SEROTONINA
• Capitolo 1 - Preistoria
“…E
voglio un pensiero superficiale
che
renda la pelle splendida
senza
un finale che faccia male
coi
cuori sporchi
e
le mani lavate
a
salvarmi
vieni
a salvarmi …”
-Voglio una pelle splendida – Afterhours -
Quando Naozumi dormiva a casa
mia facevamo l’amore due volte, guardavamo almeno un paio di
episodi di una sitcom che ci piaceva poco e niente solo per ripeterci
che non ci piaceva affatto e mangiavamo corn fleks a letto senza
trovarlo né piacevole, né fastidioso.
Poi lui si addormentava girato
su un fianco, io fissavo un po’ il soffitto, aspettavo
attenta quella sensazione di stretta alla gola, di respiro via via
più incalzante e a quel punto sgattaiolavo dal letto al
bagno, prendevo le medicine e finalmente crollavo.
Già, le medicine.
Noi che neanche ci accorgevamo
di avere le emozioni difettose le chiamavamo così, con un
termine generico ma estremamente preciso.
Eppure
c’è un nome per ogni medicina.
Se hai mal di stomaco prendi
un antiacido, se hai la febbre un antipiretico, se hai mal di testa un
analgesico.
Ma con che farmaco si cura
un’emozione che non si prova?
C’era chi diceva che
pronunciare per intero quel nome “psicofarmaci”
creasse un certo imbarazzo quindi si tendeva al generico
“medicine”.
Per me erano solo stronzate,
dire di provare imbarazzo presupponeva uno stato d’animo e a
quel punto era come dire che non c’era più bisogno
di prenderle, le medicine.
Io ho sempre pensato che
nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le
chiamavamo così, con quel generico
“medicine”, perché in realtà
non sapevamo cosa cazzo stavamo curando.
Quando Naozumi si svegliava se
ne restava sempre per un po’ seduto sul letto. Si
stropicciava gli occhi guardando il cellulare, poi faceva tre sbadigli
grattandosi la testa e andava in cucina.
Lo sentivo mentre apriva la
dispenza, mentre cercava la confezione di pane a fette, la
scartocciava, ne prendeva due e le infilava nel tostapane.
Poi prendeva la marmellata dal
frigo, io dalla stanza da letto sentivo il cigolio della porta che si
apriva fin dentro alle tempie, e a quel punto mi alzavo anche io,
roteavo un po’ la testa da un lato all’altro e lo
raggiungevo in cucina.
«Stasera non so se
sarò dei vostri.» Me lo disse rimanendo di spalle,
continuando a curiosare nel mio frigo che lui trovava sempre
“privo”.
Aveva questa caratteristica
Naozumi, usava il termine privo e lo accostava a molte cose della mia
vita.
Io per esempio percepivo che
lui fosse privo di alcune cose, cose non tangibili, che non facevano
propriamente parte della sua vita, era una questione più
intima, la cosa comunque mi lasciava piuttosto indifferente.
M’imbambolai a
guardarlo grattarsi la testa confuso, diviso tra il prendere le fette
ormai fin troppo tostate dal tostapane o cercare il coltello per
spalmarci su la marmellata.
Ma non feci niente.
Aspettai si sistemasse al
tavolo, lamentandosi del pane troppo caldo e della marmellata troppo
fredda.
«Capito quello che
ho detto?» Mi chiese, mettendomi davanti una fetta di pane
ricoperta da appena una striscia di marmellata.
«Non sai se ci
sarai.»
«Già…
Ti dispiace?»
Rimirai la fetta di pane con
poco interesse. Non ne avevo poi tanta voglia di quella roba.
«Se non vuoi venire,
non venire, mica posso obbligarti?»
Sgranocchiò un
pezzo di pane sporcandosi un po’ il labbro con la marmellata.
«E’ che
siete tutti vecchi compagni di scuola, mi sentirei a disagio e poi ho
due copioni da valutare con Miho e Take, ne approfitterei.»
«Fa come vuoi, Nao.
Te l’ho detto.»
«Ci sarà
pure Hayama?»
«Così mi
sembra di aver capito, ma non lo so se ci viene mica.»
