Capitolo
19
Nessuna
preghiera poteva
salvarla. Invocare gli Antenati non sarebbe bastato, perché
loro erano in grado
di scrutarle nel cuore e vedere le fiamme che le consumavano
l’anima. Sognava
le labbra di Loki, le sue mani che la stringevano, pregava per il suo
ritorno,
lo malediceva perché si era lasciato catturare.
L’ha fatto apposta, dicevano
alcuni. È un’abile mossa, il ragazzo ha la stoffa
del grande stratega,
sussurravano altri. Sigyn ascoltava e taceva, sforzandosi di
concentrarsi sulla
preghiera, lo studio, il ricamo o qualsiasi altra attività
le tenesse le mani
occupate, la mente puntata verso un obiettivo. Un pomeriggio
approfittò
dell’ingenuità di Balder per domandargli se ci
fosse qualche notizia di Loki,
ma il bambino si strinse nelle spalle e scosse la testa, senza
distogliere
l’attenzione dai suoi giochi. L’ancella si chiese
che effetto dovesse fare, avere
due fratelli così scapestrati, audaci e carismatici ed
eleggerli a propri
personali eroi, come aveva fatto il ragazzino. Quando Thor
tornò ad Asgard
privo del proprio immancabile braccio destro, Sigyn fece di tutto per
incrociare i suoi occhi franchi e azzurri: voleva capire se il primo
figlio di
Odino era preoccupato; leggere, sul suo volto deciso, se quella di Loki
era
stata una mossa azzardata, ma voluta, o un disastro che
l’astuto mago sperava
di poter volgere a suo favore. Riconobbe una traccia di malcelata
impazienza
nel modo in cui Thor si muoveva e rispondeva alle domande altrui.
Sembrava che
la terra gli bruciasse sotto gli stivali e che ambisse solo ad
andarsene al più
presto dai giardini di Frigga, dalla sala del trono, dalle scuderie, da
Asgard
stessa. Non era mai stato particolarmente loquace e detestava dover
spiegare e
raccontare. Era abituato a lasciare a Loki tale incombenza e
l’assenza del
fratello, ora, gli pesava. Ma non l’avrebbe mai ammesso ad
alta voce.
Eppure, Thor,
che evitava
con stizza le occhiate di tutti, alla fine le rivolse un sorriso mesto,
non
privo di una certa dose di recondita consapevolezza, come se, tra loro,
ci
fosse un qualche segreto.
“Loki
non mi ha parlato
di te,” esordì non appena ne ebbe modo, il giorno
seguente. “Ti gira attorno,
passa il suo tempo libero occupandosi di quella cosa che hai senza
nemmeno
rendertene conto, eppure non aveva niente da dire. E Loki, vedi, ha
sempre
qualcosa da dire, su tutto,” aggiunse,
certo che lei, ascoltandolo,
sarebbe arrivata alle sue stesse conclusioni.
Sigyn
avvampò. Pensò
all’anello regalato con l’inganno, alle ultime
parole che si erano scambiati,
al suo destino crudele, alle loro labbra che si lambivano e sfioravano.
“Forse
non mi giudica un argomento degno di interesse,” fremette.
“O
magari non vuole
condividere. Mio fratello non ama le spartizioni, del resto –
è avido, come
tutti gli Æsir,” concluse Thor, senza togliersi
dalla faccia quel suo sorriso franco
e gioviale, che non aveva nulla della furba malizia
dell’altro.
Sigyn si
sforzò di ignorare
l’allusione appena udita. Il principe ventilava, come se
niente fosse, un
possibile sacrilegio con la stessa leggerezza
dell’ingannatore: entrambi si
ritenevano al di sopra delle leggi e credevano di essere eroi
così superiori a
tutti gli altri che, per loro, le regole non avevano significato.
Poiché il
tonante non aveva altro da aggiungere e se ne stava andando,
tentò di
trattenerlo volgendo il discorso su ciò che le premeva di
più sapere.
“Sei
preoccupato per
lui?”
