Capitolo 41
Dare vita al futuro
“Poi c’era la notte. E la notte del lager è una cosa
di cui non si parla mai. E la notte del lager è invece importantissima, perché
si sentono le grida di quelli che vanno al gas, si sentono i richiami delle
mamme che non perdono i bambini, i bambini in tutte le lingue d’Europa, dei
mariti che han perso le mogli. E noi sapevamo dove andavano: era la notte.”
Liliana Segre
Immagine tratta dalla miniserie televisiva “La guerra
è finita”
Sulle
ultime parole, in difesa del signor Gennaro, d’un tratto, gli occhi di Sarah
avevano smesso di piangere, spalancandosi in un’espressione immota, come
immobile era il suo corpo avvolto nell’abito bianco, adesso, sgualcito. Con un
abbraccio, Matteo l’aveva afferrata, affinché non sprofondasse nella dimensione
di vuoto che il suo sguardo rabbuiato stava contemplando e in cui lui stesso
l’aveva spinta con parole crudeli e, prima ancora, al ricevimento, con il
proprio atteggiamento vile.
Copiose
e inarrestabili, gli sgorgavano lacrime di rimorso dagli occhi serrati e parole
di scusa dalle labbra tremanti, mentre ascoltava i battiti del suo cuore non
scandire più il ritmo dell’amore, attraverso un corpo che, tra le braccia,
percepiva quasi cedevole, a causa del male fattole. Ferendola, si era ferito,
giacché di lei ne aveva provocato l’allontanamento, più profondo di quello
fisico.
“Torna
da me, amore mio. Torna da me, ti prego”, la implorò tra i singulti e,
lentamente, le mani di Sarah si posarono sulle sue braccia. Per riaffiorare dal
buio dell’angoscia e riprendersi la speranza nel futuro, si era aggrappata
all’ultimo barlume d’amore che ancora provava per Matteo e, seppur velato di
malinconia, un luccichio di vita riapparve nei suoi occhi, quando lui le prese
dolcemente il viso tra le mani.
E dolce parve lo
sguardo che lei gli rivolse, mentre, sommessamente, rinnovava la promessa,
confermando la sua condanna: “Io non ti lascerò mai.” Più che il sentimento, fu
la rassegnazione a vibrare nelle sue parole, ma nessuno dei due se ne accorse e,
intanto, con tremore, le braccia di Sarah si aprirono per ricevere e donare
l’abbraccio. Finalmente, irreparabilmente.
Della
guerra contro l’uomo erano stati i giovani a pagare il prezzo più alto, con il
sangue versato sul campo di battaglia o sulle strade dell’insurrezione, con il
loro futuro compromesso dai traumi subiti. Da lontano, Davide aveva visto le
loro labbra scagliarsi l’uno contro l’altra in parole
di stizza, le loro mani negarsi a gesti di vicendevole cura; li aveva visti
ferirsi – a causa delle ferite inferte loro, direttamente o indirettamente,
dall’odio ideologico –, lasciarsi, senza nemmeno accorgersene, ritrovarsi,
forse, scoprendosi reciprocamente diversi nel mondo nuovo e sempre uguale.
La
scena del loro abbraccio pregno di disperata speranza lo stava riportando
laddove la sua vita si era interrotta, tra le braccia di Maria, prima che la
mano nazista li separasse nel tumultuoso momento dell’arrivo ad Auschwitz. Da
lì, privato del suo bene più prezioso, dopo la sua adorata figliola, sarebbe
iniziata una lunga battaglia interiore contro la disumanizzazione, per restare
un essere umano e, assieme al corpo da nutrire, far sopravvivere l’anima,
alimentandola con i ricordi della vita precedente fatta di valori ed emozioni.
Quella futura non sarebbe stata più la stessa, né per lui né per l’umanità
ferita e ferente.
Guardando
la sagoma della giovane coppia sullo sfondo del cielo e del mare, si era
accorto che, salvatosi dalla morte, non aveva ancora ripreso in mano la sua
vita, giacché il suo unico progetto per il futuro era quello di ritornare a
Bologna per piangere sulla lapide di Rosa. Poco più che quarantenne, non
riusciva ad abbracciare il pensiero di reinventarsi, forse, perché,
nell’inferno di Auschwitz, anche lui era un po’ morto.