Lui mi guardò
giusto un po’, alcune briciole gli erano rimaste attaccate
sul labbro tra la marmellata.
«Uhm…»
«Già…»
«E dove vi
vedrete?»
«Mi sembra al Mambo,
dopo sento Hisae.»
«Non
mangi?»
«Si…»
Fissai la fetta per qualche
istante prima di addentarla con pochissima convinzione.
Lui si alzò, prese
del succo all’arancia dal frigo e lo mise in tavola insieme a
due bicchieri.
«Devo cambiarlo
questo frigo, il cigolio di quella porta mi rimbomba nelle
tempie… Appena ho voglia lo faccio.»
«Dici sempre
così…»
Già, dicevo sempre
così.
«Comunque,
Sana… Tornando a stasera…»
Sapevo già dove
stava andando a parare, sbuffai lasciando andare nel piatto quella
fetta di pane tostato smangiucchiata e ormai fredda e mi alzai di
scatto.
«Non ti devi
preoccupare, pensa al tuo lavoro e va da Miho e Take. Io
reincontrerò i miei vecchi amici, farò finta che
ciò che dicono m’interessi, che il cibo sia
buonissimo e poi ce ne torneremo a casa. Ognuno nelle proprie
vite.»
«Non sono
tranquillo… Ora.»
Sapevo benissimo quello che
gli stava passando nella testa, chi soprattutto.
«Senti, Nao, non
essere ridicolo! Se lo vedessi per strada non saprei neanche
riconoscerlo, e poi, non credo verrà e se anche lui dovesse
venire, non mi cambia certo la vita,.»
«E a lui?»
Una piccola parte di me se lo
chiese. A lui avrebbe cambiato la vita? Durò un solo istante
ma mi parve di sentire qualcosa. Mi sentii patetica.
«Potresti limitarti
a me?»
«Lo sai che mi fido
di te.»
«E allora dacci un
taglio.»
Poi mi alzai lasciandolo
lì a pulirsi la bocca.
Quando andavo dalla mia
psicoterapeuta, la dottoressa Aoki, mi colpivano due cose: i pomelli
d’ottone antichi ad ogni porta della sala d’attesa
e il numero eccessivo di piante che adornavano il suo studio.
Ci andavo ogni
venerdì lì da lei perché mia madre lo
trovava necessario, io invece non lo trovavo necessario, ci andavo solo
per farmi prescrivere le medicine, ma non glielo avevo detto.
Durante la settimana potevo
inviarle persino dei messaggi, lei si era mostrata disponibile ma io
non avevo mai sentito il bisogno di farlo.
Non avevo niente da dirle, mi
bastava quello che mi dava.
Avevo appena terminato il
questionario, l’ennesimo propinatomi dalla dottoressa Aoki, e
mi chiesi se fosse veramente possibile incasellare un individuo in un
paio di fogli A4.
Io poi quei fogli li compilavo
senza neanche più leggere le domande.
Pensai che quel mestiere fosse
sopravvalutato.
Per me era solo una sorta di
spacciatrice legalizzata, l’ennesima.
«Ha avuto bisogno di
prendere più medicine della settimana scorsa in questa
settimana?»
«Stanotte ho avuto
un attacco di panico.»
«Uhm…»
«Mi sa dire
perché?»
«Siamo qui per
capirlo, Signorina Kurata… Quindi mi diceva che stasera ci
sarà questa cena con i vecchi compagni del liceo…
Pensa di andarci?»
Me lo chiese con una certa
premura, mentre io ancora mi rimiravo quei fogli tra le mani.
«Già…»
«Ottimo signorina
Kurata.»
«Dice?»
La mia domanda forse la mise
un po’ a disagio, mi fece cenno di restituirle i fogli
compilati e mi regalò un sorriso veloce.
«Beh se è
la prima cosa che mi ha detto mettendosi a sedere, evidentemente ha
piacere di andarci.»
«Io, veramente,
rispondevo solo alle sue domande, mi ha chiesto se stasera avevo
impegni e le ho risposto di sì. Mi ha chiesto di cosa si
trattava e le ho risposto che era una cena tra vecchi compagni del
liceo… Tutto qui.»