Thor
s’irrigidì e
contrasse la mascella squadrata. Sigyn suppose che avesse risposto a
quella
domanda troppe volte, da quando era tornato; certamente non desiderava
parlarne
ancora con lei, un’estranea, un’ospite la cui
fedeltà non era nota né provata.
Non ancora, almeno, ma questo, la scintilla, non poteva saperlo.
“Mio fratello
se la caverà. Se la cava sempre,” disse a mezza
voce. Non le concesse altro.
Loki
tornò ad Asgard
alcune settimane dopo. Il suo bel sorriso beffardo era segnato da una
ferita
fresca, che gli impediva di articolare anche la più semplice
frase senza che
una fitta di dolore lo trafiggesse. Entrò nella sala del
trono di Odino col
passo deciso del condottiero trionfante e un bagliore sinistro negli
occhi. In
una mano stringeva un sacco che si rivelò contenere la testa
di un generale
avversario. La offrì a suo padre con feroce soddisfazione,
incurante delle
sopracciglia aggrottate dell’altro. Si era liberato, ma
nessuno sapeva da cosa
e l’ingannatore non raccontò che pochi dettagli
della sua prigionia.
Particolari ammantati di bugie, create appositamente per far spiccare
lui,
Loki, e far sembrare la cattività come una festa noiosa,
nient’altro. Sigyn
all’inizio gli credette. Non aveva avuto modo di avvicinarlo
ed era sollevata
per il suo ritorno. Pensò che la sua gioia era dovuta al
senso di colpa che le
stringeva il cuore, perché le ultime parole che si erano
scambiati prima che
lui partisse erano sembrate una maledizione alle orecchie di entrambi;
non
poteva nascondere di aver creduto, nelle fredde notti di Asgard, che
l’astuto
principe fosse stato punito dalle Norne per volere degli Antenati a
causa di
quel bacio tanto anelato e per nulla fugace, espressione di un
desiderio che si
era infilato nella carne, nelle vene, nel sangue e nei pensieri di
entrambi. Lo
vide e fu felice. Non si curò del fatto che
l’ingannatore si era limitato a
rivolgerle non più di qualche breve e bruciante occhiata e
non notò nulla di
strano, in lui.
Non
all’inizio, almeno.
La ferita al
labbro
tormentava il dio dell’inganno. Era stata malcurata e si era
riaperta più
volte. Bruciava ogni volta che apriva bocca per parlare, sorridere,
mangiare e
bere, persino. L’idromele, anziché essere un
balsamo, sembrava una punizione,
eppure non riusciva a farne a meno. Ne aveva bisogno per stordirsi, per
addormentarsi senza risvegliarsi di colpo, con uno strato di sudore
gelido
addosso. Subito, nei primissimi giorni del suo ritorno, quando le
domande sulla
sua avventura non si erano ancora placate, s’impose di bere
il meno possibile;
non desiderava diventare schiavo di un vizio che, presso gli
Æsir, era la prima
delle maledizioni, capace di fiaccare persino il guerriero
più valoroso. Da
ragazzino aveva assistito all’inevitabile declino di molti
eroi, e l’aveva
fatto col piglio giudicante che solo chi è appena uscito
dall’infanzia possiede.
Accolse con un
moto di
stizza la notizia che gli sarebbe rimasto per sempre il segno della
prigionia
addosso, a tagliargli verticalmente il sorriso. Per tutta risposta,
vuotò un
corno nonostante il dolore lancinante, anzi, a dispetto di esso e di
tutti i
suoi propositi di limitare l’alcol.
Sigyn lo
incrociò in quel
momento, con la mano che reggeva, facendolo dondolare appena, il lungo
corno
ormai leggero. Lui puntò, finalmente, i suoi occhi accesi e
chiarissimi su di
lei, ma non allo stesso modo di un tempo, no. C’era qualcosa
di diverso; un
barlume di follia che non se ne sarebbe mai andato, capace di far
tendere la
schiena dell’ancella dalle labbra violate, dal cuore ormai
impuro. La osservò
per un momento, come se stesse ponderando con attenzione se convenisse
parlarle. Erano soli, fatta eccezione per una guardia assonnata il cui
turno
stava per terminare, a cui certo non interessavano più di
tanto i movimenti del
principe cadetto. Loki accennò il principio di un ghigno,
nei limiti consentiti
dalla ferita ancora dolorante.
