Entanglement
Capitolo I
Le
prime luci dell’alba filtravano attraverso i due campanili
del tempio che si
affacciava sul mare. La timida luce solare, che attraversava le rade
nuvole,
rischiarava le candide pietre tagliate a mano, che
costituivano la tessitura
muraria delle alte
torri campanarie. Lentamente cominciava
a
scaldare la piazza, la
quale accoglieva la
gente che
stava affluendo silenziosamente. L’unico rumore, che rompeva
quel lugubre
silenzio, era il garrito dei gabbiani, i quali avidamente
si
aggiravano sopra le teste dei muti avventori, alla
ricerca di scarti di cibo.
Il
torrido caldo di luglio avrebbe trasformato in poco tempo
quella piazza in un forno rovente, dove solo la brezza di mare avrebbe
portato
un lieve sollievo, ma questo non sembrava scoraggiare la popolazione.
Nonostante
l’ora non agevole, l’ampio
spazio, situato al
centro della città, era
quasi al massimo della sua
capacità. Le guardie reali riuscivano a stento a gestire
quel flusso umano; donne,
uomini e anche bambini. Nessun
abitante della
capitale del regno voleva perdersi lo spettacolo che da lì
poco si sarebbe
consumato. I nobili, affacciati dai balconi dei loro palazzi, che
circondavano
la piazza, guardavano esterrefatti quel silente fiume umano, che non sembrava
avere fine. Non avevano
mai visto quel
luogo in quelle condizioni, neanche nei giorni
più floridi del regno, neppure durante i giorni
di festa. Era
come se tutta la gente del mondo
fosse accorsa lì. I
rintocchi delle campane
scandirono sette colpi, ma nessuno degli astanti sembrò
farci caso. Erano
troppo concentrati ad osservare il palco che sorgeva al centro dello
spiazzo.
Solo lo sferruzzare di ruote metalliche sul basolato fece
serpeggiare,
tra la moltitudine di gente lì presente, un concitato
stato di agitazione. Tutti gli
occhi erano
concentrati sul piccolo carro, che lentamente stava avanzando dal
palazzo
reale, situato a un chilometro da lì, in perfetta
contrapposizione con
l’edificio sacro. Quando, finalmente, la figura stante
sul carro fu visibile a tutta
la gente, ripiombò
il silenzio.
Tutto il mondo taceva, anche i gabbiani avevano smesso di emettere i
loro
striduli versi, come a voler sottolineare maggiormente quello strano
momento.
Solo il lontano sciabordare delle onde, contro i frangiflutti,
interrompeva
quella angosciante monotonia. L’unico a non
accorgersi di tutta quella
tensione, quel clamore, era la figura eretta sul carro. Tutto il mondo
gli
sembrava indifferente. Il suo sguardo era ricolmo di calma. I suoi bei
lineamenti non tradivano nessuna emozione. Solo i suoi capelli color
del grano,
incrostati di sudicio lerciume e i suoi vestiti logori, pieni di sangue
rappreso, risaltavano il suo status di prigioniero.
Le
quattro guardie reali, che accompagnavano quel piccolo cocchio trainato
da un
cavallo prossimo alla morte, non gli staccavano gli occhi di dosso;
come se le
robuste catene, che gli bloccavano sia gli arti superiori che quelli
inferiori,
non fossero sufficientemente sicure. Nonostante presentasse diverse
ferite, che
anche un osservatore poco attento avrebbe giudicato recenti, il corpo
dell’uomo
risultava robusto e ben allenato; ma, di certo, non sarebbe stato
capace di
forzare quella arzigogolata camicia di forza fatta di anelli di ferro.
Nessuna
sofferenza proveniva da quel viso, come se quelle piaghe inflitte nella
carne
appartenessero ad un altro essere. L’unico sussulto che ebbe,
che passò del
tutto inosservato alla maggior parte degli spettatori, fu quando il
carro fu
vicino al palco. Nonostante fossero presenti le maggiori cariche reali
e
religiose, i suoi occhi erano puntati su una minuta donna, con degli
indomabili
capelli rosso fuoco, dagli occhi color pece, gonfi a causa del pianto e
con un
prominente pancione. Si impose di non mostrare una sola emozione,
volevano
fiaccarlo ulteriormente nel morale e nello spirito; non avrebbe ceduto
per dare
loro la soddisfazione di essere riusciti a spezzarlo, doveva resistere
solo un
altro po’, poi tutto sarebbe finito e lei sarebbe stata
salva. Il carro si era
finalmente fermato davanti al patibolo, la porta dell’angusta
cella si aprì
sferragliando. Lo aiutarono a scendere strattonandolo, come se le
ferite e le
pesanti catene non costituissero già un serio impedimento ai
suoi movimenti, ma
rimase indifferente. Salì lentamente i gradini, non
perché volesse allontanare
da sé quell’amaro calice, ma i muscoli delle sue
gambe erano intorpiditi e
provati a causa delle torture inflittegli. Deambulare gli provocava
spasmi di
dolore in tutto il corpo, ma strinse i denti. Era giunto finalmente sul
palco.