«Beh,
però ha deciso di andarci. Come si sente a
riguardo?»
Sospirai già
esausta.
«Me lo dica lei, in
fondo la pago per questo.»
«Signorina Kurata
lei non mi paga per dirle come si sente, ma per
capire…»
«Per capire come si
sente… La conosco la tiritera! Gliel’ho detto, io
non sento proprio niente se non la noia di ripeterglielo ogni
volta.»
«Anche non sentire
niente è qualcosa, lo sa, Signorina Kurata?»
Beata lei che aveva tutte
quelle certezze.
«Io penso
solo…»
«Cosa?»
«Niente, lasci
perdere.»
«No, la prego,
continui. Cosa pensa?»
«Penso che la gente
non sappia starsene tranquilla, ecco quello che penso. Basterebbe
rilassarsi, farsi andar bene le cose per quello che sono, senza farsi
domande, senza annaspare di continuo alla ricerca di
risposte…»
«Come ha fatto lei
con la sua carriera d’attrice?»
«La mia carriera
d’attrice è finita quando avevo 12 anni.»
«Dunque lei pensa
che in questi quindici anni se n’è stata
semplicemente tranquilla?»
«Lei che
dice?»
«Che se sente sia
stata la scelta giusta per lei ha fatto bene.»
Sollevai gli occhi al cielo.
Gli argomenti preferiti della
mia psicoterapeuta erano la mia vecchia carriera, la mia relazione con
mia madre, la mia relazione con Naozumi e l’odio che mia
madre nutriva per il lavoro che mi ero scelta.
«Lei non sente che
sia stata la scelta giusta, vero?»
«Non sono io che
devo sentirlo…»
«Mi scusi, ha
ragione, le riformulo la domanda: lei non sente che io sento di aver
fatto la scelta giusta?»
«Le piace fare la
cassiera in un konbini?»
«Mi piace che mi
permetta di avere una casa mia in cui potermene stare tranquilla, sola
e in silenzio senza troppe complicazioni.»
«Non crede che
tranquillità, silenzio e solitudine siano sensazioni un
po’ troppo drastiche da ricercare per una donna di 27 anni,
soprattutto se combinate insieme, soprattutto se combinate alla sua
storia clinica?»
«Può
darsi.»
La mia risposta dovette
sembrarle condiscendente, e in effetti lo era, perché a quel
punto lasciò andare un gran sospiro e stemperò
l’agitazione riordinandosi una ciocca di capelli dietro
all’orecchio.
Ormai mi sentivo
più strizzacervelli di loro.
«Questi vecchi amici
chi sono? Persone che rivede o sente spesso?»
«Sento spesso solo
una di loro, la mia amica Hisae, con il resto ho perso i
contatti.»
«Non siete rimasti
in buoni rapporti?»
Immancabilmente pensai ad
Hayama. Non eravamo rimasti in buoni rapporti? Me lo chiesi nella mente
almeno tre volte.
Avevo 12 anni
l’ultima volta in cui l’avevo visto e a quella
domanda, francamente, non sapevo rispondere.
«Uno di loro non lo
vedo da 15 anni.» Mi uscì fuori senza che neanche
me ne rendessi conto.
Notai che lo sguardo della
dottoressa Aoki si strinse un po’, impercettibilmente.
«Ha voglia di
rivederlo?»
Ci pensai un po’ su
e mi venne da ridere.
«Sa, penso che sia
probabile che in questi quindici anni io l’abbia addirittura
incrociato da qualche parte senza neanche riconoscerlo.»
«Lo trova
divertente?»
«Beh…
Considerando che a 12 anni vivevo con la convinzione che sarebbe stato
l’unico per me, mi viene un po’ da
ridere.»
«Lo considerava
importante, allora? Come mai vi siete persi di vista?»
«Certo, a 12 anni
tutte le persone che ti circondano sono fondamentali, non
crede?»
«Io ho parlato di
persona importante, lei di fondamentale e poi mi sta parlando proprio
di lui.»
