Dopo
aver vinto il campionato del Kentucky, i confini scacchistici di Beth
si erano allargati. Aveva scoperto che, sì, lei era
l'incontrastata regina dello stato, ma esisteva una gerarchia dei
campioni, esattamente come nei pezzi. Essere il campione dello stato
era come essere un alfiere: forte,
certo, ma ce ne sono di molto più importanti. Come, ad
esempio,
il campione nazionale, paragonabile a una torre, oppure il campione del
mondo, la potente
regina. E il campione del mondo, da anni, era un russo di nome
Vasily Borgov.
Non appena
aveva compreso questa grande verità aveva deciso di
darsi un traguardo importante, un traguardo che molti non avrebbero
neanche osato formulare: diventare il miglior giocatore del mondo.
D'altronde, perché non puntare in alto? Era giovane e
talentuosa, e gli scacchi le venivano naturali come respirare. Ma era
perfettamente conscia che per raggiungere il suo scopo avrebbe dovuto
per forza battere Vasily Borgov, lui che aveva conquistato quel titolo
e poteva sfoggiarlo con orgoglio. E così Beth aveva iniziato
a
raccogliere qualunque tipo di informazione su di lui che potesse
racimolare: articoli, libri — ma non il suo, no, troppo
terrore
reverenziale solo a guardare la copertina — e fotografie.
Aveva
ricostruito in questa maniera un'idea delle sue origini e di chi fosse:
nato a Leningrado, bambino prodigio come lei, era diventato Gran
Maestro a soli venti anni e da allora era una delle figure di
spicco della scuola sovietica; aveva conquistato il titolo di campione
del mondo dalle mani di Petrosian tre anni prima e, fino a quel
momento,
nessuno era riuscito a strapparglielo. Prediligeva uno stile tecnico,
la teoria sulla creatività. Luchenko lo definiva un
"dio dei finali" poiché era perfetto, implacabile
nell'inseguire
un vantaggio minuscolo e inflessibile nella difesa.
Vasily
Borgov era il suo opposto, il rovescio della sua medaglia, ma
anche il suo simile. Solo a pensarci le veniva la pelle d'oca e le mani
le tremavano.
Aveva
studiato tutte le sue partite su cui era riuscita a mettere le
mani e ogni analisi la lasciava a bocca aperta: un gioco
così
pulito, preciso, era una gioia per i suoi occhi; era ogni
volta rapita dalla magia che riusciva a creare sulla scacchiera,
poiché le sue non erano semplici partite ma opere d'arte. E
lei
non poteva far altro che ammirarle con reverenza, come un fedele che
rimane estasiato davanti a un dipinto religioso, il cuore in gola.
La
decisione di iscriversi a un corso di russo era stata naturale: gli
scacchi erano il gioco dei sovietici da vent'anni. Beth avrebbe
imparato a parlare la stessa lingua del loro re.
Lo aveva
visto di persona la prima volta a Città del Messico, quando
aveva 17 anni.
Era una
mattinata piovosa e sua madre l'aveva convinta a prendere una
boccata d'aria prima del suo primo match. Rilassarsi, secondo lei,
l'avrebbe aiutata a giocare meglio e non lo studio dell'ultimo minuto
per colmare le lacune nella sua preparazione dei finali. Beth voleva
accontentarla, nella speranza che le prestasse le attenzioni che ora
erano rivolte soltanto a Manuel, perciò decise di fare una
passeggiata nel parco Chapultepec: le era stato assicurato che le
sarebbe piaciuto, grande e rigoglioso com'era, ma ciò che
alla
fine aveva veramente apprezzato era il fatto che nessuno le chiedesse
l'età quando ordinava da bere. Non appena l'alcol le era
entrato
in circolo aveva pensato che
sì, forse Alma aveva ragione, si sentiva molto meglio ora
che
non aveva più la mente occupata dal pensiero del suo
avversario
del pomeriggio. Era entrata nel padiglione delle scimmie, incuriosita
da questi animali così simili all'uomo, anche per trovare un
minimo di riparo dalla pioggia che aveva aumentato
d'intensità e
lì, mentre guardava un esemplare in particolare muoversi con
agilità per la teca, i suoi occhi colsero un movimento sulla
sua
destra.