Guardò i suoi carnefici negli occhi uno per volta,
lentamente, come a
sottolineare la solennità di quel momento. Deliberatamente
evitò di incrociare
lo sguardo della donna. La sua determinazione sarebbe stata fatta a
pezzi se
solo ci avesse provato.
«Quest’uomo»
urlò il re alla muta folla in piazza «il primo
cavaliere di Atlas, eroe della
nostra ultima guerra, si è macchiato di un reato gravissimo.
Ha sedotto con
l’inganno una delle sacre vestali dell’ordine del
tempio e l’ha ingravidata.
Sapete molto bene che la legge non permette ad un cavaliere e ad una
vestale di
avere rapporti e consorti, fino alla fine dei loro giorni. Ebbene,
quest’uomo
ha calpestato questa sacra regola, imposta da quel sant’uomo
di mio nonno, al
fine di mantenere integro il regno. Affinché questi uomini e
queste donne
proteggessero e servissero, senza nessuna remora, questo bel reame.
Lui
ha infranto il sacro giuramento, ed ha persino concepito un figlio con
questa
donna. Pertanto, verrà condannato a morte per crocifissione.
La sacerdotessa,
in quanto ingannata, verrà espulsa dal regno; ma, se
soltanto oserà avvicinarsi
in futuro ai confini, verrà giustiziata seduta stante.
Questa è la giustizia
del re. Cavaliere, ha qualcosa da dire prima di essere
crocifisso?»
«Beh,
visto il prezzo che sto pagando, avrei preferito sedurre una
più formosa.»
Rispose sprezzante. Un pugno di una guardia reale lo fece piegare su
sé stesso.
Sentì picchiare violentemente la schiena contro un ruvido
palo di legno. Un
altro pugno raggiunse la sua mascella. Sentì diverse mani
trafficare con le
catene. Per un attimo si sentì leggero, prima che diverse
mani lo
immobilizzassero contro quella ruvida croce di legno. Sentì
le fredde punte
metalliche dei chiodi premere contro i suoi polsi e il collo dei piedi.
Quattro
colpi metallici dati all’unisono. Sentì le sue
carni essere dilaniate da un
dolore tremendo e le sue ossa frantumarsi sotto l’incedere di
quei colpi, ma
non urlò. La sofferenza aumentava ogni secondo che passava,
ma non un solo gemito
usciva dalla bocca. Avvertì la pressione di tutte quella
mani sui suoi arti
svanire di colpo. Violentemente, fu issato sul palco ed esposto al
pubblico
ludibrio degli astanti.
Il
sole era ormai alto nel cielo, era quasi mezzogiorno e il caldo era
già soffocante.
Avvertiva le sue forze venire sempre meno, ormai era prossimo alla
morte.
All’improvviso sul palco ci fu del trambusto. Un araldo che
scortava una donna
salì sul palco ed andò a parlare con il re, che
ascoltava attentamente.
Nonostante la vicinanza, non riusciva a capire cosa si stessero
dicendo. Vide
il monarca fare un cenno della mano e l’uomo allontanarsi.
Dei paggi portarono
uno sgabello vicino alla croce. Una volta piazzato, il re vi
salì sopra.
«Credevi
veramente di potermi fregare in questo modo?!»
Sussurrò al suo orecchio.
«Sapevo fin dall’inizio che tu e quella puttanella
eravate in combutta, che ti
sei addossato la colpa per far vivere lei e il vostro bambino, ma hai
perso. È
stato veramente divertente vedere come sopportavi le torture
stoicamente, per
nulla. Cosa può fare l’amore e come può
rovinare un uomo?! La profezia non si
avvererà mai. Ho vinto io.» Scese con aria tronfia
da quel panchetto.
«Miei
sudditi, ci sono delle novità. Quest’uomo ha
mentito anche in punto di morte.
Ha cercato di proteggere questa puttana fino alla fine!»
Indicò la donna.
«Ebbene, quest’ultima era consenziente, non
è stata sedotta con l’inganno.
Pertanto…» si voltò verso il cavaliere
con l’espressione più diabolica che
aveva «condanno la vestale a morte per
impiccagione!» Un boato si levò dalla
folla. L’uomo provò a urlare ma, prima che potesse
emettere un solo suono, una
lancia lo colpì al centro dello sterno, per poi percorrergli
tutto l’addome
squarciandolo. Le viscere pendevano su una pozza di sangue ai suoi
piedi, il
mondo all’improvviso si fece nero.