«E’ la
stessa cosa e poi le ho parlato di lui perché è
l’unico che non vedo da 15 anni, gli altri li ho sempre
rivisti grazie a queste feste che la mia amica Hisae ha organizzato nel
corso del tempo!»
«Se lo dice
lei…»
Come se la matematica fosse
arrivata in suo soccorso, la dottoressa Aoki mi guardò
perplessa per un attimo.
«Lei però
non ha finito il liceo 15 anni fa… Dunque questa persona non
è stata insieme a lei al liceo…»
«Già,
però alle medie eravamo tutti nello stesso
istituto.»
«Poi lui si
è trasferito?»
«No, lui se
n’è andato.»
«Come se
n’è andato?»
«Si beh, si
è trasferito con la famiglia a Los Angeles.»
«Singolare…»
«Cosa? Che un
ragazzino giapponese si trasferisca a Los Angeles con la
famiglia?»
«No, è
singolare la scelta del verbo. Mi sembra di capire che lei lo incolpi
di qualcosa, Signorina Kurata.»
Per la prima volta non sapevo
cosa risponderle. Mi accorsi che la dottoressa Aoki portava una grossa
spilla sul foulard gliela fissai per un po’ quasi in trance.
«Le si è
aperta la spilla, Dottoressa.»
Lei mi guardò per
qualche istante prima di risistemarsela.
«E verrà
anche Naozumi alla festa?»
«No, non sono amici
suoi, soprattutto non è gente con cui potrebbe sentirsi alla
pari. Poi ha da lavorare.»
«Pensa che Naozumi
non veda di buon occhio le sue amicizie?»
«Penso che possa
pensare quello che gli pare, tanto non
m’interessa…»
«Come vanno le cose
con Naozumi?»
«Normali…
Come tra due persone che stanno insieme da due anni, credo.»
«E il sesso? Ti
piace fare l’amore con lui?»
«Si, molto, anzi
moltissimo.» Mentii, ma lei per fortuna non se ne accorse.
Le cose che mi piacevano di
Hisae erano i suoi capelli miele e le sue risposte al vetriolo,
soprattutto il fatto che avesse ancora voglia di regalarle a qualcuno
sperando di sortire un qualche effetto.
Poi mi piaceva anche il fatto
che fosse tanto esuberante e schietta.
Cercavo di vederla poco,
comunque.
Mi rendevo conto che la sua
voglia di vivere certe volte mi metteva a disagio. Da una parte mi
stremava, dall’altra temevo di potergliela in qualche modo
succhiare via senza rendermene conto e allora declinavo la maggior
parte dei suoi inviti.
Però ecco, ad Hisae
non importava molto del fatto che io mettessi delle distanze, senza
curarsi di sembrarmi invadente si presentava a casa mia ogni volta che
le andava.
C’erano delle volte
in cui non le aprivo e allora lei si piantava lì e mi
cantava dalla porta alcuni imbarazzanti jingle che canticchiavo da
ragazzina nelle mie pubblicità, finché stremata
non la lasciavo entrare.
Quel tardo venerdì
pomeriggio, più o meno, andò così.
Superai il record di jingle
pubblicitari ascoltati prima di desistere.
Sette.
Mi meravigliai li ricordasse
tutti così bene.
«Sana cosa vuol dire
che non vieni?» Hisae era bellissima, quel giorno notai lo
fosse particolarmente, ma non era solo un qualcosa di meramente
estetico, lei aveva dentro una luce e quella luce più di
tutto la rendeva bella.
Ed era proprio quella luce,
più di tutto, che quel giorno trovai insopportabile.
«Mi hanno cambiato
il turno a lavoro.»
«Sana…»
Trascinò il mio nome all’infinito guardandomi
sospettosa, tamburellando un piede sul pavimento.
«Ho il turno 20-2.
Mi dispiace.»
«E
com’è che non ti credo?»
«Beh, quando tra un
ora uscirò da questo appartamento lasciandoti qui, ci
crederai.»
La vidi sbuffare a lungo,
guardarmi senza sapere cosa dire.
Io neanche sapevo cosa dirle.
La lasciai sulla porta e mi
avviai verso il bagno senza neanche guardarla in faccia.
