La
luce della luna penetrò da una finestra e si posò sul
pavimento ligneo, illuminandolo d’un debole alone argenteo.
Al
centro della stanza, era collocato un futon bianco, nel quale
scompariva l’esile figura di Hitosai Hyusuki.
Il
suo volto scheletrito dell’uomo, circondato da fini capelli
grigi, era imperlato di sudore, mentre il suo petto magro, coperto da
un kimono azzurro, era sollevato da respiri sibilanti.
Kyoshiro,
seduto presso la finestra, contemplava il paesaggio, gli occhi lucidi
di lacrime. Erano trascorsi tre anni dalla guerra contro il crudele
Guerroyer e i suoi seguaci.
Con
la conclusione di quel crudele conflitto, tra la Terra e Baam era
stato stipulato un trattato di pace, che aveva condotto a fruttuosi
scambi commerciali e culturali tra le due culture.
Erika
e Kazuya, liberi dalle sofferenze della guerra, avevano potuto
costruire il loro amore.
Presto,
avrebbero potuto unire le loro esistenze nel vincolo del matrimonio.
Strinse
il pugno destro, poi si tolse gli occhiali e se li pulì. Un
tempo, avrebbe augurato a suo nonno le peggiori sofferenze.
Le
avrebbe ritenute una giusta punizione per la disperazione della sua
infanzia, segnata dalla fame, dalle percosse e dalla perdita dei
suoi genitori.
Eppure,
avvertiva all’altezza del cuore un senso di oppressione quasi
fisica, che gli impediva di respirare.
Soffriva
perché suo nonno si stava consumando per un aggressivo tumore
al colon.
Sospirò
e si passò una mano tra i riccioluti capelli castani. Aveva
creduto suo nonno incapace di provare qualunque emozione.
Eppure,
aveva cercato di proteggerlo, quando erano stati attaccati dai loro
nemici.
Le
sue parole pretendevano comprensione, eppure i suoi atti rivelavano
un affetto aspro, ma sincero.
L’odio
era svanito e si era creato un legame tra di loro, rafforzato dalle
arti marziali.
C’è
stata una nemesi storica. Ma a cosa è servita?,
si chiese il giovane, amareggiato. Certo, suo nonno aveva ottenuto il
suo perdono, ma la natura non aveva dimenticato il dolore da lui
inflitto, in nome di un cieco orgoglio, a sua figlia, colpevole di
essersi innamorata dell’uomo sbagliato.
E
aveva deciso di punirlo infliggendogli un mala crudele, privo di
rimedio.
E
lui poteva assisterlo e aspettare la sua fine.
La
malattia è la vendetta della natura per avere violato le sue
leggi., si disse, amareggiato.
Charles Simmos aveva espresso una verità incontestabile in
quelle parole.
Suo
nonno, rinnegando sua figlia, aveva offeso l’equilibrio, che,
da tempo immemore, sorreggeva il cosmo.
Aveva
spezzato il legame d’amore tra un padre e una figlia, in nome
di una superbia insensata, e tale crudeltà non era stata
impunita.
Il
perdono umano, per quanto nobile, nulla poteva davanti alle eterne
leggi della natura.
Nessuno
poteva fuggire alla loro crudele giustizia.
–
Kyoshiro…
Puoi venire qui? – domandò la voce flebile dell’uomo.
Il
giovane, sentendo queste parole, si scosse dai suoi pensieri e girò
la testa verso il futon.
–
Certo.
– rispose.
Si
alzò, fece circa tre passi e si inginocchiò accanto al
giaciglio del nonno, le mani appoggiate sulle cosce, simile ad un
ospite nel corso della cerimonia del té.
– Che
cosa c’è? – chiese il giovane.
Per
alcuni istanti, l’anziano combattente esitò, indeciso e
il suo petto si alzò e si abbassò in rauchi sospiri.
–
Puoi…
Puoi stendere la tua mano destra? – soffiò con tono
tremante. Il cancro lo consumava, ma non gli aveva tolto la lucidità.
Kyoshiro
si stava prendendo cura di lui e, con la sua presenza, cercava di
lenire il suo senso di solitudine.
Il
giovane, pur perplesso, annuì e obbedì.
Hittosai,
con sforzi dolorosi, sollevò le braccia e afferrò le
mano del giovane.
I
suoi polpastrelli, leggeri, ne sfiorarono il dorso, tastarono il
palmo, ruvido di calli, toccarono le lunghe dita.