Avvertì
il cappio intorno al collo. Non le importava. Amare Dan era
l’unica cosa che
aveva scelto di fare liberamente nell’arco della sua vita.
Non le pesava di
morire, lo avrebbe raggiunto, ma non poteva permettere che anche suo
figlio
perisse, a causa della cupidigia di quel re malvagio. Sentì
la corda farsi
sempre più stretta e l’aria mancare sempre
più. Fece ricorso alle sue ultime
forze per esprimere la formula magica. Un ghigno si fece largo sul suo
volto.
Il mondo cominciò a sfumare fino a diventare una massa
informe di nero.
La
folla urlò felice nel vedere i due criminali morire. La
stabilità e la
prosperità del regno erano salve. Tutta
quell’ilarità svanì
all’improvviso. Il
silenzio piombò nuovamente in quella piazza. Una evidente
macchia rossa si
espandeva dal corpo penzolante della donna, all’altezza del
bacino. Videro
lentamente spuntare, tra le sue gambe, una testa con
dei radi capelli rossi, ricoperta di sangue.
Delicatamente, come
sorretto da delle mani invisibili, videro il piccolo essere adagiarsi
al suolo.
Il vagito del neonato si udì per tutto l’ampio
spiazzo. I dodici rintocchi
delle campane, provenienti dalle due torri campanarie, sembrarono
risvegliare
la gente, che cominciò a scappare all’impazzata.
Un bambino, nato da una donna
morta, significava solo una cosa, una sciagura si sarebbe abbattuta su
di loro.
I soldati, incalzati dalle urla del re, si stavano avventando con le
loro spade
sul quel corpicino; ma rimasero con le armi a mezz’aria,
perché all’improvviso
era sparito nel nulla.
I
due viandanti camminavano lentamente, attraverso la foresta situata sul
limite
orientale del regno di Atlas. Nonostante fosse pieno giorno, la luce
faceva
fatica a filtrare attraverso l’intricato fogliame degli alti
alberi, il che
rendeva meno gravoso marciare durante quella torrida estate. I due si
fermarono
sotto un’enorme quercia, per far riposare i piedi doloranti a
causa del lungo
cammino. La donna appoggiò la schiena dolente contro il
tronco e cominciò a
massaggiare lentamente il prominente pancione. L’uomo le si
sedette accanto,
guardandola con aria afflitta.
«È
stata una follia metterci in viaggio in queste condizioni. Dovevamo
aspettare
che nostra figlia nascesse.»
«Sai
benissimo che non era possibile. La nostra casa, il nostro ordine,
tutto
distrutto dalla guerra. L’unica possibilità di
salvezza era fuggire e alla
svelta.»
«Sono
otto mesi che siamo in viaggio. Hai trascorso tutta la gravidanza a
sfuggire
agli sgherri del nemico. Ho perso il conto di quanti confini abbiamo
passato,
di quante valli abbiamo attraversato, di quante montagne abbiamo
valicato. Che
razza di padre e marito sono?»
«Un
padre e un marito che ha a cuore la propria famiglia. Che ha aiutato
fino
all’ultimo secondo il proprio ordine a non perire, ma che ha
dovuto arrendersi
alla soverchiante brutalità del nemico. Un padre che non ha
esitato a lasciare
la propria terra natia, a rinnegare la propria natura, pur di mettere
la sua
famiglia in salvo.»
«Un
marito che ti ha costretto a vivere uno dei momenti più
belli della vita da
fuggiasca.»
«Momenti
che non avrebbero senso se tu non fossi accanto a me.»
«Mi
dispiace.»
«Per
cosa? Non hai nulla di cui scusarti. Sei stato tu a suggerire a Ulghur
di
attaccare la nostra enclave? Non mi risulta. Sei stato tu a mettere
alle
calcagna dei superstiti di quella mattanza, quei maledetti assassini?
Non mi
sembra. Quindi, smetti di dire cavolate e dammi una mano a rialzarmi,
che
questo pancione pesa!»
L’uomo
stava per tenderle la mano, quando all’improvviso sul volto
della donna si fece
largo una smorfia di dolore.
«Tutto
bene? La tua espressione non mi piace per niente.»
«Non
ti preoccupare, è stata solo una fitta.» Face per
tendere la mano verso il
marito, quando una seconda fitta, più potente, la
bloccò nuovamente.
«Cazzo!»
Urlò. Sentì una sostanza gelatinosa e calda
inumidirle le gambe. «Cazzo, cazzo,
cazzo!» Imprecò nuovamente.
«Cosa
succede?» Chiese preoccupato il mago.
«A
quanto pare nostra figlia ha deciso di nascere, proprio qui.»
«No,
no, no, no. Mancavano diversi giorni. Dovevamo arrivare nella
capitale…»
«Cerca
di restare calmo e lucido, dopotutto quella che soffre qui sono
io.»