«Dove
vai?» Urlò.
«A fare un bagno,
tra un ora devo andare a lavoro, te l’ho detto.»
Preparandomi la vasca pensai
che la dottoressa Aoki mi aveva messo addosso una strana sensazione,
non la decodificavo, ma sentivo mi stesse agitando.
Forse era per quello che avevo
preferito un bagno caldo alla doccia.
Non glielo avevo detto che mi
aveva agitata perché dirglielo l’avrebbe portata
ad altre domande, soprattutto l’avrebbe convinta che stesse
perseguendo la strada giusta per “aggiustarmi”,
come lei e mia madre amavano dire.
Certe volte mi chiedevo se
quel termine l’avrebbe usato anche Naozumi, poi
però mi rispondevo che sicuramente mi trovava
“priva” ma non “rotta”.
Lasciai andare un sospiro e
m’immersi nella vasca.
Mi lasciai andare sentendo
l’acqua invadermi le narici, gli occhi, i timpani.
Tutto era ovattato e calmo nel
suo assordante rumore ondulatorio, tutto era distante.
Percepii i battiti del mio
cuore, i muscoli e le ossa del mio corpo allentarsi.
Tutto si lasciava trasportare
dall’acqua senza opporsi.
Mi sentivo in pace, con la
testa vuota.
Tum- tum- tum.
Forse il mio cuore andava un
po’ più veloce.
«Che cazzo fai,
Sana!»
Le urla di Hisae mi
trascinarono bruscamente alla realtà, le sue mani mi
strapparono via dall’acqua e dalla quiete che finalmente
stavo provando.
«Sei ancora
qui?»
«Cosa cazzo pensavi
di fare?»
«Il
bagno… Non si può?»
Lo sguardo di Hisae aveva
dentro delle preoccupazioni che non riuscivo a leggere chiaramente, mi
accorsi che qualcosa l’agitava, ma la sua era
un’agitazione diversa dalla mia.
La sua, a differenza della mia
che non aveva sbocchi, veniva fuori da ogni parte, dalle mani che non
stavano ferme, dagli occhi che non avevano smesso di guardarmi neanche
per un istante, dal respiro affannato.
«Ti prego
Sana…» Sussurrò prima di sparire dal
bagno portandosi una mano alla fronte.
La sentii camminare per
l’appartamento, imprecare e sbattere qualcosa con forza. Poi
rientrò nel bagno come una furia, si sedette su un angolo
della vasca e si accese una sigaretta.
Si, lei fumava.
Il fumo la calmava, lo faceva
già al liceo quando mi trascinava dietro alla palestra
dell’istituto e fumava almeno un paio di sigarette col timore
e l’ansia di essere scoperta.
Il fatto che lei avesse quel
vizio era forse la cosa che subdolamente mi legava a lei, ma non ne ero
certa.
Sentivo solo che quando la
vedevo fumare mi sentivo meno sola, un po’ più
affine.
Era più o meno una
sensazione così, la percepivo, ma era poco chiara,
più intima.
Difficilmente inquadrabile.
Io prendevo le medicine e lei
fumava.
Si esauriva in quelle sette
parole.
«Perché
hai chiesto un cambio turno?»
«Non l’ho
chiesto, te l’ho detto.»
«Non mi prendere per
il culo, Sana. E’ per Naozumi? Non vuole che vieni?»
«No…
Figurati.»
«E allora
perché?»
«Perché
cosa?»
«Aspetta!»
Urlò balzando un po’ all’indietro,
regalandosi poi una lunga boccata. «Non dirmi che
è per Hayama? Ti scoccia rivederlo?»
Hisae indossava un cappotto
cammello con una cintura stretta in vita, pensai fosse ironico che lo
indossasse mentre era in un bagno perché mi ricordava un
accappatoio.
Mi accorsi che un lembo della
cintura le penzolava nella vasca, lo sollevai con un piede e glielo
mostrai.
Lei imprecò e si
mosse per il bagno con una certa fretta alla ricerca del phon.
A quel punto mi alzai dalla
vasca anche io e mi avvolsi nell’accappatoio che somigliava
tanto al suo cappotto cammello.