Il
rimorso colpì il petto dell’uomo, simile ad un pugno
diretto sul volto. Accanto a lui, era l’unico figlio di sua
figlia Kaori.
E,
a causa sua, erano stati costretti a soffrire il freddo e la fame.
Eppure,
la povertà non le aveva impedito di donare a suo figlio
un’educazione sana.
Kyoshiro,
pur gravato dai ricordi di una triste infanzia, era riuscito ad
andare oltre il suo odio.
Mentre
lui, Hitosai, malgrado la sua esperienza, non aveva saputo
comprendere la limpidezza del sentimento tra Kaori e Kenichi.
Kaori
si era rivelata ben più coraggiosa di lui e lo aveva
sconfitto.
Lei,
pur piegata dalla povertà e dal dolore, non era stata
contaminata dalla cattiveria, mentre lui era impantanato in un senso
dell’onore vuoto e inconcludente.
E
la sua vita si concludeva col peso dei rimorsi e dei rimpianti.
– Io
devo chiederti scusa. – mormorò l’anziano
combattente.
Il
più giovane, sorpreso, sbarrò gli occhi.
– Ma
che stai dicendo? – domandò, stupefatto.
Un
debole sorriso sollevò le labbra dell’uomo e i suoi
occhi, per pochi, eterni istanti, brillarono di lacrime.
– Tu
hai un animo nobile, Kyoshiro e sei stato capace di perdonare la mia
crudele stupidità… Ma io, in nome del nostro legame di
sangue, ho preteso che tu mi chiamassi nonno, senza avere mostrato
alcun segno tangibile di pentimento. E non ho saputo andare oltre i
miei pregiudizi. La mia stupidità ha fatto soffrire te e i
tuoi genitori. – mormorò, il tono triste, ma lucido. Ne
era cosciente, il suo tempo si sarebbe presto concluso.
Ma
tale realtà non attenuava il peso del suo estremo dovere verso
suo nipote.
Tanto,
troppo dolore opprimeva il suo animo e non poteva non donargli la
debole consolazione della consapevolezza.
Il
giovane spadaccino tacque e la sua mascella si irrigidì. Suo
nonno, in quei cinque anni, era mutato.
E
questo gli procurava una devastante pena.
Quel
suo pentimento era libero da qualsiasi ambiguità, ma giungeva
in un momento assai difficoltoso per entrambi.
Perché
non si era accorto prima dei suoi errori? Perché si era
lasciato dominare dai pregiudizi?
Se
lui non si fosse lasciato imprigionare dalla sua ostinazione,
avrebbero potuto essere una famiglia.
E
tale coscienza trafiggeva il suo cuore di rimpianti.
– Io
ho creduto che l’onore fosse nelle forme… Ma tua madre,
attraverso di te, mi ha mostrato che mi sbagliavo. Lei, nonostante la
povertà e il dolore, non ha mai smarrito la purezza del suo
animo. Ed è qui che sta il vero onore. Un uomo non si giudica
per la sua discendenza, ma per le sue azioni. – concluse.
Kyoshiro,
sentendo queste parole, reclinò la testa sulla spalla destra e
deboli singulti sollevarono il suo petto. Suo nonno aveva compreso i
suoi errori nella loro interezza e gli aveva domandato perdono, senza
alcuna pretesa.
E
il suo sguardo, malgrado la sofferenza del tumore, era lucido e
consapevole.
Quelle
parole, finalmente, avevano consentito a Kyoshiro di emanciparsi dal
peso dei ricordi.
Tuttavia,
la nera nube dell’amarezza non si dissolveva.
Presto,
suo nonno sarebbe morto.
La
sua mano destra, leggera, si posò sulla guancia avvizzita del
vecchio, in una gentile carezza, e le sue labbra si piegarono verso
l’alto in un sorriso.
– Non
devi preoccuparti, nonno. Io… Io ti perdono. – dichiarò
il giovane pilota, il tono sincero.
Per
pochi, eterni istanti gli occhi di Hittosai si rifletterono nelle
iridi castane del nipote. Nulla temeva la sua anima.
La
sincerità aveva richiesto al suo animo uno sforzo improbo, ma
la ricompensa era valsa la sfibrante fatica.
La
sua anima era libera dai lacci e dai lacciuoli del rimorso e
dell’orgoglio.
Accennò
ad un debole sorriso, poi i suoi occhi si chiusero e la sua coscienza
scivolò nel sonno.
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