«Siamo
nel bel mezzo del nulla. Nessuno a cui chiedere
aiuto…»
«Fridrick
dell’enclave di Silren. Primo dell’ordine dei
maghi, ti ho detto di restare
calmo!» L’uomo sembrò ridestarsi
nell’udire quelle parole. Sapeva che, quando
la sua dolce metà lo apostrofava in quel modo, era meglio
rimanere molto
attenti. «Sei il mago più potente della tua
generazione, oltre che il maggior
esperto in magie curative. Quindi concentrati e aiutami!»
«Hai
ragione, vedrai, andrà tutto per il meglio.» Si
guardò intorno alla ricerca di
un terreno abbastanza pianeggiante. Lo individuò a pochi
metri da loro.
Percorse la breve distanza a grandi falcate. Dalla sua borsa da viaggio
estrasse diversi sacchetti e strumenti. Cominciò a tracciare
diversi simboli
sul terreno. Mentre lavorava solerte, ogni tanto guardava con la coda
dell’occhio la moglie; dalle smorfie di dolore e da come si
contorceva vicino
al tronco dell’albero, capì che non mancava molto
al parto. Aumentò il ritmo
del lavoro. Tracciare quei simboli si stava rivelando più
difficile del
previsto.
La
venuta al mondo di una nuova vita tra i maghi era un evento raro.
Quelle poche
nascite, erano sempre state il frutto dell’unione tra un mago
con un uomo o una
donna, incapace di manipolare la forma della natura. Era la prima volta
che la
vita germogliava tra due esseri con le stesse capacità.
Questa incapacità di
generare discendenza, era stata compensata con una durata della vita
ben
superiore rispetto agli uomini comuni. Era la natura che li generava
così.
Nascevano con quel dono che allo stesso tempo era anche una
maledizione. Ma, Re
Ulghur non era dello stesso avviso. Dapprima si era rivelato amichevole
verso
la loro enclave; con il passare degli anni invece, sempre
più ossessionato
dalla morte. Aveva cominciato a fare strane richieste ai maghi. Quali
pozioni
usassero per allungare la loro vita, di rivelargli le formule per
mantenere
intatto il vigore. A nulla erano servite le spiegazioni fornitegli. Le
richieste erano diventate sempre più pressanti, fino a
sfociare in quel feroce
attacco, che aveva distrutto completamente la loro comunità.
Gli si formò un
groppo in gola al pensiero degli amici uccisi, incarcerati e torturati.
Al
sacrificio che avevo compiuto per permettere a lui e ad Astrid di
scappare,
perché la nascita della bambina della profezia avesse
compimento. L’urlo della
donna lo ridestò da quei cupi pensieri. Aveva finito. Si
precipitò verso di
lei, la prese in braccio e delicatamente la depositò al
centro di quella fitta
sequenza circolare di formule. La dilatazione dell’utero era
al massimo, la
fase più delicata stava per iniziare. Cominciò a
recitare una serie di formule,
mentre le urla della donna si facevano sempre più
strazianti. Ci vollero
diverse spinte affinché vedesse la testolina comparire.
«Continua
così, stai andando alla grande!»
«Fanculo!
Il dolore mi sta
uccidendo, fa qualcosa invece di parlare!»
Si
lasciò scivolare quegli improperi addosso. Anche lei sapeva
molto bene che,
tutte quelle formule, servivano per proteggere
l’integrità fisica e della
salute sua e del neonato; sul dolore non poteva farci nulla. La testa
era
spuntata del tutto, lentamente apparirono anche le spalle. Con tutta la
delicatezza di cui era capace, comincio a tirare quel corpicino, in
modo tale
da poter facilitare l’operazione. Con un ultimo urlo, seguito
da una poderosa
spinta, finalmente il nascituro era fuoriuscito del tutto. Un vagito
riecheggiò
per tutta la radura, seguito da dodici colpi di campana provenienti da
luogo
lontano. Dal nulla fece comparire delle forbici, con cui
tagliò il cordone. Poi
fece apparire una bacinella con dell’acqua tiepida, per
ripulire la bambina dal
sangue. Si fermò un attimo a rimirarla. Non poté
impedire alle lacrime di
uscire. Prese dalla borsa da viaggio una coperta e l’avvolse
intorno a quel
minuto corpicino. Si distese accanto ad Astrid.
«È
bellissima, come te.»
«Il
solito adulatore! Come la chiamiamo?»
«Che
ne pensi di Eir?»
«Eir?
Penso che sia bellissimo…»
La
stanchezza si faceva sempre più pressante. Eir e Astrid
dormivano beatamente.
Lanciò una magia intorno a quel luogo, in modo da renderlo
invisibile e
introvabile a qualsiasi essere vivente. Si addormentò sereno
vicino alle due
donne della sua vita.
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