«E in camera mia il
phon. Naozumi dice che non è sicuro tenerlo in
bagno.»
Lei allora lanciò
la sigaretta nel water e mi seguì in camera.
Le posai il phon sul letto e
cominciai ad asciugarmi la pelle dandole le spalle.
Lei parlò, mi disse
qualcosa che non mi arrivava perché la sua voce era coperta
da quella grossa del phon.
«Hai capito quello
che ti ho detto?» Mi chiese dopo che ebbe finito.
«No.»
«Sono passati
quindici anni, Sana. Andiamo! Non puoi privarti di una serata in
compagnia degli amici per questo! Insomma stiamo parlando della
preistoria!»
Quella parola, quel termine
che Hisae aveva buttato fuori con derisione e compatimento mi
colpì.
Preistoria.
Quindici anni fa era la
preistoria.
Sentii che la preistoria di
cui parlava Hisae corrispondeva ad un periodo storico che non
c’era più.
Io, nella mia personale
preistoria avevo sentito di amare per davvero per la prima e unica
volta sempre la stessa persona, e di esser stata riamata sempre dalla
stessa persona.
Capii che io, nella mia
personale preistoria, avevo sentito per l’ultima volta
un’emozione chiaramente.
Poi le ere si erano succedute,
di quel che eravamo non c’era più nulla, nemmeno
un reperto incastrato sotto un lembo di terra.
Un frammento inestimabile
insabbiato tra il miele dei suoi occhi e la terra arida dei miei.
Nessuno me lo trovava dentro
un frammento di Akito Hayama, ma io me lo sentivo.
Lo percepivo come un tesoro
che avevo nascosto dentro di me, un tesoro che avevo fatto esplodere e
i pezzi mi ballavano dentro senza senso, senza ordine preciso. Io che
ormai non sapevo più raccogliere li avevo lasciati
lì, esplosi, sparsi sulla bocca, negli occhi, sullo stomaco,
nei timpani.
Non era facile capire, forse
neanche volevo farlo, ma in qualche modo sottile un pezzo importante me
lo sentivo ben conficcato in un punto preciso tra lo stomaco e il cuore.
Avrei potuto ma non volevo
raccoglierlo.
C’erano delle notti
in cui sognavo che l’Akito dodicenne tornava da me, mi
scendeva nella bocca, rotolava verso lo stomaco e tentava di strapparmi
via qualcosa, qualche pezzo che mi accorgevo chiaramente luccicasse
come l’oro.
In ogni sogno io lo
rincorrevo, lo scacciavo e c’erano delle notti in cui
vincevo, altre invece in cui lui tirava via quel pezzo e veniva
risucchiato tutto, io lui, il mio corpo intero.
Come un lavandino pieno
d’acqua a cui veniva tolto il tappo.
E mi gorgogliava la gola, mi
mancava il respiro.
Per quindici anni sempre lo
stesso sogno.
Per fortuna c’erano
delle notti in cui mi lasciava in pace.
C’erano giorni in
cui la vita me lo faceva dimenticare, poi bastavano pochi dettagli
combinati sadicamente insieme e tornava alla memoria tutta quella
preistoria che avevo nascosto ben bene tra il miele dei suoi occhi e la
terra arida dei miei.
«Infatti non ti ho
mica detto che non ci vengo per lui?»
«Beh, lo spero
davvero, guarda!»
«Sul serio Hisae,
non è per lui, devo lavorare…
Semplicemente.»
A quel punto mi
passò il phon e cominciò a cercarsi qualcosa
nella borsetta.
«Comunque la serata
l’ha organizzata lui… Ci pensi? Non è
mai venuto ad una delle nostre serate e poi così di punto in
bianco…»
«Me l’hai
già detto Hisae.»
«Si lo so,
però… A dire il vero non è che lui
abbia proprio organizzato, cioè noi due ci siamo incontrati
la settimana scorsa per caso e lui mi ha detto che avrebbe avuto
piacere di rivedere tutto il vecchio gruppo.
Così…»
«Hai organizzato
tutto.»
«Già…
Lo sai come sono fatta!»
