Non
sapeva perché avessero deciso di nascondersi in quella
stanza.
Certamente avrebbe avuto più senso tentare una fuga per i
campi.
Avrebbero avuto il tempo per farlo: quando le campane della cappella
avevano preso a suonare a martello, lei e le sue consorelle avrebbero
potuto precipitarsi verso la porta sud e scendere la ripida scaletta
che conduceva al fiume, balzando da un sasso all’altro per
attraversare l’Aser. Si sarebbero bagnate i piedi e forse
anche le
sottane, ma almeno sarebbero state libere.
Stavano
già lavorando nell’orto, le schiene ricurve sulla
terra scura e
indurita dall’inverno appena trascorso. La salvezza era stata
lì,
a portata di mano, e lei era stata a un soffio
dall’abbandonare la
zappa e correre verso la porticina seminascosta dall’edera
che
cresceva su quella porzione delle mura del convento. La voce della
Superiora aveva però soffocato quegli intenti sul nascere.
“Nelle
cantine” aveva detto la donna. “Lì
saremo al sicuro.”
Neve
non riusciva a capacitarsi di come si potesse essere al sicuro
sottoterra. Era forse un po’ claustrofobica, ma gli ambienti
bui e
poco arieggiati non le erano mai piaciuti, soprattutto se era
costretta a condividerli con altre persone.
Il
cuore le martellava nelle orecchie e non c’era nulla che lei
potesse fare per rallentarne un po’ il ritmo. Lisi le
stritolava il
braccio destro in una morsa e Clara le si stringeva invece contro il
fianco sinistro. Tremava e piangeva piano, il che era del tutto
comprensibile, se si considerava che la ragazzina aveva solo
quattordici anni, ma stava facendo davvero troppo rumore: le
avrebbero trovate di sicuro.
“Pregate,
ragazze.”
La
voce della Superiora era tranquilla e placida come sempre: non
sembrava quella di una donna a un passo dalla morte.
Neve
non voleva pregare. Non che non credesse negli Dei (ci credeva e la
sua fede era sincera), ma c’era qualcosa che le impediva di
concentrarsi sulla salvezza della propria anima. La Superiora era
stata chiara: se i briganti che avevano assaltato il convento le
avessero trovate, molte di loro sarebbero morte, mentre altre
sarebbero state portate via per essere vendute come schiave. La donna
non aveva detto che avrebbero anche subito violenza, perché
non
c’era davvero motivo di specificarlo: le monache raccolte
nelle
cantine conducevano una vita reclusa, ma questo non impediva loro di
sapere come andava il mondo.
Oh,
Madre, Luce del Creato, ti supplico…
le
parole le evaporarono dalla testa. No, non ci riusciva. C’era
qualcosa che si contorceva nel suo petto. Era una creatura bianca ed
evanescente, impalpabile come la nebbia e viscida come un pesce.
Bollente e irrefrenabile. Inafferrabile. Si
chiama paura,
pensò Neve aprendo e chiudendo spasmodicamente i pugni. Si
chiama panico, terrore.
Aveva
anche altri nomi, però, nomi antichi e dimenticati da tempo,
nomi
che aveva portato con sé quando, dieci anni prima, aveva
lasciato le
fredde terre del nord per entrare nel convento di Forrascura. Nomi
che non desiderava ricordare. È
piuttosto meglio morire,
si disse, ascoltando il respiro affannoso di Clara e quello stentato
di Lisi. Forse
sì, forse no,
sussurrò la creatura che le si agitava nel petto. Comunque
non stava
a lei deciderlo: l’avvicendarsi degli eventi avrebbe scelto
in sua
vece.
Neve
fissò la porta sbarrata che intravedeva nelle tenebre
davanti a sé.
C’era solo uno spiraglio di luce, una sottile fessura
luminosa lì
dove i due battenti non combaciavano alla perfezione. Era una porta
vecchia, probabilmente marcia. Nascondersi lì sotto era
stata
davvero una pessima idea.
C’erano
delle scale che scendevano fino alla cantina, scale che partivano da
un angolo del cortile del convento. Non erano difficili da trovare.
Erano scale sulle quali in quel momento risuonavano i passi pesanti
di diversi uomini.
Le
monache nascoste nella cantina trattennero il fiato, respirando come
un bizzarro essere collettivo. Le dita di Lisi, piccole, ma forti,
ebbero uno spasmo e si conficcarono nel braccio di Neve, tanto in
profondità che la giovane sentì una miriade di
microscopici spilli
pungerle la mano destra. C’era un suono lugubre e acuto nel
suo
orecchio sinistro: ci mise qualche secondo per capire che si trattava
del gemito disperato di Clara.
La
porta vibrò sotto un colpo violento inferto
dall’esterno.
Sono
pronta a morire,
pensò Neve. Ho
ventidue anni e sono pronta a morire.