“Pare
che nemmeno l’ira
degli Antenati abbia potuto fermarmi,” esordì,
sollevando con fierezza il mento.
Sigyn
trovò che fosse
crudele e insinuante. Lesse nel suo volto affilato un compiacimento
sfacciato
laddove lei bruciava per i sensi di colpa. Loki la guardava impallidire
e,
senza il taglio, avrebbe sorriso, anzi, sarebbe scoppiato a ridere come
faceva lui,
buttando la testa all’indietro. Lo divertiva che lei avesse
pensato di essere,
in qualche modo, responsabile di un incidente che si era risolto,
sebbene per
vie oscure. E l’ingannatore sembrava voler continuare a
considerare l’intera
questione come uno scherzo, perché aveva in spregio gli
Antenati e non
riconosceva la loro autorità. Sbagliava, pensò
Sigyn.
“Ero
preoccupata per te,”
ammise abbassando il capo. Non voleva che la squadrasse ancora, e la
metteva a
disagio la nuova luce che non accennava ad abbandonare il suo sguardo.
Non lo
avrebbe fatto mai più, ma l’ancella non poteva
sapere nemmeno questo.
“Dovevi,
in effetti,” fu
la risposta, piccata solo all’apparenza.
All’ancella
sembrò che
qualcosa, tra loro, si fosse rotto, spezzato. Le mancarono le parole
per apostrofarlo
riguardo l’anello o soltanto per dirgli che condividevano,
oltre al bacio sacrilego,
il fatto di essere stati trattenuti contro la loro volontà.
Eppure,
quest’ultima considerazione sapeva di menzogna. Rapidamente,
Sigyn rifletté sul
fatto che non avrebbe dovuto custodire il gioiello per tutte quelle
settimane.
Sentiva di essere stata in qualche modo complice di Loki e che, se
avesse
restituito il prezioso, avrebbe dovuto ammettere ad alta voce di averlo
baciato, sognato, atteso. E tutto questo non riusciva né
poteva articolarlo né davanti
a lui né nei propri pensieri; non ancora, almeno.
E poi, qualsiasi
cosa
fosse successa all’ingannatore, le loro esperienze non erano
minimamente
accostabili. Lui portava sul bel viso affilato i segni palesi di una
tortura.
Era stato catturato e costretto a una prigionia oscura durata
settimane:
l’ironico disinteresse con cui elargiva qualche sporadico
dettaglio sulla
vicenda spaventava Sigyn, perché conosceva poco il figlio
cadetto di Odino, ma
si era accorta che amava parlare di sé ed essere il
protagonista assoluto delle
sue storie; eppure, ora che avrebbe potuto tenere alta
l’attenzione di tutti
gli ospiti dei grandi banchetti di Odino spiegando cosa era successo e
come si
era liberato, nicchiava. Thor sosteneva, con voce annoiata, che si
trattava di
qualche tecnica messa in atto ad arte da quel pedante del fratello; il
silenzio
acuiva il mistero, ammantava la sua cattività di
un’aura leggendaria. Il
giovane dio dell’inganno creava un mito senza avere bisogno
nemmeno di raccontarlo.
Ma Sigyn, che, seppure in modo diverso, si fregiava del titolo di
prigioniera,
non era di questo avviso. Sapeva che nell’animo scaturiscono
strane idee,
quando la libertà viene negata. E se lei, cui era stata
inculcata fin dalla
nascita l’idea che il suo destino dovesse esaurirsi dentro il
chiostro di un
tempio, la sua vita trascorrere nella contemplazione e nella preghiera,
aveva
vacillato, cosa poteva essere scattato nella mente di un giovane uomo
volitivo
e sfrontato come Loki, nato per essere re?
