5: Toronto, sabato 9 maggio 2026
Niccolò ormai pensava di essere definitivamente
impazzito.
Era passata una settima e mezza dalla prima volta
in cui
credeva di aver visto Martino fuori dall’ospedale, e da allora aveva
iniziato a
vederlo ovunque.
L’aveva visto praticamente ogni giorno almeno una
volta.
Mercoledì era andato al supermercato: quel giorno
aveva il
pomeriggio libero e ne aveva approfittato per fare la spesa in
tranquillità.
Aveva sempre odiato il supermercato, fin da bambino. Non era un negozio
interessante,
come quelli di giocattoli o di libri e fumetti. Sua madre non gli
permetteva
mai di comprare quello che voleva lui (leggasi: giocattoli che già
aveva, caramelle,
cioccolata…), non poteva correre tra gli scaffali, non poteva alitare e
mettere
le mani sui vetri del banco pesce, macelleria e gastronomia. Doveva
sempre
stare attaccato a sua madre, perché questa aveva paura di perderselo o,
più
probabilmente, che si mettesse nei guai costringendola a ripagare
un’intera corsia
di merci rese invendibili dall’ennesima birichinata di Niccolò.
Per fortuna ad un certo punto i suoi genitori
avevano assunto
Marisol, e da quel momento in poi alla spesa ci aveva pensato
principalmente
lei.
Poi, però, era arrivato Marti; ed era dovuto
“scendere dal
suo piedistallo da unico rampollo di famiglia patrizia con
collaboratrice domestica”,
per dirla con le parole scherzose di Martino; e si era dovuto
rassegnare alla
frequentazione di quel luogo noiosissimo noto ai più come
“supermercato”.
Fin da prima del loro trasferimento nella vecchia
casa di
sua nonna, infatti, si era trovato ad andarci: un po’ per accompagnare
Marti che
faceva la spesa per casa sua, ma soprattutto perché non poteva certo
chiedere a
Marisol di comprargli preservativi taglia tal-dei-tali e lubrificante a
base d’acqua
specifico per uso anale.
Quando poi erano andati a vivere insieme, farsi da
soli la spesa
era diventata un’esigenza, e a quel punto Nico aveva dovuto imparare a
conviverci.
A dire la verità, comunque, fare la spesa con
Marti era molto
più divertente che farla con sua madre.
Anche se Martino condivideva la stessa filosofia
di sua
suocera sui dolci.
Ma ora capiva benissimo tutte le restrizioni e
preoccupazioni di sua madre.
Romeo era vivacissimo e curiosissimo, e amava i
dolci.
Praticamente era identico a lui da piccolo.
Odiava stare nel seggiolino del carrello, e faceva
sempre un
po’ di capricci per sedervisi, ma Nico sapeva benissimo che se lo
avesse
lasciato libero avrebbe passato più tempo a rincorrerlo per il negozio
sotto gli
sguardi giudicanti delle mamme presenti che a fare effettivamente la
spesa.
Quindi cercava sempre di fare la spesa quando il
bambino era
all’asilo.
Come in quel momento.
Stava giusto cercando di ricordare quanto latte
avesse in
frigo, quanto detersivo per la lavatrice gli fosse rimasto e se fosse
il caso di
comprare dell’altro prosciutto cotto, quando svoltò nella corsia
latticini e lo
vide.
Era fermo davanti allo yoghurt bianco, che
confrontava varie
marche.
Era di spalle, e Nico poteva vedere solo la sua
schiena e la
parte posteriore della testa.
Indossava una felpa verde e un paio di jeans.
Era Martino, sicuro.
Non poteva sbagliarsi: lo avrebbe riconosciuto
anche se
avesse potuto vederne solo un sopracciglio. E poi, d quella posizione
poteva
benissimo vedergli il sedere. Era il suo, sicuro. Lo sapeva bene, visto
che aveva
passato parecchio tempo a guardarlo fin da prima di mettersi insieme
ufficialmente.
Si bloccò sul posto, mentre la sua mente veniva
invasa dai ricordi
di Martino.
Martino adorava lo yoghurt: Nico lo aveva
capito da quella
volta che lo aveva portato a mangiare una coppa di gelato e il suo
ragazzo
aveva deciso di prendersi un’enorme frozen yoghurt con la frutta a
pezzettoni
al posto di dividere molto romanticamente la coppa cioccolato e menta
con lui.
Non capiva il fascino di quel prodotto
caseario: sapeva
da latte acido e non c’era gusto al mondo che potesse renderlo più
gradevole.
Maddalena aveva cercato più volte di farglielo
mangiare,
dicendogli che avrebbe dovuto evitare le schifezze e mangiare cose più
sane,
come lo yoghurt, appunto.
