Entanglement

di mask89
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Entanglement

Capitolo I

 

Le prime luci dell’alba filtravano attraverso i due campanili del tempio che si affacciava sul mare. La timida luce solare, che attraversava le rade nuvole, rischiarava le candide pietre tagliate a mano, che costituivano la tessitura muraria delle alte torri campanarie. Lentamente cominciava a scaldare la piazza, la quale accoglieva la gente che stava affluendo silenziosamente. L’unico rumore, che rompeva quel lugubre silenzio, era il garrito dei gabbiani, i quali avidamente si aggiravano sopra le teste dei muti avventori, alla ricerca di scarti di cibo.

Il torrido caldo di luglio avrebbe trasformato in poco tempo quella piazza in un forno rovente, dove solo la brezza di mare avrebbe portato un lieve sollievo, ma questo non sembrava scoraggiare la popolazione. Nonostante l’ora non agevole, l’ampio spazio, situato al centro della città, era quasi al massimo della sua capacità. Le guardie reali riuscivano a stento a gestire quel flusso umano; donne, uomini e anche bambini. Nessun abitante della capitale del regno voleva perdersi lo spettacolo che da lì poco si sarebbe consumato. I nobili, affacciati dai balconi dei loro palazzi, che circondavano la piazza, guardavano esterrefatti quel silente fiume umano, che non sembrava avere fine. Non avevano mai visto quel luogo in quelle condizioni, neanche nei giorni più floridi del regno, neppure durante i giorni di festa. Era come se tutta la gente del mondo fosse accorsa lì. I rintocchi delle campane scandirono sette colpi, ma nessuno degli astanti sembrò farci caso. Erano troppo concentrati ad osservare il palco che sorgeva al centro dello spiazzo. Solo lo sferruzzare di ruote metalliche sul basolato fece serpeggiare, tra la moltitudine di gente lì presente, un concitato stato di agitazione. Tutti gli occhi erano concentrati sul piccolo carro, che lentamente stava avanzando dal palazzo reale, situato a un chilometro da lì, in perfetta contrapposizione con l’edificio sacro. Quando, finalmente, la figura stante sul carro fu visibile a tutta la gente, ripiombò il silenzio. Tutto il mondo taceva, anche i gabbiani avevano smesso di emettere i loro striduli versi, come a voler sottolineare maggiormente quello strano momento. Solo il lontano sciabordare delle onde, contro i frangiflutti, interrompeva quella angosciante monotonia. L’unico a non accorgersi di tutta quella tensione, quel clamore, era la figura eretta sul carro. Tutto il mondo gli sembrava indifferente. Il suo sguardo era ricolmo di calma. I suoi bei lineamenti non tradivano nessuna emozione. Solo i suoi capelli color del grano, incrostati di sudicio lerciume e i suoi vestiti logori, pieni di sangue rappreso, risaltavano il suo status di prigioniero.

Le quattro guardie reali, che accompagnavano quel piccolo cocchio trainato da un cavallo prossimo alla morte, non gli staccavano gli occhi di dosso; come se le robuste catene, che gli bloccavano sia gli arti superiori che quelli inferiori, non fossero sufficientemente sicure. Nonostante presentasse diverse ferite, che anche un osservatore poco attento avrebbe giudicato recenti, il corpo dell’uomo risultava robusto e ben allenato; ma, di certo, non sarebbe stato capace di forzare quella arzigogolata camicia di forza fatta di anelli di ferro. Nessuna sofferenza proveniva da quel viso, come se quelle piaghe inflitte nella carne appartenessero ad un altro essere. L’unico sussulto che ebbe, che passò del tutto inosservato alla maggior parte degli spettatori, fu quando il carro fu vicino al palco. Nonostante fossero presenti le maggiori cariche reali e religiose, i suoi occhi erano puntati su una minuta donna, con degli indomabili capelli rosso fuoco, dagli occhi color pece, gonfi a causa del pianto e con un prominente pancione. Si impose di non mostrare una sola emozione, volevano fiaccarlo ulteriormente nel morale e nello spirito; non avrebbe ceduto per dare loro la soddisfazione di essere riusciti a spezzarlo, doveva resistere solo un altro po’, poi tutto sarebbe finito e lei sarebbe stata salva. Il carro si era finalmente fermato davanti al patibolo, la porta dell’angusta cella si aprì sferragliando. Lo aiutarono a scendere strattonandolo, come se le ferite e le pesanti catene non costituissero già un serio impedimento ai suoi movimenti, ma rimase indifferente. Salì lentamente i gradini, non perché volesse allontanare da sé quell’amaro calice, ma i muscoli delle sue gambe erano intorpiditi e provati a causa delle torture inflittegli. Deambulare gli provocava spasmi di dolore in tutto il corpo, ma strinse i denti. Era giunto finalmente sul palco. Guardò i suoi carnefici negli occhi uno per volta, lentamente, come a sottolineare la solennità di quel momento. Deliberatamente evitò di incrociare lo sguardo della donna. La sua determinazione sarebbe stata fatta a pezzi se solo ci avesse provato.