Il principe di
Asgard
attese ancora qualche istante che lei parlasse, poi la
lasciò sola, perdendosi
nelle sue riflessioni contorte, nei ricordi che celava e in quelli
condivisi
con parsimonia. La mente di Sigyn fabbricò pensieri che lei
non ebbe modo di
filtrare o bloccare; l’ingannatore le dava già le
spalle e si allontanava
sempre più con il suo passo deciso ed elastico, la schiena
fiera, la testa
alta. Il mantello verde cupo, ormai, le ondeggiava davanti, sempre
più distante.
Lo rincorse quel tanto che bastava perché lui la udisse;
disse di essere
dispiaciuta, informandolo che, di lì a qualche ora, sarebbe
andata in
biblioteca. Loki non si voltò, né diede segno di
essersi stupito per quel mezzo
appuntamento concesso.
♥
Alla scintilla
si ruppe
il cuore.
Si
frammentò in schegge
dolorose come ognuna delle parole di Thor. Aveva una voce diversa, il
primo
figlio di Odino; più grave e adulta di quella che ricordava,
come se la sua
anima fosse stata scalfita così profondamente dalla perdita
e dal tradimento da
risvegliarsi completamente. Era stato un principe arrogante e superbo,
ma non
privo di un coraggio genuino e cristallino. Ora era un uomo,
definitivamente.
Uno che era venuto a visitarla per condividere con lei un lutto a costo
di
lasciarla con l’anima lacerata e sanguinante. Loki non
c’era più. Si era
lasciato cadere, punendosi per non essere stato degno
dell’amore di un padre
che l’aveva ingannato. Scoprendo di essere uno Jotunn, non
era riuscito a
riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio, lui, che era
un gigante
di ghiaccio con lo spirito di un Ase. E Sigyn ripensò alle
albe fredde e
meravigliose che aveva passato accanto a Loki, cercando
d’imprimersi nella
mente ogni particolare del suo corpo, ogni lineamento del suo viso
affilato. C’era
stato un tempo in cui si risvegliava in un letto che tratteneva tra le
coltri
il profumo mescolato della loro pelle. Allungando la mano, poteva
incontrare la
schiena larga e perfettamente scolpita di Loki addormentato, cingergli
i
fianchi asciutti, carezzargli un braccio, posargli un bacio leggero tra
la nuca
e il collo, stringersi contro di lui e modulare il respiro con il suo,
regolare
e profondo. Ma il dio dell’inganno non c’era
più.
Aveva scelto di
morire,
di andarsene, di rinunciare a una sepoltura che avrebbe accolto le
lacrime di
chi l’avrebbe pianto. Lo immaginò altero e
sprezzante com’era sempre stato, che
prendeva la decisione di scomparire anziché chinare il capo.
Com’era da lui.
Imprigionata nel
buio
senza soluzione in cui era costretta, si accasciò a terra,
tremante,
graffiandosi il viso, trattenendo un singulto che partiva dal centro di
lei,
dal suo cuore dolorante e infranto.
Thor
raccontò di una
battaglia avvenuta sul Bifrost, del suo esilio e della breve reggenza
di suo
fratello, oscuro e tormentato com’era sempre stato, ma Sigyn
non riuscì a
seguire il filo di quel racconto. Mentre lui descriveva con voce bassa
e
commossa di come entrambi fossero rimasti appesi alla lancia di Odino
finché
Loki non aveva, di sua sponte, lasciato la presa, la scintilla
ricordava come
quelle mani di mago dalle linee eleganti intagliassero con
velocità e perizia
giocattoli per Balder bambino, le sue dita scrivessero con
fluidità e
precisione appunti e formule sulla pergamena spessa e porosa, la sua
bocca la
baciasse con infida e bruciante voluttà. Loki non
c’era più, era morto. Il suo
corpo si era disfatto, e anche se qualcuno l’avesse raccolto,
il dio
dell’inganno non esisteva: le sue spoglie giacevano sole,
prive dell’anima.