Beth Harmon
vide per la prima volta Vasily Borgov nello zoo di Chapultepec.
Come non
riconoscere l'uomo di cui aveva studiato avidamente ogni
gioco, la cui foto era quasi sempre presente su ogni numero di Chess Review? Era
lì, a malapena cinque metri da lei.
La prima
sensazione fu di delusione, quasi. Era un uomo normale.
Portava i capelli laccati e pettinati di lato come ogni uomo sopra i
trent'anni che consocesse, sembrava alto, sì, ma non aveva
una
fisicità imponente, e indossava un completo scuro
— marrone,
forse? Nero? Aveva la vista un po' annebbiata... — come
chiunque. Con
una famiglia qualunque, una famiglia che si sarebbe aspettata di avere
come vicina di casa a Lexington: una moglie più giovane di
lui,
in un vestito giallo e un cappello coordinato, e un figlioletto al
quale si chinava per dire qualcosa all'orecchio. Spiegazioni sulle
scimmie, chi lo sa, era troppo lontana per capire.
Vasily
Borgov, il re degli scacchi, era un uomo ordinario.
Se n'era
andata — fuggita? — subito dopo questa rivelazione,
senza
voltarsi indietro, avvertendo il suo sguardo su di sé. Tutto
d'un tratto studiare i finali le sembrava un'idea molto più
allettante della birra e, persino, delle pillole.
Aveva
cercato il suo sguardo per tutto l'Invitational di Città del
Messico.
Era l'unica
cosa che non aveva potuto osservare da quel incontro fugace
allo zoo e forse era proprio quello che lo distingueva dai giocatori
comuni, quelli che stava distruggendo nei vari turni. Aveva cercato di
giocare con lo stile più aggressivo che potesse architettare
in
modo da attirare la sua attenzione, così spietato che aveva
portato quasi alle lacrime un giocatore austriaco che aveva osato
opporsi a lei. Ma Borgov aveva continuato a concentrarsi solo sul suo
torneo, senza mai abbassarsi a guardare le scacchiere altrui.
Quando
aveva visto i loro nomi vicini, per la partita dell'ultimo
giorno, aveva avuto le vertigini: avrebbe finalmente giocato contro il
campione del mondo. Borgov avrebbe dovuto per forza guardarla. Al solo
pensiero aveva sentito lo stomaco chiudersi e un nodo formarsi in gola.
Si era
vestita per fare bella figura, con uno dei suoi
completi preferiti: voleva che si ricordasse di Elizabeth Harmon, la
giovane promessa degli Stati Uniti, così come lui occupava
spesso la sua mente. Era persa in questi pensieri leggermente
egocentrici quando vide i russi entrare nell'ascensore, ma non
abbastanza distratta da non sentire come i due uomini che
fiancheggiavano Borgov la stessero denigrando: un'ubriacona, si dice;
si arrabbia quando sbaglia, ma è comprensibile visto che
è una donna... Non si era mai sentita
così umiliata in
vita sua e il nodo alla gola si era sciolto in una fiamma che le
bruciava in petto. Tuttavia, fra tutti, fu proprio Borgov
a interrompere i due, senza sapere che la ragazza di cui aveva preso le
difese era a neanche due metri di distanza; o forse lo sapeva,
poiché non appena finì di parlare
lanciò un'occhiata
dietro di sé, verso di lei. Beth era stata rapida a
distogliere
lo sguardo dai russi e fingere innocenza, ma forse non abbastanza.
Erano usciti velocemente dall'ascensore e lei li aveva seguiti a
debita distanza, senza mai togliere gli occhi dalla schiena di Borgov.