«Quest’uomo» urlò il re alla muta folla in piazza «il primo cavaliere di Atlas, eroe della nostra ultima guerra, si è macchiato di un reato gravissimo. Ha sedotto con l’inganno una delle sacre vestali dell’ordine del tempio e l’ha ingravidata. Sapete molto bene che la legge non permette ad un cavaliere e ad una vestale di avere rapporti e consorti, fino alla fine dei loro giorni. Ebbene, quest’uomo ha calpestato questa sacra regola, imposta da quel sant’uomo di mio nonno, al fine di mantenere integro il regno. Affinché questi uomini e queste donne proteggessero e servissero, senza nessuna remora, questo bel reame.

Lui ha infranto il sacro giuramento, ed ha persino concepito un figlio con questa donna. Pertanto, verrà condannato a morte per crocifissione. La sacerdotessa, in quanto ingannata, verrà espulsa dal regno; ma, se soltanto oserà avvicinarsi in futuro ai confini, verrà giustiziata seduta stante. Questa è la giustizia del re. Cavaliere, ha qualcosa da dire prima di essere crocifisso?» 

«Beh, visto il prezzo che sto pagando, avrei preferito sedurre una più formosa.» Rispose sprezzante. Un pugno di una guardia reale lo fece piegare su sé stesso. Sentì picchiare violentemente la schiena contro un ruvido palo di legno. Un altro pugno raggiunse la sua mascella. Sentì diverse mani trafficare con le catene. Per un attimo si sentì leggero, prima che diverse mani lo immobilizzassero contro quella ruvida croce di legno. Sentì le fredde punte metalliche dei chiodi premere contro i suoi polsi e il collo dei piedi. Quattro colpi metallici dati all’unisono. Sentì le sue carni essere dilaniate da un dolore tremendo e le sue ossa frantumarsi sotto l’incedere di quei colpi, ma non urlò. La sofferenza aumentava ogni secondo che passava, ma non un solo gemito usciva dalla bocca. Avvertì la pressione di tutte quella mani sui suoi arti svanire di colpo. Violentemente, fu issato sul palco ed esposto al pubblico ludibrio degli astanti.

Il sole era ormai alto nel cielo, era quasi mezzogiorno e il caldo era già soffocante. Avvertiva le sue forze venire sempre meno, ormai era prossimo alla morte. All’improvviso sul palco ci fu del trambusto. Un araldo che scortava una donna salì sul palco ed andò a parlare con il re, che ascoltava attentamente. Nonostante la vicinanza, non riusciva a capire cosa si stessero dicendo. Vide il monarca fare un cenno della mano e l’uomo allontanarsi. Dei paggi portarono uno sgabello vicino alla croce. Una volta piazzato, il re vi salì sopra.

«Credevi veramente di potermi fregare in questo modo?!» Sussurrò al suo orecchio. «Sapevo fin dall’inizio che tu e quella puttanella eravate in combutta, che ti sei addossato la colpa per far vivere lei e il vostro bambino, ma hai perso. È stato veramente divertente vedere come sopportavi le torture stoicamente, per nulla. Cosa può fare l’amore e come può rovinare un uomo?! La profezia non si avvererà mai. Ho vinto io.» Scese con aria tronfia da quel panchetto.

«Miei sudditi, ci sono delle novità. Quest’uomo ha mentito anche in punto di morte. Ha cercato di proteggere questa puttana fino alla fine!» Indicò la donna. «Ebbene, quest’ultima era consenziente, non è stata sedotta con l’inganno. Pertanto…» si voltò verso il cavaliere con l’espressione più diabolica che aveva «condanno la vestale a morte per impiccagione!» Un boato si levò dalla folla. L’uomo provò a urlare ma, prima che potesse emettere un solo suono, una lancia lo colpì al centro dello sterno, per poi percorrergli tutto l’addome squarciandolo. Le viscere pendevano su una pozza di sangue ai suoi piedi, il mondo all’improvviso si fece nero. 