Frugò nella sua memoria sempre più labile in
cerca del principe cadetto degli
Æsir, tentando di trattenere qualcosa di lui. Il modo di
inarcare le
sopracciglia, la studiata lentezza con cui accostava un corno
d’idromele alle
labbra, il ghigno sfacciato e la postura che teneva durante i
banchetti, a metà
strada tra l’irriverente e l’annoiato. Non
c’era più e il buio si chiuse,
definitivamente su Sigyn.
Non era
più solo
l’assenza della vista, a tormentarla. Parlava, pregava e
lavorava con la stessa
solerzia di sempre, ma in maniera meccanica, come se non fosse nel
chiostro, a
curare le rose di un giardino che non poteva vedere, ma altrove, in un
limbo
grigio abitato da fantasmi. Respirava, ma con l’indolenza di
chi replica un
gesto per abitudine, senza chiedersene il motivo. Così
passò l’inverno e poi
l’estate, e poi un altro inverno ancora, in un susseguirsi di
stagioni che, nel
loro rincorrersi, per Sigyn, non significavano nulla. Di visioni, dopo
che Loki
cadde dal Bifrost, non ne ebbe più, così come
scelse di non tirare mai più
fuori dal suo nascondiglio l’anello, dono fatto con
l’inganno da un
affascinante bugiardo, portato con sé come pegno di un amore
perduto e di una
vanità sacrilega. Non ne sfiorò la pietra rosata
fino a quando, anni dopo, una
banda di predoni, all’improvviso, non assaltò il
tempio.
Era
un’altra delle cose
che la scintilla non aveva visto. Lui se n’era andato e,
nonostante la
maledizione che attanagliava Sigyn fosse sempre più vicina a
compiersi, la sua
capacità di vedere era svanita. E che spiraglio di futuro
aveva scorto, poi?
Sogni confusi sul destino di Asgard, sul Ragnarok promesso da
un’altra
veggente, nella Voluspa che era un poema e una predizione insieme.
Quando i predoni
assaltarono il tempio, Sigyn sapeva solo che non sarebbe morta
così, tra le
fiamme e le urla delle sue consorelle. Kalfr rimase ucciso, la sua
testa venne
infilata su una picca posta all’ingresso del Tempio. Molte
delle ancelle lo
seguirono, quel giorno. A lei, toccò in sorte qualcosa di
diverso. Si fece
portare via senza protestare né tentare di fuggire: non
aveva più una casa e
certo non considerava tale il tempio. Sentiva di appartenere
già al mondo degli
spiriti, di essere fredda e morta come lo era Loki, il cui corpo
disperso non
sarebbe mai stato ritrovato. Dopo la sua caduta, gli Æsir
avevano frenato le
loro incursioni e conquiste. La proverbiale accortezza di Odino si era
trasformata in cautela e, infine, era diventata stanchezza. Thor, poi,
anziché
affiancare il genitore nell’arte del governare, aveva
preferito concentrare
ogni sua attenzione su Midgard, di cui sentiva una nostalgia profonda.
Quando i predoni
entrarono nella sua cella per portarla via, Sigyn non oppose alcuna
resistenza.
Si alzò con la dignità con cui, in un altro
tempo, era salita sul drakkar che
l’avrebbe condotta ad Asgard. Allora aveva sollevato appena
la bella gonna del
suo abito rosso e un principe sfacciato le aveva riservato la
galanteria di
aiutarla, dopo averla pretesa per sé. Era stato
l’inizio di un amore che durava
ancora e sarebbe durato finché la scintilla non sarebbe
discesa nuovamente nelle
profondità dell’Yggdrasill, dove, tra le radici
marce del frassino sacro, l’aspettava
l’essere cui suo padre l’aveva immolata, da cui
nemmeno l’astuto Loki era
riuscita a salvarla. Quello era il suo destino: l’aveva visto
con nitidezza grazie
al potere che, ormai, sembrava esserle scivolato via dalle dita. E
l’ingannatore, che non amava le profezie perché
nessuno doveva intralciare i
suoi piani, nemmeno le Norne coi loro telai, si era sforzato di non
leggere la
verità nei suoi occhi, di non cogliere i segni evidenti
della sua vista che,
per punizione, si andava abbassando, portandola verso la
cecità. Riteneva di
aver perso una battaglia, ma non la guerra, incapace com’era
di accettare la
sconfitta, di inghiottire l’amara realtà dei
fatti. L’aveva chiamata bugiarda e
aveva ragione, dimenticandosi, però, che ogni menzogna, per
risultare davvero
perfetta, necessita di qualcuno disposto a lasciarsi incantare. Quel
ruolo era
toccato a lui e l’Ase non era riuscito a perdonarlo
né a lei né a se stesso.
