Come un
albero d’autunno
“Don’t
waste your time
or
time will waste you”
Muse, Knights of
Cydonia
Era come essere in una bolla. Il
cappuccio dell’impermeabile tirato sulla testa a coprirmi gli occhi, il
bavero
sollevato fin sotto il naso e il respiro che appannava gli occhiali.
Camminavo
con il passo agitato di chi sta scappando, ma non ce la fa più.
Schivavo le
persone sul marciapiede e i loro ingombranti ombrelli per puro
miracolo. La
pioggia battente mi tamburellava sulla testa, sulle spalle, sulle
braccia. I
piedi infilati in stivaletti economici strizzavano i calzini fradici ad
ogni
passo, i jeans si erano attaccati come una seconda pelle alle gambe.
La pioggia tamburellava sulla mia
testa e mi agitava i pensieri. Come quando si ticchetta sul vetro di un
acquario e i pesci all’interno schizzano da tutte le parti. Sapevo che
si
chiamava panico, – l’avevo riconosciuto quando mi si era contratto il
petto –
ma dargli un nome non mi aiutava. Ero in una bolla. La pioggia
continuava a
punirmi lanciandomi gocce sempre più grosse sulla testa e i pesciolini
all’interno impazzivano. Provavo ad afferrarne uno, a fermarlo, ma
quello
scappava, si confondeva in mezzo agli altri, si nascondeva.
Per andare dove poi? Non c’è via
di uscita dalla bolla.
Mi fermai. Tutti intorno a me si
erano bloccati. Semaforo rosso.
“Merda” pensai. “Mi raggiungerà.”
La pioggia ora tamburellava sugli
ombrelli della gente attorno a me. Sgomitavano uno contro l’altro
suscitando un
frusciare scatenato di poliestere. Non potevo andare avanti – o forse
sì, ma in
contro a morte certa – e non potevo andare indietro. Non osavo alzare
lo
sguardo in alto, così guardai in basso. Un collage di foglie veniva
fatto a
pezzi, si attaccava alle suole delle scarpe, scivolava nei tombini, si
decomponeva nelle aiuole. Solo ieri quelle foglie brillavano sui rami
degli
alberi che avevano dato loro la vita. Il vento le aveva fatte crepitare
e
scricchiolare fino a che avevano volteggiato lungo il tronco,
sfiorandolo in un
tenero, ultimo addio.
Cercai l’albero. La pioggia colpì
senza pietà le lenti dei miei occhiali. La corteccia scura e il
protendersi dei
rami verso il cielo – dita scheletriche che lanciano invocazioni
silenziose–
erano solo ombre nel mio miope campo visivo.
“Che vita – mi dissi – dover
ricominciare da capo ogni primavera”.
Non solo, i suoi rami sarebbero anche
stati tagliati per dare direzione al suo sviluppo, gemme sarebbero
state
rimosse per concentrare l’energia in quelle migliori, parti di lui
sarebbero
state definite “non idonee” per farlo vivere meglio.
Tutto questo in silenzio. Ma un
dolore non è tale se non viene urlato?
«Non mi riconosci? Sono io.»
Tutti attorno a me se n’erano
andati – semaforo verde – ed eravamo rimasti solo io e lui. La pioggia
continuava a cadere fitta e il suo ticchettare regolare sull’asfalto mi
catapultò a un anno prima, quando ticchettava sul tetto del nostro
appartamento
mansardato che profumava di nuovo. Dalle finestre entrava una luce
dorata che
faceva sembrare tutto più intenso. Il cielo stesso pareva di un azzurro
spietato.
Sullo sfondo si intravedeva il vicino viale di faggi le cui chiome
avevano
assunto le sfumature di un crepitante focolare. Più vicino una
solitaria betulla
catturava l’attenzione con il suo tronco bianco e l’intreccio di rami
sottili
che gettavano una leggera ombra sul prato sottostante. Il pranzo era
finito, io
stavo tagliuzzando con un coltello la buccia di un mandarino che avevo
appena
mangiato. Il profumo era sospeso nell’aria insieme alle sue ultime
parole.
«Non voglio avere figli.»
Amare è così breve, dimenticare è
così lungo*. Il mio autunno stava durando da un anno, da quando un
drastico
gelo aveva fatto cadere tutte le mie foglie in un sol colpo. Lo stesso
gelo mi
pervadeva ora guardando quella persona ferma davanti a me. Osservai lo
spazio
che ci separava e ripensai a quando dormivamo abbracciati. C’era stato
un tempo
in cui quell’essere umano custodiva la mia anima tra le dita. Ora,
invece, non era
che poco più di un estraneo incrociato per strada. Eppure rimaneva la
stessa
persona che mi aveva confidato sogni e confessato paure, che era stata
padrona
del mio corpo e io del suo. Le sue mani si erano mosse libere sulla mia
pelle e
le sue labbra avevano baciato i miei seni. C’erano parole, gemiti,
silenzi,
sussurri, pensieri, desideri che solo lui conosceva. Avevamo unito le
nostre vite, la nostra quotidianità, le nostre abitudine e adesso,
invece, eravamo destinati ad incontrarci per caso nei pomeriggi
d’autunno.