Nonostante avesse provato ogni variante
esistente, non era
riuscito a trovarne neanche una che gli piacesse.
A Martino, invece, sembravano piacere tutti.
Da quello bianco semplice a quello greco con la
frutta in
fondo.
Il suo preferito era quello alla banana; anche
se
preferiva quello bianco con i pezzettoni di banana.
Aveva iniziato a detestare di meno
quell’alimento quando
era andato a vivere con Martino, e l’aveva visto fare colazione ogni
giorno con
lo yoghurt.
Una mattina, in particolare, Marti si era
sporcato il mento
e il naso leccando la stagnola che chiudeva il barattolo.
E la mente di Niccolò aveva vagato. E Martino
lo aveva
capito subito, perché aveva iniziato a mangiare lo yoghurt facendo in
modo di
sporcarsi il più possibile.
Quel giorno Martino aveva saltato la scuola, e
meno male
che Niccolò non aveva lezioni.
Venne distolto da quei pensieri quando una
vecchietta gli chiese
gentilmente di spostarsi perché doveva prendere qualcosa dietro di lui.
Niccolò si scusò e si tolse da davanti allo
scaffale.
Quando rivolse lo sguardo al punto in cui prima
stava
Martino si accorse che era sparito.
Giovedì e venerdì lo vide a una fermata
dell’autobus, mentre
andava al lavoro, e poi di nuovo davanti all’ospedale, quando ci era
passato
davanti per andare a riprendere Romeo dall’asilo.
Poi l’aveva visto varie volte quel sabato, allo
zoo.
Forse doveva farsi ricalibrare i farmaci.
O forse doveva farsi prescrivere dei farmaci per
la
schizofrenia.
La cosa che lo spaventava era che tutte le volte
che lo
vedeva, poi spariva nel nulla, come se non ci fosse mai stato.
In realtà aveva una teoria.
Aveva frequentato psicologi e psichiatri
abbastanza a lungo
da immaginare quale scherzetto la sua psiche potesse aver progettato.
Il fatto era che, da quando Romeo era nato,
conviveva col
senso di colpa perenne dell’aver lasciato Martino senza nemmeno dirgli
di
aspettare suo figlio.
Ogni piccolo momento importante della crescita di
Romeo
l’aveva vissuto da solo, e si era rattristato più volte al pensiero che
Marti
si stesse perdendo loro figlio che per la prima volta apriva gli occhi,
si
sedeva, si alzava, iniziava a camminare o a parlare o quant’altro.
Martino avrebbe amato il loro bambino; e pensare
di essere
stato lui a togliere la possibilità al loro piccolo di avere entrambi i
suoi
genitori al suo fianco lo faceva stare male.
Possibile che le sue visioni fossero solo un modo
del suo
subconscio per farlo sentire in colpa?
Non rimpiangeva totalmente ciò che aveva fatto,
Martino, in
quel momento, doveva essersi laureato e doveva aver iniziato il suo
apprendistato in ospedale; probabilmente se non gli avesse tenuto
nascosta la
sua gravidanza non sarebbe arrivato a quel traguardo.
Alla fine, si era convinto a raccontare tutto alla
sua
analista, il giovedì successivo, per trovare un modo di gestire la
faccenda
prima che questa s’ingigantisse e gli esplodesse in faccia.
Quel giorno, comunque, voleva dedicarlo totalmente
a Romeo.
Di sabato passavano sempre il tempo insieme, allo
zoo, al
parco, o anche in casa a giocare.
Ma quel giorno l’asilo di Romeo aveva organizzato
un picnic
al parco vicino la scuola, e il bambino non vedeva l’ora di andarci.
Niccolò non era proprio entusiasta: alcune mamme
degli altri
bambini lo giudicavano apertamente, mentre altre si mostravano gentili
e carine
davanti a lui, per poi mettersi a spettegolare e malignare quando se ne
andava.
Di solito passava il tempo con l’unica altra
coppia gay e
gli altri due genitori single della classe di suo figlio.
Non erano amici, ma almeno con loro non doveva
misurare le
parole.
L’altro motivo per cui odiava quegli eventi era
per il fatto
che ogni genitore dovesse portare qualcosa; e la rappresentante di
classe (che
lo considerava una specie di depravato perché cresceva da solo Romeo,
figurarsi
se avesse saputo che l’aveva pure partorito lui) gli assegnava
alternativamente
i bicchieri, la tovaglia o i tovagliolini.
Per lui era piuttosto frustrante, perché da quando
aveva
avuto Romeo aveva imparato a cucinare come si deve.
Gli sarebbe piaciuto, almeno una volta, portare un
dolce
fatto da lui.
