Capitolo diciannove
CAPITOLO DICIANNOVE
“Le brave ragazze vanno
in Paradiso.
Le cattive ragazze
vanno dappertutto”.
Mae West.
A questo punto, in realtà, le cose si mettono male.
Niente più sesso, niente più giretti, niente più bar, niente
più G.
Esiste quel punto di frattura che non ti aspettavi, quel
momento che è come lo scoppio improvviso di una guerra, ed ecco che la tua vita
e le tue abitudini sono stravolte, con tanto di rischio concreto di ammalarti,
di infettare la tua famiglia e di finire tutti quanti dopo tante tribolazioni
su un mezzo militare per poi essere tumulati da qualche parte ignota, poiché la
tua terra natia non ha più loculi da offrire.
A dire il vero, con grande vergogna sono costretto ad
ammettere che, forse, sarebbe meglio ammalarsi e tirare in fretta le cuoia
piuttosto che vivere una clausura estenuante e senza alcuna prospettiva. Mi
basterebbe un sogno, solo uno a cui aggrapparmi; ma G è sparito nel precipitare
degli eventi, e tutti quelli con cui ho avuto rapporti (di vario genere) sono
spariti o comunque per loro non valgo più niente.
Il virus mi mostra presto il suo vero volto, quello che ti fa
sentire solo, smarrito. Che ti mette paura e non ti fa dormire la notte. Poi,
chiuso in casa con i miei genitori… ammazza, ohi, che sberla…
“Sveglia, amore”.
Angelina mi strappa dal
mondo dei sogni dopo una nottata di sesso. Rabbrividisco subito.
“Non deve succedere mai
più” tuono, scattando a sedere sul letto. Le punto l’indice contro, e… la
lucidità torna ad affievolirsi un pochino, come durante quella notte. Gli
effetti di ciò che ieri sera mi ha fatto bere sono ancora attivi, anche se
ormai sconfitti.
“Perché, cos’è successo?”
replica lei, mostrando ancora quella fastidiosa e pacata sorpresa che tanto
odio.
“Abbiamo solo fatto ciò
che il nostro corpo reclamava. È la natura, è giusto così”.
Non sto più a perdere
tempo per risponderle; mi alzo e inizio a cercare i vestiti, mentre dalle
finestre entra la luce accecante del giorno che nasce.
Sento lo sguardo di
Angelina fisso su di me, mi volto e la vedo intenta a scrutare le mie intimità.
“Signorina, si può ben
ricordare questa volta, sa? Stia certa che non riaccadrà mai più. E che mia
moglie non venga a saperlo, altrimenti io…”.
“Altrimenti?” fa il
pappagallo, sorridendo.
Sbuffo e lascio
perdere.
I miei vestiti sono
accatastati in modo caotico in un angolino dello stanzone, ancora madidi di
sudore dopo l’intervista della sera precedente. Uno specchio riflette la mia
figura mentre mi vesto in fretta.
Non posso non notare
quanto io sia brutto e in disordine, barba sfatta, capelli tutti ispidi e
dritti. Questa faccenda mi sta uccidendo e facendo invecchiare.
“Visto che siamo tornati
ai vecchi tempi e a darci del Lei, agente speciale Barley, vorrei ricordarle
questa faccenda”.
La Stradford mi torna
vicina e mi sbatte sotto al naso una copia del New York Times fresca di stampa.
La mia immagine troneggia sulla prima pagina; io, in divisa, che parlo con una
motivazione che sul momento nemmeno mi ero accorto di avere. Sotto la foto, il
titolo rivelatore…
“L’agente speciale e
veterano James Barley, 61 anni, ieri sera ha avuto il coraggio di denunciare
pubblicamente e a tutti gli Stati Uniti d’America il losco traffico delle
grandi case farmaceutiche dell’Oregon e dei loro intenti criminali in una
clinica privata dell’Ohio…” leggo a mezza voce. Prosegue a pagina due, si
conclude.
Accidenti! Mi cade
letteralmente la mandibola inferiore.
“Era lei che non
credeva nelle potenzialità dei miei soldi. Come vede, prima pagina, e gli altri
giornali non sono da meno” dice Angelina, trionfante.
Non so cosa dire. Ieri
sera ho parlato con dei giornalisti, una decina di persone che non sembravano
avere un impatto così rilevante sull’informazione. Invece, a quanto pare…
“O preferisce che la
chiami amore?” ironizza.
