prima o poi?»
    «E tu eri talmente spaventato all’idea che per vendetta potesse far del male a tuo nipote, che ti sei affrettato a raccontargli tutto, dopo quanto? Due giorni? Non ti ascolterò un secondo di più!»
    «Devi mandarlo via da qui! Sbarazzatene in qualche modo, per i tuoi scopi troverai qualcun altro, non puoi rischiare di perdere anche Donovan!»
    «È proprio per non perdere Donovan che quel ragazzino deve stare qui!»
    «Perché? No, tu non me la racconti giusta… ma se credi di poter prendere per il culo Armand Theophile Malfoy, ti sbagli di grosso, caro mio… ti ricordo che ti tengo per le palle, un solo passo falso e faccio aprire le porte di Azkaban anche per te, a costo di morirci, Sherton!»

Le voci, accese e adirate, si sentivano già da metà del lungo corridoio che avevo percorso per la prima volta solo pochi giorni prima. Decisi di non fuggire, ma di avvicinarmi senza farmi notare, come avevo imparato a fare nel bosco, con mio fratello, quando andavamo a caccia… dovevo avvicinarmi tanto da poter sentire bene, avevo già capito che stavano parlando di me, mi serviva solo un posto dove non potessero accorgersi della mia presenza.


*continua*



NdA:
In questa prima parte abbiamo incontrato il piccolo Fear e abbiamo visto le vicissitudini che l'hanno portato per la prima volta a Herrengton, per volontà di Elija Sherton, il nonno di Alshain. Se ricordate un po' la trama, Elija fu costretto a sposare Artemis Malfoy, figlia dell'Armand Theophile Malfoy che abbiamo visto in questo capitolo, e a sottoscrivere un contratto secondo il quale la prima femmina che fosse nata in casa Sherton avrebbe dovuto sposare un Malfoy,causa del profondo turbamento di Meissa ogni volta che Lucius appariva all'orizzonte. Domani metto tutte le note e i saluti per bene, che ho fatto terribilmente tardi, voi intanto potete vedere se intuite/ricordate il significato delle note 5/6/7 e 13/14/15... ci leggiamo presto, ciao!!!
 Valeria
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