<< Lascia stare. >> gli aveva detto
una volta
Savannah, sposata con Shona, e mamma di Parker: << Anche con noi,
Aaron e
Gina fa così. Shona si arrabbia ogni volta, ma ormai ci abbiamo fatto
l’abitudine.
Sembra quasi che Mary-Sue abbia paura che infetteremmo sua figlia con
il
lesbismo o altro se mangiasse il cibo preparato da noi. Non te la
prendere, il
lato positivo è che almeno non dobbiamo impegnarci troppo! >>
Insomma, la prospettiva di passare un pomeriggio
con
quell’antipatica di Mary-Sue e le altre bigotte pronte alla non tanto
velata
critica non lo allettava per niente; ma Romeo ci teneva tanto… per cui
aveva
scelto il suo outfit migliore, si era stampato un sorriso finto quanto
il naso
di Joline (degna compare di Mary-Sue), aveva afferrato i sette tubi di
bicchieri che la rappresentante gli aveva tanto generosamente concesso
di
portare, e si era recato al parco.
Romeo era corso subito a giocare con i suoi
amichetti,
mentre lui andava a consegnare i bicchieri e a salutare l’insegnante
del
bambino.
Poi si era ritirato in angolo, insieme agli altri
emarginati.
Questi lo accolsero con entusiasmo, coinvolgendolo
nei loro discorsi.
Era il genitore più giovane del gruppo, e lo
avevano preso
tutti e cinque in simpatia, soprattutto Savannah.
Non aveva raccontato loro come si era trovato a
crescere un
figlio da solo, ma nessuno di loro gli faceva pressioni perché ne
parlasse.
In men che non si dica passò gran parte del
pomeriggio.
Alle cinque e mezza alcune famiglie iniziarono ad
andarsene,
e Niccolò pensò che fosse giunto il momento di filarsela.
Romeo stava giocando sul castello con lo scivolo,
la trave
sospesa e la parete d’arrampicata insieme agli altri bambini.
<< Romeo, dobbiamo andare! >>
<< Ma papino! Io voglio giocare ancora un
po’!
>> si lamentò il piccolo.
<< Mi dispiace tesoro, è ora di andare;
saluta i tuoi
amici. >>
Il bambino sospirò, e poi salutò gli altri bambini.
<< Forza, scendi di lì, scimmietta. >>
lo chiamò
scherzosamente Niccolò:
<< Aspetta, papi, voglio farti vedere come
scendo dal
palo dei pompieri! >>
<< Ok, fammi vedere. >> lo accontentò
l’uomo,
ridacchiando.
Romeo si avvicinò al palo, con l’espressione
sicura:
<< Guardami, eh! >> gli disse:
<< Certo che ti guardo! >>
Il bambino allungò le braccia verso il palo, ma
prima che
potesse afferrarlo inciampò e cadde giù dal piano rialzato, atterrando
sul
terreno con un tonfo secco.
Niccolò scattò subito e si inginocchiò a terra
accanto a suo
figlio, che aveva iniziato a piangere, tenendosi il braccio sinistro.
<< Tesoro, ti sei fatto male? >> gli
chiese, col
cuore in gola. Il piccolo annuì tra le lacrime.
Non era la prima volta che Romeo cadeva e si
faceva male,
era un bimbo vivace, e le volte in cui era tornato dal parco con le
ginocchia
sbucciate non si contavano.
Quando questo succedeva Niccolò si sentiva male a
sua volta,
come se si fosse ferito anche lui.
Non solo fisicamente, ma anche mentalmente: si
sentiva come
se non fosse riuscito a proteggere il suo piccolo dal dolore.
Consciamente sapeva di non poter impedire che
Romeo
soffrisse, sia fisicamente che emotivamente, in alcun modo, e che anzi,
fosse
salutare lasciare che facesse le sue piccole esperienze anche se
rischiava di ferirsi.
Insomma, sapeva che suo figlio avrebbe dovuto
sbucciarsi le
ginocchia un paio di volte per imparare ad andare in bici, e sapeva che
rinchiuderlo sotto una campana di vetro fosse sbagliato; ma ciò non
significava
che non si sentisse uno schifo tutte le volte che il suo bambino
soffriva.
E poi, gli ricordava che un giorno Romeo sarebbe
diventato
troppo grande per essere protetto dal suo papà, e che avrebbe dovuto
affrontare
i dolori della vita autonomamente. Un giorno sarebbe stato troppo
grande per
essere preso in braccio e consolato da lui; e non sarebbe più bastato
dirgli “adesso
papino ti bacia la bua e passa tutto” e comprargli un gelato per farlo
tornare
a sorridere.
Lui sarebbe sempre rimasto al fianco del suo
piccolo, anche
quando non sarebbe stato più così piccolo; ma sarebbe bastato?