Ora la voglia di guardarlo negli occhi era diventata una vera e propria
necessità: doveva sapere cosa realmente pensava di lei e lo
avrebbe capito così, visto che parlare con lui era fuori
discussione.
Ma Borgov
evitò il suo sguardo per tutta la partita, il viso che
assomigliava a una maschera di ghiaccio. E Beth comprese che nulla al
mondo gli avrebbe mai fatto cambiare espressione, a parte mettere
appositamente in presa la regina o lanciargli in faccia il pezzo, ma
quest'ultima opzione non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua
già pessima reputazione. Se solo avesse avuto
le sue pillole non si sarebbe sentita così irrequieta,
così frustrata dall'impossibilità di suscitare la
benché minima emozione in lui, solo la più
completa
apatia. Questa idea la faceva ribollire e non l'aiutava di certo la
posizione sulla scacchiera - terribile, con tutti i suoi pezzi in un
angolo, raccolti attorno al re nella vana speranza di difenderlo -
né l'espressione sconsolata dei gemelli. Né la
sedia
vuota che avevano riservato per sua madre.
Era sola,
di nuovo. Sola contro il campione del mondo, che più
che un uomo assomigliava a una macchina progettata dai sovietici per il
controllo assoluto del gioco.
Se solo avesse avuto le sue pillole...
Ma era
perfettamente consapevole che neanche loro
l'avrebbero potuta salvare e l'unica cosa giusta da fare era
abbandonare. Era una questione di sportività e rispetto
dell'avversario, la
prima lezione del signor Shaibel.
Borgov non
la guardò neanche quando si rifiutò di
stringergli la mano.
A Parigi
avrebbe pagato qualunque cifra purché la smettesse di
fissarla.
Sapeva di
puzzare, se lo sentiva. Sapeva che l'odore di alcol, sesso e
vomito essiccato non erano andati via magicamente quando si era
spruzzata addosso quanto più profumo potesse mentre cercava
le
scarpe. Sapeva che tutti avevano intuito cosa non andasse in lei,
perché avesse chiesto la terza caraffa d'acqua in un'ora.
Se tutti
sapevano, perché umiliarla ancora di più
fissandola? Borgov era un uomo crudele.
L'unica
volta che si era azzardata a guardarlo, all'inizio del
mediogioco, era quasi caduta dalla sedia per l'intensità che
i
suoi occhi di ghiaccio erano in grado di convergere. Ed erano pieni di
disgusto, per il suo stato e per il suo gioco indecente. Non poteva
neanche fargliene una colpa poiché era vero, era tutto vero,
e
se ne vergognava: come era potuta cadere così in basso dopo
tutti i sacrifici fatti? Aveva deluso Benny, che l'aveva aiutata a
disintossicarsi e a prepararsi per questo torneo, e aveva
deluso se stessa. Apparentemente aveva deluso anche Borgov, che la
guardava alla ricerca del motivo dietro la sua spirale
autodistruttiva. Perché dietro al disgusto — una
reazione fisica
comprensibile — aveva visto anche un'ombra di preoccupazione.
Forse era
ancora troppo ubriaca e si stava solo immaginando le cose.
Ciò
che sicuramente non si stava immaginando erano gli sguardi
di pietà degli spettatori, che la fissavano avidamente,
ansiosi
di vedere il declino di una promessa. Un giorno si sarebbero vantati di
aver assistito al tracollo di Elizabeth Harmon in diretta, di quanto
fosse penosa, aggrappata al bicchiere d'acqua come a un salvagente, e
di quanto talento avesse sprecato in alcolici e tranquillizzanti. Il
destino dei geni, no? Stavano tutti pensando questo, in una misura o in
un'altra, sembravano quasi degli avvoltoi pronti a banchettare sul
cadavere della sua carriera scacchistica. Nessuno, in quella folla, era
lì per appoggiarla: era sola, un'altra volta, dall'altra
parte
del mondo.