In
un modo o nell’altro,
sussurrò la creatura nel suo petto. Se avesse avuto una
voce,
sarebbe stata una voce soffiante, priva di timbro, acuta, ma con un
brontolio di fondo. Se avesse avuto occhi, sarebbero stati occhi di
vetro, piatti e senza fondo.
È
la voce della tua paura,
le aveva detto sua nonna tanti, tanti anni prima, quando lei gliene
aveva parlato per la prima volta. Neve ci aveva messo un bel
po’
per capire che, per quanto saggia e intelligente, la nonna non sapeva
proprio tutto.
La
cosa positiva era che Neve aveva imparato a dominarsi e a dominarla.
Ormai sapeva tenere sotto controllo la paura e le altre cose che a
volte rischiavano di soffocarla.
Un
altro colpo, e il chiavistello scricchiolò.
“Restiamo
vicine” le sussurrò Lisi nell’orecchio.
Il suo braccio le cinse
la vita. “Restiamo unite.”
Neve
dubitava che restare unite servisse a qualcosa, ma annuì
comunque.
Lisi le era simpatica. Avevano la stessa età, erano entrate
in
convento insieme, e la considerava quasi una sorella. Anche Clara si
strinse a loro, insinuandosi nel loro abbraccio. Era piccina e
spigolosa, praticamente una bambina non ancora divenuta adolescente.
Al
terzo colpo, la porta esplose
e
qualcuno gridò. Neve sentì il respiro inciamparle
in gola e la
creatura sobbalzarle nel petto. Mossa dall’istinto, contrasse
gli
addominali e irrigidì la cassa toracica, quasi per
trasformare le
costole in una gabbia. Per un istante soltanto, le sue mani si
contrassero con una forza quasi innaturale e Lisi gemette, ferita da
quella stretta di granito.
Scusa,
pensò Neve, riprendendo subito il controllo sul proprio
corpo. Non
un passo di troppo,
si ricordò. Non
un passo di troppo, perché non conosci il punto in cui sarai
perduta
per sempre.
Gli
uomini entrarono nella cantina. Quattro, cinque, forse sei o sette:
erano controluce e Neve non riusciva a vederli bene; e comunque i
numeri erano privi di significato. Quello che contava era che erano
molti, e grossi, e armati. A parte la Superiora, c’erano
altre
dieci donne rintanate tra i formaggi e le botti di vino: erano
numericamente superiori ai briganti, ma come potevano pensare di
contrastarli?
Avanti,
tutte insieme!
Pensò
per una frazione di secondo Neve, ma i suoi muscoli non
obbedirono e il pensiero svanì. Del resto era una follia.
Tre di
loro erano vecchie, due bambine, e nessuna delle donne più
giovani e
in forze era comunque addestrata a combattere: sarebbe stato un
suicidio.
Ma
non è forse meglio morire a testa alta?
Si
chiese amaramente. Non aveva importanza: sapeva di non avere in
sé
il coraggio di compiere un simile sacrificio.
“Ed
ecco qui le altre signorine” sogghignò un uomo,
quello che guidava
il drappello dei suoi compari e che reggeva tra le mani una torcia
accesa.
Neve
tentò di guardarlo, di imprimerselo nella mente, ma i
dettagli le
sfuggirono. Vide solo che non era vecchio, che aveva capelli corti
che riflettevano il bagliore del fuoco e un sorriso che pareva la
lama di un coltello. L’uomo fece un cenno a uno dei banditi
che gli
stava accanto. “Esaminiamo la merce, su!”
Obbedendo
all’ordine del suo capo, il brigante si fece avanti: aveva la
pelle
scura degli uomini dell’ovest e un passo irregolare che
parlava di
una vecchia ferita mai guarita alla perfezione.
Mentre
l’uomo avanzava, la Superiora fece lo stesso.
“Fermo!” gli
intimò, levando le mani nella sua direzione. “Non
un altro passo!”
Il
brigante levò la spada e si voltò verso il suo
comandante: uno
schiocco di dita, un ordine, e la lama saettò colpendo la
Superiora
alla gola.
Era
troppo buio per vedere con esattezza ciò che era successo,
ma il
corpo della donna ebbe un sussulto e poi giacque immobile. Dal gruppo
delle monache si levarono esclamazioni d’orrore e gemiti e
Neve si
portò istintivamente una mano alle labbra, forse per
saggiare la
consistenza del proprio respiro. Eppure la creatura nel suo petto
parve acquietarsi: era una cosa che conosceva, quella. Conosceva il
sangue, conosceva la morte, ed era un po’ come tornare a casa.
Incurante
del corpo ai suoi piedi, l’uomo dalla pelle scura si fece
avanti e
afferrò la prima donna che gli capitò a tiro: era
Daina, una monaca
ormai anziana e quasi cieca. Il brigante con la torcia fece un cenno
di diniego e Daina fu spinta verso il fondo della cantina.
Sbilanciata da quel movimento brusco, la vecchia si accasciò
tra due
botti.