«Beh comunque sia
andata, buon divertimento e salutami tutti.»
«Comunque se come
dici “lui” non è un problema possiamo
passare a prenderti all’uscita da lavoro
e…»
«No, grazie.
Sarà per la prossima volta.»
Poi accesi il phon, di quel
che disse non mi arrivò niente, se non un brusio confuso che
si faceva sempre più lontano insieme alla sua figura
sorridente che si fiondava via dal mio appartamento allargando
platealmente le braccia.
La cassiera in un kombini.
Era quel che facevo, sotto
sotto ciò che ero.
Mi piaceva molto quel lavoro,
più di tutti quelli che avevo improvvisato negli anni dopo
la fine del liceo.
Mi piaceva perché
non era impegnativo, solo una sequela di gesti meccanici da memorizzare
rapidamente, perché non mi faceva parlare troppo con le
persone e perché, qualsiasi cosa accadesse a quelli che ci
entravano, mi dava l’opportunità di percepire
sempre un certo distacco, come un velo trasparente tra me e loro.
Tipo pellicola per alimenti.
Tipo quella che avvolgeva
quasi ogni cosa venduta in quel posto, mi tranquillizzava quando la
toccavo strisciando tutto sul lettore, poi prendevo i soldi, in caso
davo il resto, dei sacchetti e tutto iniziava e finiva in poche azioni
per poi ricominciare un attimo dopo in una catena infinita e sempre
uguale.
Hisae una volta mi chiese se
mi facesse sentire un robot quel lavoro, mia madre lo ammetteva
categoricamente, Naozumi si limitava a tacere pensando di sicuro che
quella fosse l’ennesima fase passeggera che stavo
attraversando e che mi rendeva “priva” di ambizioni.
Io ammiravo la loro
lucidità delle volte.
Quando lavoravo lì
al konbini mi rendevo conto che il tempo mi passava velocemente. Certe
volte mi accorgevo che alcuni clienti della mia età o anche
più giovani, mi riconoscevano.
Ero certa che alcuni di loro
mi ricordavano come la ragazzina esuberante e allegra che aveva
contagiato di buon umore la loro infanzia, nutrivano per me un affetto
sincero e per questo non si permettevano di farmi domande né
di chiedermi se effettivamente ero io quella Sana Kurata della loro
infanzia.
Poi ce n’erano degli
altri che me lo chiedevano in un’espressione commiserevole a
cui rispondevo con un sorriso finto almeno il doppio della loro
compassione e un tranquillo. “Va tutto bene,
l’importante è essere felici.”
Il fatto che io poi fossi la
ragazza di Naozumi, il grande attore, astro chiaro e lucente nel
firmamento delle stelle del cinema giapponese, non era noto al grande
pubblico, i suoi due manager non lo avevano trovato opportuno per la
sua immagine.
Da quella decisione
scaturì una grossa crisi interiore di Naozumi che
durò giusto il tempo di un mio laconico “Non
importa.”
E così, Naozumi
Kamura, con due parole, cominciò a concepire come opportuno
il privarsi di me davanti al mondo intero.
Era la caratteristica che
maggiormente ci teneva uniti questa attitudine al sentirsi
“privi” di me.
Quando vidi Nobu entrare dalla
porta con la sua camminata trascinata, sempre un po’
esitante, guardai l’orologio alla parete.
«Sei in
anticipo…»
«Già, se
fossi rimasto a casa sarei crollato tra le scartoffie...»
Nobu era una persona che
m’infondeva una certa calma. Forse perché era
più giovane di me di qualche anno, o forse perché
non era un tipo particolarmente loquace, fatto sta che in sua compagnia
mi sentivo particolarmente a mio agio.
Era un semplice collega, tra
noi non c’erano mai stati incontri in posti diversi dal
konbini in cui lavoravamo, ma era una delle poche persone al mondo che
non percepivo distante.
Di me sapeva che ero stata una
idol e che per qualche motivo quella carriera mi aveva stancato, che
mangiavo di nascosto le caramelle riservate ai clienti e che mi piaceva
parlare poco di me.
Tutto questo lo aveva capito
senza chiedermelo.