“Andiamo,
amore?” All’esortazione di Matteo, pronunciata con voce e sguardo di tenerezza,
Sarah incupì gli occhi e arricciò le labbra, prima di rispondergli in un tono
quasi di sfida: “Io non ci torno lì.” Aveva perdonato lui, non i suoi amici e
temeva che Matteo volesse far ritorno al ricevimento.
Ma
lui le incorniciò di nuovo il viso tra le mani e la confortò dapprima con un
sorriso, poi dicendole risoluto: “Io non intendevo di tornare a «La terrazza»,
ma a casa nostra.” E Sarah ribatté, sorridendo tra stupore e soddisfazione al
suo inaspettato ardire, al suo voler tralasciare per lei uno schema
prestabilito, gli invitati, il cambio d’abito, il taglio della torta, la
distribuzione dei confetti, a ciò che per Matteo doveva essere un qualcosa di
folle.
E,
davanti a quel lato che sapeva non appartenergli, la giovane s’illuse che il
suo sposo potesse essere sempre così.
Mano
nella mano, li guardò allontanarsi, dimentichi della sua presenza. Una parte di
sé non condivideva la loro scelta, mentre l’altra vedeva racchiusa,
nell’intreccio delle loro mani e nel sincronismo dei loro passi, il coraggio di
dare vita al futuro. Con la forza della giovinezza, sfidavano il passato e i
suoi strascichi, resistendo a se stessi per la volontà
di far resistere il sentimento di bene che provavano l’uno verso l’altra. Col tempo, forse, avrebbero imparato anche ad
amarsi.
Davide
udì una voce che, tremolante, lo chiamava per nome e si volse verso la sua
figura tesa di mani giunte sotto il ventre a tormentarsi le dita, avvolta nell’abito
di velluto color verde scuro. Nei suoi occhi marroni, c’era quel velo di
sofferenza che lui ben conosceva e, nel suo sorriso appena abbozzato, la voglia
di ricominciare. La ragazza spostò dietro l’orecchio i capelli castani sfuggiti
dallo chignon, poi la mano tornò nella posizione iniziale.
“Hannah”,
fece con un’intonazione vagamente sorpresa e non sapeva ancora che in lei
fossero racchiusi la grinta che gli avrebbe fatto desiderare di riprendere
l’insegnamento all’accademia musicale; i sospiri e i tormenti di un amore
sbagliato per la sua morale, data la differenza d’età, che, paradossalmente, lo
avrebbero fatto sentire più vivo, di nuovo uomo nella sua completezza; la
vitalità che avrebbe moltiplicato i suoi anni.
“Si
sono chiariti?” Hannah portò le labbra segnate dal rossetto rosso sbiadito
all’interno della bocca, ma non era di Sarah e Matteo che voleva parlare.
Sentir
cantare “Faccetta nera”, pur avendo ignorato l’ebro coretto per non rovinare il
matrimonio alla sua cara amica, aveva suscitato in lei un impellente e
disperato bisogno di raccontare, per la prima volta, nella sua interezza, il
terribile vissuto a Mauthausen e di raccontarlo a
Davide.
“Sembrerebbe
di sì”, le rispose in un sospiro e incrociò le braccia, sorridendo lievemente
al loro ridere, mentre Matteo tornava indietro per raccogliere tra i ciottoli
le scarpe di Sarah.
“Davide”,
lo chiamò di nuovo e con voce più tremante, intrisa di malinconia e lui le
rivolse uno sguardo apprensivo. “Io sono pronta a raccontare”, disse tutto d’un
fiato, temendo di poter cambiare idea e, scoprendosi l’avambraccio sinistro,
gli mostrò ciò che era stata a Mauthausen.
“Nei campi di sterminio, Dio è morto.
Coi miti della razza, Dio è morto.
Con gli odi di partito, Dio è morto.
[…] Se Dio muore, è per tre giorni e poi risorge.
In ciò che noi crediamo, Dio è risorto.
In ciò che noi vogliamo, Dio è risorto.
Nel mondo che faremo, Dio è risorto.”
Nomadi, Dio è morto