Niccolò prese in braccio il bambino, che
continuava a piangere
stringendosi il braccio sinistro.
Nel frattempo, si erano avvicinati altri genitori
insieme
all’insegnante di Romeo.
Qualcuno gli passò del ghiaccio, e lui lo appoggiò
al braccio
del bambino, controllando che non si fosse fatto male da qualche altra
parte.
<< Forse dovrebbe portarlo al pronto
soccorso, signor
Fares. >> gli disse l’insegnante: << Potrebbe essersi fatto
male
seriamente al braccio, è meglio fargli dare un’occhiata. >>
Niccolò annuì, alzandosi da terra con Romeo ancora
piangente
tra le braccia.
<< Ti serve una mano, Niccolò? >>
chiese
Savannah: << Un passaggio? >>
<< No, grazie, l’ospedale è qui vicino.
>> le
rispose: << Però potresti avvisare mio zio Ezio e chiedergli di
raggiungermi
lì? >>
<< Certo, non ti preoccupare. >>
Nico raggiunse in fretta la sua auto, e legò il
bambino al
suo seggiolino;
<< Va tutto bene, piccolino, resisti ancora
un po’,
ok? >>
<< Papino, ho paura! Non voglio andare in
ospedale!
>> pianse Romeo, appendendosi alla manica della felpa del padre.
<< Lo so che fa paura tesoro, ma dobbiamo
controllare
per vedere cosa è successo, e lo può fare solo un dottore, va bene?
Presto sarà
tutto passato, ok? >>
Il bambino tirò su col naso, e annuì, liberando
Niccolò, che
corse al posto di guida, diretto all’ospedale più in fretta possibile.
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Romeo aveva pianto per tutto il tragitto, sebbene
fosse
stato abbastanza breve.
Un’infermiera li aveva fatti accomodare in un
ambulatorio,
dicendogli che sarebbe arrivato subito il dottore, accompagnato da uno
specializzando, essendo quello un ospedale universitario.
Romeo aveva smesso di urlare, ma stava ancora
piangendo in
silenzio, tirando su col naso ogni tanto.
Era in braccio a Niccolò, che era seduto sul
lettino.
Il braccio sinistro del bambino era avvolto da una
nuova
busta di ghiaccio che gli aveva dato l’infermiera.
<< Papi, fa tanto male. >> pigolò il
piccolo,
singhiozzando un pochino.
Il cuore di Nico era come stretto da una morsa.
<< Lo so piccolo. Adesso arriva il dottore.
>> gli
disse.
Sentì dei passi nel corridoio, e un paio di voci
che si
scambiavano informazioni che Niccolò non riusciva a sentire.
Poi, la porta si aprì, ed entrò un giovane uomo
con il
camice bianco.
Era chino sulla cartella clinica, la quale celava
suo viso.
Da dietro la cartella, infatti spuntavano solo i capelli color castano
ramato.
Niccolò raggelò.
<< Buongiorno, sono uno degli
specializzandi; devo
raccogliere l’anamnesi, poi ci raggiungerà il dottor. Wayne per la
visita.
>> esordì il medico, senza alzare gli occhi dalla cartella.
Nico iniziò a sudare freddo. Non era possibile.
Conosceva quella voce fin troppo bene.
L’aveva sentita come prima cosa ogni giorno per
tre anni.
Non la sentiva da altrettanti.
<< Iniziamo da… >> disse ancora
l’altro uomo,
alzando finalmente gli occhi dai fogli, rivelando il suo volto.
Il silenzio calò nella stanza.
L’uomo di fronte a lui si era bloccato sul posto,
guardandolo con gli occhi sgranati.
Aveva la barba e portava i capelli più lunghi, ma
Niccolò l’avrebbe
riconosciuto tra mille.
Era Martino Rametta.
Angolo autrice:
Forse la sto facendo troppo stile telenovela, che dite?
Nel prossimo capitolo avremo come guest star Antonio Banderas e la sua
amata Rossita🐔
<< Marrrtino, quiero dirte que Romeo es tu hijo! E poi ho fatto i
biscotti insupposssi. >> non suona bene?
Bando alle ciance, che ne dite?
Ho tirato fuori un plot twist da urlo o no? [NO😝]
Il prossimo capitolo sarà su Marti, e beh, immagino abbiate capito di
che parlerà.
AVVISO IMPORTANTE:
Stavo pensando di pubblicare una raccolta di One-Shot sui missing
moments dei primi anni di vita di Romeo (prima dell'inizio di questa
storia, per intenderci), quelli che non verranno mostrati qui. Che ne
dite? Datemi un vostro parere.
Beh, per stavolta è tutto.
Al prossimo capitolo!!😘😘 |