Il
bandito afferrò allora il braccio di Lona, una ragazzotta
grande e
grossa, con fianchi larghi e guance rosse. Dal gruppetto dei
criminali si levarono alcuni mormorii e l’uomo con la torcia
alzò
la fiamma per osservare più da vicino il volto della
giovane. Poi
sorrise. “Questa può venire buona a qualcosa, che
ne dite?”
chiese con un sorriso storto.
Uno
degli altri briganti raggiunse l’assassino della Superiora e
afferrò i polsi di Lona, costringendoglieli dietro alla
schiena e
legandoli con un pezzo di corda. La giovane monaca aveva muscoli
saldi - Neve l’aveva vista spaccare la legna ed era rimasta
impressionata dalla sua forza - ma in quel momento sembrava del tutto
incapace di reagire: grosse lacrime silenziose solcavano il suo volto
dai tratti grossolani e la ragazza si lasciava manovrare come una
bambola di pezza.
“Questa?”
chiese ancora l’uomo dalla pelle scura, allungando una mano
verso
Clara.
La
ragazzina rantolò in preda al terrore. Prima che Neve
potesse anche
solo pensare di frapporsi tra lei e il suo aggressore, Lisi si
staccò
dal suo braccio e si lanciò verso il brigante.
“No!” tuonò.
“Lasciala stare, è solo una bambina!”
L’uomo
lasciò andare il braccio di Clara e afferrò Lisi
per la gola. I
suoi denti scintillarono nel buio, scoperti da un sorriso divertito.
“E
tu chi saresti, carina?”
Era
stato il capo dei briganti a parlare, avvicinandosi al suo compare e
studiando il volto di Lisi alla luce della torcia. Dalla sua
posizione privilegiata, Neve vide l’istante preciso in cui il
bandito si accorse di quanto fosse bella la sua amica.
Perché Lisi
era davvero molto bella: aveva una pelle lattea e purissima, senza
alcun segno né imperfezione, grandi occhi verdi che
sembravano
brillare d’innocenza e folti ricci neri che le incorniciavano
il
volto di porcellana.
Lisi
deglutì e si morse nervosamente le labbra rosse.
“Mi chiamo Lisi”
disse con la voce che le tremava. “Ti prego, non…
non farle del
male: ha solo quattordici anni.”
L’uomo
levò una mano e la posò sul mento della ragazza,
quasi con
delicatezza. “E tu quanti ne hai?” La stava
studiando come se
fosse un’opera d’arte; o forse un cavallo di cui
stava valutando
l’acquisto.
La
giovane abbassò gli occhi a terra.
“Ventidue.”
“Mh.”
L’uomo parve soddisfatto della risposta e fece un cenno al
suo
compagno. “Questa la teniamo” decise.
“Non legatela troppo
stretta, che mi sembra che abbia la pelle delicata. E prendete anche
la ragazzina.”
Due
uomini si fecero avanti e trascinarono via le due giovani. Clara si
aggrappò al braccio dell’altra ragazza e a Neve
parve quasi un po’
rinfrancata.
Una
mano si strinse brutalmente sulla sua spalla e la giovane si
ritrovò
a fissare gli occhi scuri dell’uomo che l’aveva
afferrata.
Scoprire i denti fu un istinto che non riuscì a sopprimere e
il
brigante scoppiò a ridere. “Questa mi vuole
mordere” sghignazzò,
voltandosi verso il suo capo che aveva ancora gli occhi fissi su
Lisi.
“Mettiamole
la museruola” borbottò distrattamente
l’altro uomo.
Una
parte del suo inconscio, quella parte che ricordava ancora i giorni
della sua infanzia in cui le governanti le sussurravano che lei era
migliore della comune plebaglia, sollevò improvvisamente il
capo.
“Non ci provare” sibilò a denti stretti.
La
sua esclamazione attirò finalmente l’attenzione
del capo dei
briganti. “Quanta boria” mormorò
morbidamente, agitandole la
torcia davanti al volto. “Abbiamo forse una signora tra di
noi?”
Neve
si rigirò la risposta sulla lingua. Era da quando era
entrata in
convento che faceva del proprio meglio per mescolarsi con le altre
ragazze: suo padre le aveva detto che era meglio così, che
l’anonimato le avrebbe permesso di restare al sicuro. Adesso,
però,
aveva la sensazione che il suo titolo avrebbe potuto esserle
d’aiuto:
la figlia di un Conte aveva certo più valore di una comune
contadinella, no?
Inspirando
a fondo per darsi coraggio, Neve levò fieramente il capo (o
almeno
ci provò). “Esatto” confermò
con voce squillante. “Io sono
Neve Aralas, figlia dei Conti di Nevelunga. Trattami con il rispetto
che mi devi.”
Sul
volto del brigante con la torcia passarono in rapida sequenza tutta
una serie di emozioni. Infine fece una cosa che Neve non si sarebbe
mai aspettata: scoppiò a ridere.
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