 

Avvertì il cappio intorno al collo. Non le importava. Amare Dan era l’unica cosa che aveva scelto di fare liberamente nell’arco della sua vita. Non le pesava di morire, lo avrebbe raggiunto, ma non poteva permettere che anche suo figlio perisse, a causa della cupidigia di quel re malvagio. Sentì la corda farsi sempre più stretta e l’aria mancare sempre più. Fece ricorso alle sue ultime forze per esprimere la formula magica. Un ghigno si fece largo sul suo volto. Il mondo cominciò a sfumare fino a diventare una massa informe di nero.

La folla urlò felice nel vedere i due criminali morire. La stabilità e la prosperità del regno erano salve. Tutta quell’ilarità svanì all’improvviso. Il silenzio piombò nuovamente in quella piazza. Una evidente macchia rossa si espandeva dal corpo penzolante della donna, all’altezza del bacino. Videro lentamente spuntare, tra le sue gambe, una testa con dei radi capelli rossi, ricoperta di sangue. Delicatamente, come sorretto da delle mani invisibili, videro il piccolo essere adagiarsi al suolo. Il vagito del neonato si udì per tutto l’ampio spiazzo. I dodici rintocchi delle campane, provenienti dalle due torri campanarie, sembrarono risvegliare la gente, che cominciò a scappare all’impazzata. Un bambino, nato da una donna morta, significava solo una cosa, una sciagura si sarebbe abbattuta su di loro. I soldati, incalzati dalle urla del re, si stavano avventando con le loro spade sul quel corpicino; ma rimasero con le armi a mezz’aria, perché all’improvviso era sparito nel nulla.

 

I due viandanti camminavano lentamente, attraverso la foresta situata sul limite orientale del regno di Atlas. Nonostante fosse pieno giorno, la luce faceva fatica a filtrare attraverso l’intricato fogliame degli alti alberi, il che rendeva meno gravoso marciare durante quella torrida estate. I due si fermarono sotto un’enorme quercia, per far riposare i piedi doloranti a causa del lungo cammino. La donna appoggiò la schiena dolente contro il tronco e cominciò a massaggiare lentamente il prominente pancione. L’uomo le si sedette accanto, guardandola con aria afflitta.

«È stata una follia metterci in viaggio in queste condizioni. Dovevamo aspettare che nostra figlia nascesse.»

«Sai benissimo che non era possibile. La nostra casa, il nostro ordine, tutto distrutto dalla guerra. L’unica possibilità di salvezza era fuggire e alla svelta.»

«Sono otto mesi che siamo in viaggio. Hai trascorso tutta la gravidanza a sfuggire agli sgherri del nemico. Ho perso il conto di quanti confini abbiamo passato, di quante valli abbiamo attraversato, di quante montagne abbiamo valicato. Che razza di padre e marito sono?»

«Un padre e un marito che ha a cuore la propria famiglia. Che ha aiutato fino all’ultimo secondo il proprio ordine a non perire, ma che ha dovuto arrendersi alla soverchiante brutalità del nemico. Un padre che non ha esitato a lasciare la propria terra natia, a rinnegare la propria natura, pur di mettere la sua famiglia in salvo.»

«Un marito che ti ha costretto a vivere uno dei momenti più belli della vita da fuggiasca.»

«Momenti che non avrebbero senso se tu non fossi accanto a me.»

«Mi dispiace.»

«Per cosa? Non hai nulla di cui scusarti. Sei stato tu a suggerire a Ulghur di attaccare la nostra enclave? Non mi risulta. Sei stato tu a mettere alle calcagna dei superstiti di quella mattanza, quei maledetti assassini? Non mi sembra. Quindi, smetti di dire cavolate e dammi una mano a rialzarmi, che questo pancione pesa!»

L’uomo stava per tenderle la mano, quando all’improvviso sul volto della donna si fece largo una smorfia di dolore.

«Tutto bene? La tua espressione non mi piace per niente.»

«Non ti preoccupare, è stata solo una fitta.» Face per tendere la mano verso il marito, quando una seconda fitta, più potente, la bloccò nuovamente.

«Cazzo!» Urlò. Sentì una sostanza gelatinosa e calda inumidirle le gambe. «Cazzo, cazzo, cazzo!» Imprecò nuovamente.

«Cosa succede?» Chiese preoccupato il mago.

«A quanto pare nostra figlia ha deciso di nascere, proprio qui.»

«No, no, no, no. Mancavano diversi giorni. Dovevamo arrivare nella capitale…»

«Cerca di restare calmo e lucido, dopotutto quella che soffre qui sono io.»