Borgov,
invece, aveva qualcuno lì a fare il tifo per lui. Lui
non era solo. Lui aveva una famiglia che era lì per
supportarlo.
Aveva un figlio dagli occhi vispi e una bella moglie che di sicuro non
passava le notti a bere per colmare i suoi vuoti. Una bella moglie che
non si imbottiva di tranquillanti fin dall'infanzia.
Si era
accorta di star piangendo solo quando la lacrima le
arrivò sull'angolo delle labbra. Aveva abbandonato prima che
si
asciugasse.
Beth era
consapevole di avere un'ossessione per Vasily Borgov.
L'aveva
ridimensionata nel corso degli anni, questo sì, ma era
abbastanza autocritica da vedere quanto spazio nei suoi pensieri
occupasse ancora il campione del mondo. Non aveva mai smesso
completamente di cercare informazioni su di lui, convinta che la chiave
per svelare l'arcano della sua mente fosse lì da qualche
parte:
vedeva Borgov come una posizione da analizzare, la più
complessa che avesse mai visto, e Beth non aveva ancora finito di
trovare varianti. Era
semplicemente affascinante, come solo gli scacchi potevano essere.
Erano i
suoi occhi quello che l'avevano colpita di più: blu
ghiaccio e intensi, Beth poteva ancora sentirli su di sé
mesi
dopo Parigi, specialmente quando cercava sollievo con una mano fra le
gambe.
Gli occhi
di Borgov la seguirono per tutto l'internazionale di Mosca.
Questa
volta non lo stava immaginando, il campione del mondo spesso
lanciava occhiate nella sua direzione: che fosse durante l'esibizione
di giovani prodigi musicali o prima di entrare nella sala di gioco,
Beth sentiva il suo sguardo fisso su di sé. Era sicura che
fosse
il suo, solo Borgov la elettrizzava così. Solo lui, nessun
altro.
Quando lo
vide alzarsi — nel mezzo della partita con quel irritabile
giocatore svedese — per controllare la sua posizione sulla
scacchiera,
capì che finalmente era entrata nella sua mente. Vasily
Borgov
la riconosceva come sua rivale, come sua eguale.
L'eccitazione
che aveva provato in quel preciso momento era
impareggiabile, si sentiva invincibile, niente e nessuno poteva
fermarla ora.
Il suo
trionfo fu assoluto quando Borgov le offrì il suo re,
alla fine della loro partita. Beth lo prese, la sua mano
sorprendentemente ferma, alzandosi in piedi. Era quasi disorientata dal
fragore dell'applauso e da ciò che era appena successo sulla
scacchiera, ma
era proprio Borgov a mantenerla coi piedi per terra: le
stava ancora tenendo la mano e la guardava con un sorriso gentile.
Aveva vinto lei, ma lui le sorrideva
come se fosse orgoglioso
di lei.
Poi,
davanti a tutti, Vasily Borgov l'abbracciò e Beth
ricambiò subito, appoggiando la testa sulla sua spalla; in
questa posizione, poteva avvertire il suo cuore battere furiosamente,
esattamente come il proprio.
Quando si
separarono lo poteva intuire dalla linea tremante della sua
bocca e dal mondo in cui si rifiutava di lasciarla andare: lo sentiva
anche lui, quel fuoco che aveva alimentato il suo desiderio di
spingersi oltre i suoi limiti.
Guardandolo
negli occhi, Elizabeth Harmon realizzò che Vasily Borgov, il
campione del mondo, era ossessionato da lei.
Note dell'Autrice:
È interessante
tornare a scrivere dopo tanti anni, ma questa serie tv mi ha travolta
come un treno e quindi eccomi qua.
Se ho
deciso di pubblicare questa storia su EFP è tutto merito di V a l y,
che mi ha convinto a creare un nuovo account su questo sito.
Perciò grazie, come al solito ti devo tantissimo.
Tutto
sommato, devo ammettero, è bello essere tornati~
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