La guardo, ferito e
umiliato.
“Lei è pazza,
signorina. La pagherà cara…”.
“Sono dalla parte della
ragione” torna a interrompermi.
“Anche se lo fosse,
tiene il piede in due staffe, una anche nel torto”.
“Non sta a lei
giudicare, agente dalla mente semplice. Si rende conto che potrebbe avere
tutto, e invece non ha niente? Perché non lo vuole. Potrebbe essere in tutte le
tv nazionali a parlare e a spiegare cose che il popolo berrebbe e che i
governatori accoglierebbero e analizzerebbero. E lei invece che fa?” mi guarda
con una pietà ironica. “Sta qui impalato a bocca aperta, a crogiolarsi della
sua miseria. Non è nemmeno capace di prendere una donna e di farla sua, come
lei stessa desidera”.
Resto in silenzio a
guardarla. Ci fissiamo a vicenda, io abbattuto, lei feroce come mai prima
d’ora.
“Sa cosa vuol dire
libertà personale? Nessuno può costringere l’altro a fare ciò che non vuole,
tanto meno se la questione riguarda un agente e una civile”, tento un’ultima,
estenuante difesa dei miei diritti.
“Vede che non riesce a
capire? Siamo in America, James, in America. Qui contano i soldi, il potere, il
prestigio personale, non la bontà di cuore degli umili. Il mondo si pulisce il
culo, con l’umiltà” esclama, “e, sa? Credo veramente di aver sbagliato persona.
Ho fatto male a investire così tanto su di lei”.
“Il libro, Alex. Quello dalla copertina gialla”.
Mi volgo verso mio padre, che mi ha brutalmente strappato dal
flusso delle mie fantasie.
“Cosa?” gli chiedo.
“Non va bene. È di una casa editrice differente dalle altre”.
Laconico, preciso, puntuale. Logorroico.
I giorni scorrono e il coronavirus aumenta i suoi contagi.
Siamo blindati in casa assieme, ormai, questa famiglia disgustosamente moderna
costretta a vivere per una volta unita.
È come se il virus volesse imporci di essere quello che non
siamo e che non saremo mai.
Per passare il tempo, sistemiamo i libri nella piccola
biblioteca di famiglia; quando abbiamo finito, ricominciamo daccapo. È un modo
silenzioso per tenersi occupati ed evitare litigi. Comunque, a volte non basta,
poiché i battibecchi sono frequenti lo stesso e mettere a posto dei libri prima
o poi inizia ad annoiarti, soprattutto quando rischi di impararli a memoria dal
tanto che li hai tenuti tra le mani e sfogliati.
È una cattività noiosa, di quelle che ti tolgono il fiato e
che ti lasciano intendere che nessun futuro prossimo ti attende al di là del
sottile velo della pandemia. E quelli che dicono Andrà tutto bene, che ne sanno loro? Che ne sanno? È come riempirsi
la bocca di frasi fatte da altri e ripeterle.
Non contano niente, perdono ogni senso.
Mi viene spontaneo chiedermi come dev’essere stato per i
poveri ebrei il restare nascosti e chiusi in soffitte per mesi, anni, al fine
di evitare la deportazione. Il fiato corto per la paura, il camminare piano per
non attirare le attenzioni. Non dirsi più niente poiché più niente c’è da dire.
L’attendere la fine di un lungo periodo drammatico pregando e sperando, poiché
solo quello è rimasto.
Per fortuna nessuno ci deporterà, e tutto quanto
probabilmente passerà. La nostra sfida è qualcosa di molto complicato ma almeno
la Nazione è unita. Nell’unità, si vince sempre.
Alla fine il bene vince sempre sul male.
Tuttavia, non temo tanto per me; comunque vada, sopravvivrò.
Temo per i miei genitori e i miei nonni, più vulnerabili.
Ma siamo ormai nelle mani del Destino e non c’è molto che si
possa fare a parte aspettare e rispettare le regole. Tutto qui.
E, allora, perché a volte penso ancora a quella persona? Non
dovrei più.
Non dovrei perché questo silenzio assordante che ha lasciato
dietro di sé aumenta il vuoto del dramma che sto vivendo, che stiamo vivendo.
Il tempo, quel tempo che fa tic tac grazie alle lancette degli orologi, unico
rumore monotono che frammenta questo limbo colmo di sospensione e di bugie,
sembra morto assieme al mio animo.
|