«Siamo nel bel mezzo del nulla. Nessuno a cui chiedere aiuto…»

«Fridrick dell’enclave di Silren. Primo dell’ordine dei maghi, ti ho detto di restare calmo!» L’uomo sembrò ridestarsi nell’udire quelle parole. Sapeva che, quando la sua dolce metà lo apostrofava in quel modo, era meglio rimanere molto attenti. «Sei il mago più potente della tua generazione, oltre che il maggior esperto in magie curative. Quindi concentrati e aiutami!»

«Hai ragione, vedrai, andrà tutto per il meglio.» Si guardò intorno alla ricerca di un terreno abbastanza pianeggiante. Lo individuò a pochi metri da loro. Percorse la breve distanza a grandi falcate. Dalla sua borsa da viaggio estrasse diversi sacchetti e strumenti. Cominciò a tracciare diversi simboli sul terreno. Mentre lavorava solerte, ogni tanto guardava con la coda dell’occhio la moglie; dalle smorfie di dolore e da come si contorceva vicino al tronco dell’albero, capì che non mancava molto al parto. Aumentò il ritmo del lavoro. Tracciare quei simboli si stava rivelando più difficile del previsto.

La venuta al mondo di una nuova vita tra i maghi era un evento raro. Quelle poche nascite, erano sempre state il frutto dell’unione tra un mago con un uomo o una donna, incapace di manipolare la forma della natura. Era la prima volta che la vita germogliava tra due esseri con le stesse capacità. Questa incapacità di generare discendenza, era stata compensata con una durata della vita ben superiore rispetto agli uomini comuni. Era la natura che li generava così. Nascevano con quel dono che allo stesso tempo era anche una maledizione. Ma, Re Ulghur non era dello stesso avviso. Dapprima si era rivelato amichevole verso la loro enclave; con il passare degli anni invece, sempre più ossessionato dalla morte. Aveva cominciato a fare strane richieste ai maghi. Quali pozioni usassero per allungare la loro vita, di rivelargli le formule per mantenere intatto il vigore. A nulla erano servite le spiegazioni fornitegli. Le richieste erano diventate sempre più pressanti, fino a sfociare in quel feroce attacco, che aveva distrutto completamente la loro comunità. Gli si formò un groppo in gola al pensiero degli amici uccisi, incarcerati e torturati. Al sacrificio che avevo compiuto per permettere a lui e ad Astrid di scappare, perché la nascita della bambina della profezia avesse compimento. L’urlo della donna lo ridestò da quei cupi pensieri. Aveva finito. Si precipitò verso di lei, la prese in braccio e delicatamente la depositò al centro di quella fitta sequenza circolare di formule. La dilatazione dell’utero era al massimo, la fase più delicata stava per iniziare. Cominciò a recitare una serie di formule, mentre le urla della donna si facevano sempre più strazianti. Ci vollero diverse spinte affinché vedesse la testolina comparire.  

«Continua così, stai andando alla grande!»

«Fanculo! Il dolore mi sta uccidendo, fa qualcosa invece di parlare!»

Si lasciò scivolare quegli improperi addosso. Anche lei sapeva molto bene che, tutte quelle formule, servivano per proteggere l’integrità fisica e della salute sua e del neonato; sul dolore non poteva farci nulla. La testa era spuntata del tutto, lentamente apparirono anche le spalle. Con tutta la delicatezza di cui era capace, comincio a tirare quel corpicino, in modo tale da poter facilitare l’operazione. Con un ultimo urlo, seguito da una poderosa spinta, finalmente il nascituro era fuoriuscito del tutto. Un vagito riecheggiò per tutta la radura, seguito da dodici colpi di campana provenienti da luogo lontano. Dal nulla fece comparire delle forbici, con cui tagliò il cordone. Poi fece apparire una bacinella con dell’acqua tiepida, per ripulire la bambina dal sangue. Si fermò un attimo a rimirarla. Non poté impedire alle lacrime di uscire. Prese dalla borsa da viaggio una coperta e l’avvolse intorno a quel minuto corpicino. Si distese accanto ad Astrid.

«È bellissima, come te.»

«Il solito adulatore! Come la chiamiamo?»

«Che ne pensi di Eir?»

«Eir? Penso che sia bellissimo…»

La stanchezza si faceva sempre più pressante. Eir e Astrid dormivano beatamente. Lanciò una magia intorno a quel luogo, in modo da renderlo invisibile e introvabile a qualsiasi essere vivente. Si addormentò sereno vicino alle due donne della sua vita.

 





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