«Ti trovo bene. Come stai? Vivi
in questo quartiere?»
Avevamo comprato casa insieme, poi
c’era stato il mutuo, il geometra, il muratore, il serramentista,
l’imbianchino, il materasso, l’Ikea, la cucina, la camera da letto, il
divano,
la televisione, il frullatore, il forno, il frigorifero, il phon,
l’acqua, il
gas, il telefono, internet, il giardiniere, la residenza, la
convivenza, le
pulizie, il far l’amore, le serie tv, le risate, gli abbracci, le
colazioni, i
pranzi, le cene, ma tutto si era interrotto alla parola “figli”.
Il giorno in cui capii che
guardandolo non vedevo più il mio futuro stavo contemplando una tazza
di tè caldo, il pan di stelle che avevo appena inzuppato si spezzò in
due e lo stesso successe a me. Da allora sono andata avanti, ma non
vivo più.
Non riesco a dimenticare quel sogno incompiuto. Mi tiene sveglia di
notte con
la domanda “cosa ho sbagliato?”, mi fa piangere sotto la doccia, mi
tiene
incatenata al passato con i suoi “e se …”, mi fa scappare come una
ladra sotto
una pioggia battente.
Non so come si senta l’albero, ma
so per certo che la foglia che non vuole staccarsi deve sentirsi
esattamente
come me.
«Non ti manca mai la nostra vita?»
avrei voluto chiedergli. Invece gli dissi: «Ti trovo bene anche io.
Scusami, ma,
come vedi, sta diluviando e io non ho l’ombrello. Ci vediamo.»
Svoltai l’angolo e mi rifugiai
nel primo locale che incontrai. Dal profumo di caffè e pasticcini capii
di
essere in una caffetteria. Mi tolsi gli occhiali e li pulii con la
manica del
maglione. Quando li rimisi dovetti sbattere le palpebre un paio di
volte per
ambientarmi. Che razza di posto era quello? Le pareti erano ricoperte
da
orologi di tutti i tipi. Piccoli, grandi, minuscoli, giganti. Si andava
dalla
pendola della nonna, all’elegante orologio vittoriano, dal cucù a
quello con le
formule matematiche al posto dei numeri. Ovunque c’erano lancette che
si
muovevano, secondi che avanzavano, minuti che passavano. Il tempo
scorreva e io
ero ferma.
Guardai fuori dalla finestra.
Anche l’albero era fermo eppure ogni primavera ricominciava, ma prima
doveva
perdere tutte le sue foglie.
«Hai mai voluto figli?»
Vidi le sue spalle sussultare. Si
voltò verso di me con un’espressione indecifrabile. Sorpresa, paura,
dispiacere. Non si aspettava che lo rincorressi e non si aspettava
quella
domanda.
Chissà cosa c’era sulla mia faccia.
«Credevo di sì.»
«E cosa ti ha fatto cambiare
idea?»
«Tu. Mi sono reso conto che tu mi bastavi
e non volevo cambiare le cose, erano perfette così.»
«Se erano tanto perfette perché
non me l’hai mai detto?»
Silenzio.
«Perché non volevo perderti.»
Una folata di vento fece sbandare
la pioggia che si mischiò alle lacrime sulle mie guance.
«Mi hai perso comunque» gli
dissi, poi me ne andai. Ricordo ancora la pesantezza di quei passi, la
fatica
che feci ad allontanarmi. Era come opporre resistenza a un magnete.
Eppure, più
spazio guadagnavo, più avanzare diventava semplice. Un passo, una crepa
nella
bolla. Più aumentava la distanza, più aumentava la consapevolezza che
ci ero
riuscita. La bolla, ormai, andava a pezzi. Stavo andando avanti. Quando
lo capii, il sollievo che mi travolse fu immenso. Mi tolsi il cappuccio
dalla
testa, alzai il volto verso il cielo e lasciai che la pioggia battente
lavasse
via tutto il mio dolore. Ero come un albero d’autunno, privato delle
foglie,
spoglio ed esposto al vento. Tuttavia, dentro di me scorreva una nuova
linfa e
mi sentivo più forte. La perdita mi aveva reso più forte e, come un
albero
d’autunno, sognavo di rifiorire.
*Pablo Neruda
Racconto nato un po' di getto e
malinconico come può essere l’autunno che spero possa comunque
trasmettere qualcosa.
N.B. La caffetteria con le pareti piene di orologi esiste davvero.
A
presto,
Dryas
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