Di lui io sapevo che studiava
medicina, che non era abituato ad avere pochi soldi e che leggeva molti
libri.
La cosa che trovavo
affascinante in lui erano le mani, si vedeva che non avevano fatto
molto nella vita se non sfogliare la carta stampata.
Anche mia madre le aveva
così, anche Naozumi. Erano mani affusolate che poi si
arrotondavano squadrate sull’ultima falange, erano
particolari, come levigate dalla carta, ma quelle di mia madre e di
Naozumi non mi affascinavano come quelle di Nobu.
«Giacché
sono qui va pure a cambiarti, Sana. Tanto mancano appena 5 minuti alle
2.»
Lo vidi sbadigliare un
po’, sfilarsi lo zaino e il cappotto e mi accorsi che sotto
indossava già l’uniforme.
Pensai che gli studenti
avessero una certa naturale predisposizione nell’ottimizzare
i tempi, ma non gli dissi niente, mi limitai a sparire dietro alla
porta degli spogliatoi.
Quando venni fuori lo trovai
assorto nel leggere un libro di testo, se ne stava seduto alla cassa
nascosto da un volume che somigliava a quello di
un’enciclopedia da cui fuoriuscivano solo i suoi capelli
scuri e incasinati.
«Che stai
studiando?» Glielo chiesi avvicinandomi un po’ di
più alla cassa, accorgendomi che nel mentre trangugiava un
egg salad sandwich.
«Sistema nervoso
centrale, nuclei del rafe, processi biochimici dei neurotrasmettitori,
triptammina, 5-HT… Una pallosità… Ci
capisci qualcosa tu?»
«Assolutamente
no.»
«Ecco, neanche
io.»
«Beh, almeno il
sandwich è buono?»
«Eccome!»
Disse e con una mano me ne allungò un pezzo offrendomelo.
«No grazie, Nobu.
Proprio non mi va un sandwich alle uova alle 2 del mattino.»
«Ecco, sbagli!
L’unica cosa che ho capito fino ad ora è che la
5-HT è presente nelle uova, nei
carboidrati…» A quel punto allungò
giusto un po’ la mano verso l’espositore della
cioccolata e mi strizzò un occhio. «E nella
cioccolata!»
«5-HT?»
«Sì, la
serotonina, l’ormone della felicità. Pensi che non
abbia bisogno di una dose massiccia di felicità uno che
studia questa roba?»
Scossi la testa abbozzando un
sorriso. «Forse hai ragione, Nobu...»
Fuori dal kombini
c’era una fermata dell’autobus, quando facevo quel
turno mi appostavo lì anche un paio d’ore prima di
decidermi a prendere l’autobus e far ritorno a casa.
Mi sedevo lì e non
riuscivo più ad alzarmi.
La verità era che
mi sentivo stanca.
Non era una stanchezza
propriamente fisica, era più una condizione che percepivo.
La percepivo sempre in
realtà, in tutte le ore del giorno.
Era una stanchezza che non si
appagava mai totalmente, neanche con un riposo, e con cui convivevo tra
molti alti e bassi.
Però, quando finivo
di fare qualcosa, me la sentivo addosso in maniera pressante.
M’immobilizzava.
Il più delle volte
mi bastava rimanermene immobile per un po’ e poi, in un modo
e l’altro, mi rimettevo in moto.
Quella sera ero seduta proprio
lì, alla solita fermata con la testa poggiata al plexiglas
della banchina su cui roteavano pubblicità che un tempo
parlavano anche di me.
«Sana!!!»
Era un urlo stropicciato e scomposto.
Feci in tempo a sollevare lo
sguardo e li vidi, proprio a un passo da me.
Hisae, Fuka, Aya, Tsu e Gomi.
E poi lui.
Sono
stata colta da una improvvisa illuminazione.
Non
so francamente cosa ne verrà fuori perchè
l'ultima delle cose che avrei pensato di poter scrivere era proprio una
what if? Ma sono stata totalmente catturata da questa storia che non ho
potuto smettere di scrivere neanche un secondo.
Spero
tanto tanto che vi piaccia <3
Un bacio grandissimo
Lolimik
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