La
luce del sole calante incendiava d’oro e porpora l’orizzonte
marino, lambendo le rare nuvole, sparpagliate nell’immensità
del cielo.
Il
mare, lambito da un refolo di vento, scintillava, come fosse
ricoperto di bronzo fuso e le sue deboli onde sfioravano la spiaggia,
mentre i gabbiani ora volavano, ora si precipitavano nell’acqua
in cerca di prede.
Di
tanto in tanto, le imponenti sagome delle balene emergevano, poi si
inabissavano, sollevando imponenti muraglie d’acqua.
Sandokan,
in piedi sul balcone del suo palazzo, lasciava vagare lo sguardo.
Presto, in quell’angolo d’Asia, sarebbe scesa la notte.
Il
palazzo, in quel momento fremente delle ultime attività,
presto sarebbe precipitato nel silenzio.
E,
per lui, il flusso delle ore si sarebbe tramutato in un lento,
orribile calvario.
Sospirò
e, in un gesto istintivo, strinse le mani attorno alla parte
superiore della ringhiera. Non sarebbe riuscito ad addormentarsi,
malgrado la stanchezza di quelle giornate.
Il
pungolo dell’angoscia penetrava nel suo cuore e gli impediva di
abbandonarsi al ristoro del sonno.
Si
passò una mano tra i lunghi capelli neri e sbatté le
palpebre. Ventiquattro ore erano trascorse dall’ultima
battaglia contro Suyodhana, capo della sanguinaria setta dei thugs.
Certo,
era stato sconfitto, ma il suo spirito demoniaco si era impadronito
del corpo di Yanez e lo aveva portato a compiere azioni discutibili.
Posseduto
dallo spirito di Suyodhana, il suo amico non aveva esitato a definire
sua sorella Morugan un’estranea, che mai sarebbe riuscita ad
entrare nel loro gruppo.
Di
scatto, girò la schiena, rientrò nel palazzo e si
avvicinò al divano, su cui era disteso Yanez.
Il
rajà del Kiltar, per alcuni istanti, fissò il corpo
esanime del compagno, lo sguardo serio. I medici avevano curato le
lesioni del suo corpo, eppure il suo spirito ancora non emergeva
dalla nerezza di quel sonno.
I
suoi occhi cerulei, di solito così scintillanti di vita, erano
forzatamente chiusi.
Tutti
i medici consultati gli avevano detto di aspettare e sperare in un
esito favorevole.
Ma
il tempo di quell’attesa era un pendolo oscillante tra angoscia
e speranza.
– Dove
è la tua mente, amico mio? – domandò, turbato. Di
solito, lui e Yanez riuscivano a comprendersi con un semplice
sguardo.
Questa
loro connessione mentale aveva permesso il compimento di varie
imprese, quali la riconquista del Kiltar.
Eppure,
in quel momento, il suo migliore amico giaceva inerte su un divano,
come un morto in una bara aperta.
E
lui non riusciva a comprendere la ragione del suo stato.
Tra
lui e Yanez, in quel momento, si era frapposto un muro invisibile e
non riusciva a superarlo.
Perché?
Quale ostacolo impediva allo spirito del suo migliore amico di
ritornare alla realtà?
– Sto
impazzendo… Non posso andare avanti così. –
mormorò. Forse, doveva accettare l’avvenuta morte del
suo amato fratellino.
Avrebbe
dovuto lasciarlo andare e dargli la pace dell’oblio.
Ma
nemmeno questo era possibile.
Il
cuore di Yanez palpitava nel suo petto e il sangue riscaldava la sua
pelle.
Nel
suo corpo, fluiva ancora la vita.
Trattenne
a stento una risata amara e le lacrime rotolarono sulle sue guance.
Si poteva definire vita un simile stato?
Yanez
de Gomera era l’emblema dell’energia e della vitalità
e, in quel momento, giaceva inerte, privo di qualsiasi possibilità
di interazione con l’ambiente.
Lui
non avrebbe mai accettato una simile, odiosa condizione e avrebbe
preferito una fine sicura ad una dolorosa incertezza.
E
lui, il suo migliore amico, lo stava condannando ad una pena crudele
e immeritata, che lui non meritava.
Era
così? O la sua mente provata cominciava a perdere qualsiasi
speranza?
Non
riusciva a dare una risposta al suo dubbio tormentoso.
Gli
si avvicinò un poco e, per alcuni istanti, lo fissò, in
cerca di un segno di risveglio.
Non
è cambiato niente.
E’
sempre uguale. Cosa
spingeva il suo migliore amico a restare immerso in quel sonno
inquietante, tanto simile alla morte?
Cosa
aveva trovato in quella dimensione, a cui non poteva accedere?
–
Stai
facendo bei sogni? Spero di sì. – mormorò,
affranto. Pur
essendo sempre così ardito e fiducioso, il suo amico custodiva
un lato malinconico ed era restio a mostrarlo agli altri, fedele alla
sua immagine ironica e mordace.
L’assenza
di una famiglia era stata per lui fonte di amarezza, anche se celava
le sue emozioni dietro la sua maschera sarcastica.
Durante
le notti solitarie di Mompracem, mentre i membri dell’equipaggio
dormivano, avevano parlato del loro passato e Yanez, con voce pacata,
gli aveva rivelato la sua condizione di orfano.
Non
aveva mai pianto, malgrado il dolore dei ricordi, eppure era ben
visibile la malinconia dei suoi occhi cerulei.
Per
lui, non erano stati anni felici, eppure li aveva superati.
O
forse non era così?
Quel
sonno ostinato incrinava molte delle sue più solide
convinzioni.
Forse
Yanez, in quella tenebra, aveva scorto i suoi familiari e aveva conosciuto l'autentico calore di un abbraccio?
E
con quale coraggio poteva allontanarlo da una simile gioia?
Prese
la mano destra del compagno tra le sue e, per alcuni istanti, la
strinse. L’angoscia di quell’assenza gli
impediva di prendere una decisione sensata.
Non
voleva lasciarsi guidare dall’egoismo, ma non riusciva a
comprendere cosa fare.
–
Mandami
un segnale, amico mio… Questo silenzio è peggiore della
morte. Dimmi che cosa desideri e ti aiuterò. Te lo prometto. –
sussurrò. Aveva bisogno di capire le sue volontà, per
poterlo aiutare.
Se
glielo avesse domandato, avrebbe posto fine alla sua esistenza e lo
avrebbe lasciato passare oltre.
Pur
col cuore oppresso dalla pena, non avrebbe mai desiderato fare
soffrire il suo migliore amico, per non affrontare il dolore di una
perdita straziante.
Il
lamento rauco di una fregata echeggiò nel silenzio.
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