Ma il principe
cadetto di
Asgard era polvere nel vento, apparteneva alla schiera delle anime che
popolavano l’Oltretomba.
A Sigyn non fu
torto un
capello né rivolta la parola durante il breve viaggio che le
toccò affrontare.
I predoni erano superstiziosi e temevano la malasorte. La strega cieca,
con i
lunghi capelli sciolti e spettinati che le scendevano sulla schiena, al
contrario delle altre ancelle non aveva gridato né
supplicato, sentendoli
entrare. Si era limitata a rivolgere il bel viso pallido e stanco verso
di loro,
alzandosi con la dignità della principessa che era stata,
come se l’abito nero
che indossava, coprendola dal collo ai piedi e lasciandole scoperte
solo le
mani, fosse stato di seta e non di lana. In altre circostanze
l’avrebbero trovata
graziosa, riconoscendo nel naso deliziosamente a punta e nelle labbra
invitanti
i segni di una bellezza particolare e curiosa, ma
l’austerità della sua cella,
il lutto che ostentava e la sua aria folle e scarmigliata, la facevano
assomigliare più a uno spettro che a una donna ancora
giovane. E poi, Sigyn portava
su di sé, incontrovertibili ed evidenti a qualsiasi occhio,
i segni della
maledizione che la voleva immolata a qualcosa di oscuro.
Li
aspettava, o non aveva nulla da perdere,
oppure ricordava l’insegnamento antico che le aveva dato il
figlio dagli occhi verdi e il sorriso furbo di un pirata: che non bisogna rinunciare alla
fierezza
nemmeno di fronte alla cattività o alle sconfitte.
Così lei offrì le braccia
dai polsi sottili, di fata, e si limitò a stringersi nel suo
mantello nero,
certa che il suo sguardo grigio e offuscato, ma evidentemente
terrificante,
avrebbe impedito agli uomini di frugarle gli abiti. Se lo avessero
fatto, l’incantevole
anello che Sigyn incautamente custodiva ancora, sarebbe saltato fuori.
Ma i
predoni erano stati addestrati nella paura dell’ignoto e
dell’inconoscibile e
temevano fortemente la magia. Così, la silenziosa strega
cieca non venne disturbata
fin quando qualcuno non osò avvicinarsi a lei quel tanto che
bastava perché la
scintilla sentisse due dita fredde sfiorarle la guancia. Si ritrasse e
serrò le
labbra.
“Stai
commettendo un
sacrilegio,” sibilò, avvolgendosi più
strettamente nel mantello color pece. Non
poteva saperlo, ma viaggiavano su una nave veloce e snella, dalla prua
aguzza,
orgoglio di un guerriero il cui nome, nei Nove Regni, non veniva mai
pronunciato.
L’avvertimento di Sigyn non sortì alcuna risposta,
ma l’ancella ebbe la netta
sensazione che chi l’aveva sfiorata stesse sorridendo. Di
certo, era ancora
davanti a lei e la fissava con ostinazione. Lo sentì
spostarsi di due passi
indietro, intuì che stesse impartendo qualche ordine, ma il
rumore delle
armature metalliche e della nave stessa le impedirono di cogliere
qualsiasi intonazione
o voce potesse esserle utile per capire cosa stesse succedendo.
Ragionò su ciò
che sapeva – che niente avrebbe cambiato il suo destino
perché l’aveva visto: le
radici marce dell’Yggradsill l’attendevano,
pulsanti e nauseabonde, e nella
grotta naturale sottostante c’era l’oscurità,
in fremente attesa. Infine,
una voce ignota la distolse dai suoi ragionamenti, ordinandole di
alzarsi.
♥
Loki non venne
in
biblioteca, quella sera. Sigyn lo aspettò invano, sfogliando
i libri che parlavano
delle imprese di Bor e di Odino. Era altrove, era lontano, sembrava non
essere
mai veramente tornato ad Asgard. E l’ancella, chiudendo i
libri, si rese conto con
dispetto e sgomento che lo aveva atteso e non smetteva di pensare al
bacio che
si erano scambiati, all’immagine dell’Ase a torso
nudo durante il rito, alla
sua figura agile e scattante che montava a cavallo, camminava su un
drakkar e
maneggiava le armi come se non il trono di Odino, ma
l’universo intero fosse
suo di diritto. Tormentando una lunga penna di corvo con cui aveva
preso
qualche appunto distratto, ripensò ai poemi
d’amore e alle poesie che si bisbigliavano
l’un l’altra lei e le sue sorelle sotto le coperte:
frasi imparate a memoria,
di cui loro, bambine e poi ragazze dall’immaginazione fervida e
nessuna distrazione,
coglievano a malapena il senso, ma che ora riaffioravano sulle labbra
nervose
di Sigyn: struggimento. Era questo il nome del nodo
che le serrava lo stomaco
e il cuore? E perché, per quale motivo il figlio
più oscuro di Odino destava il
suo interesse? Doveva odiarlo per come la guardava – con
insistenza,
divertimento e qualcos’altro, per l’ironia
tagliente che le riversava contro,
per l’anello, dono magnifico e oltraggioso, per i complimenti
assolutamente
fuori luogo, per la verità che, con difficoltà,
le aveva confessato, per aver
premuto le proprie labbra sulle sue, attirando su entrambi la sventura,
sporcando
i suoi pensieri di ancella devota e fedele. Si coprì il viso
con le mani: almeno
da questa colpa, Loki doveva essere sollevato: i suoi pensieri si erano
già
macchiati, ben prima di quel bacio.
Loki non venne
quella
sera, ma il pomeriggio seguente si sedette davanti a Sigyn come se
nulla fosse,
adagiando le spalle sulla sedia come se si trovasse su un trono. La
ferita che
gli tagliava la bocca era ancora rossa e lui stirò appena
le labbra. “Ho
trovato un modo per aiutarti,” esordì,
allungandole una pergamena accuratamente
piegata in quattro parti.
L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori
del mio cuore,
avete avuto una pazienza
infinita nell’aspettarmi per quasi un mese! Dato che Natale
è vicino mi sono
ripromessa di ritagliarmi un po’ di tempo –
è quello che manca, mai l’ispirazione
per questi due piccioncini adorati ♥ - per scrivere un
po’ di più. Non dico che
potrei riuscire ad aggiornare tutte le settimane, però
sicuramente il capitolo
20 e il 42 di Accordo arrivano presto, anzi, prestissimo. Ringrazio di
cuore Miryel
per avermi dato il bellissimo prompt che ha dato via a questa storia
(te
possino, Co’, doveva essere al massimo una minilong!). Ah,
rileggo rapidamente
e posto, sperando che non ci siano troppi refusi, ma o adesso o mai
più, sapete
come si dice…
Ringrazio chi ha listato,
recensito o semplicemente letto questa storia: siete importanti e sappiate che
leggo tutti i vostri
commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi
palesate
lo faccio e sono molto alla mano, ecco. Se avete piacere, passate su Ombre
e fate attenzione agli avvertimenti. Piacerà anche a chi ama
il canone.
Ricordo che il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi
autorizzo a
ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui
né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale
per gli headcanon su
Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi
non è uno
scherzo.
A presto e grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra, presente
anche nell’assenza,
Shilyss
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