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Dopo le dimissioni del re
Sargon a favore del figlio ancora minorenne Sennacherib, la vicina
cittadina di Enkidu è ormai diventata centro focale delle
attività
del FLA, il Fronte di Liberazione Antimonarchica, dove il presidente
Madara Uchiha dichiara che, non essendo sufficienti le revisioni
legislative ed economiche a favore dei non-soulmate,
abbatterà anche
il nuovo governo a suo dire formato da arrivisti che tengono in pugno
quello che lui reputa essere un re fantoccio.
“È tempo che questa
pagliacciata di monarchia e l’oligarchia che
c’è dietro finisca.
Le prime controriforme fatte per paura del FLA sono insufficienti e
ridicole, oserei dire, in confronto a tutto quello che ancora
c’è
da fare: bisogna riformare anche e soprattutto la sanità e
l’apparato contributivo, basta a questo sistema statico di
vecchi
ancorati alle tradizioni che ci hanno portato alla recessione
economica più disastrosa degli ultimi secoli, oltre a un
divario
sociale esorbitante con la scusa di tutelare i soulmate, quando
invece gli unici che aiutano sono solo loro stessi. Essere soulmate
non deve però più fare la differenza sul piano
sociale, mai più.
Preparatevi!” così si chiudono le terrificanti
parole del
presidente Uchiha che pure gode di elevata popolarità, al
punto che
ha ottenuto l’immunità per…
Sasuke spense la televisione,
ignorando la breve protesta di sua madre che a quel punto si
limitò
a scuotere la testa.
“Ti interessa continuare a
vedere cos’ha fatto questo pazzo?” le
domandò asciutto, il volto
apparentemente neutro. A tavola acconto a lui Naruto trattenne un
istante il fiato ma, dopo aver lanciato un’occhiata a Itachi
e
Shisui di fronte a sé, prese un altro boccone e
continuò a
mangiare.
La donna tamburellò una volta le
dita sul tavolo, come riflettendo se rispondere, infine
confermò:
“Sì, mi interessa. Ed è grazie a questo
pazzo se siamo tutelati,
non tutti hanno la fortuna di incontrare il soulmate.”
Lanciò
un’occhiata a Itachi, il
quale
finse di non accorgersene,
bevendo un sorso d’acqua. Sasuke serrò le labbra,
inspirando una
volta a fondo con le narici dilatate. Avvertì Naruto
stringergli la
coscia da sotto il tavolo, dunque decise di non ribattere e accettare
il fatto che col
passare degli anni sua madre non avrebbe mai rimosso dal suo
carattere inasprito quella parte di sé che disprezzava i
soulmates.
E il fatto che il suo figlio maggiore Itachi avesse incontrato il
proprio in Shisui non cambiava le cose, anzi, forse addirittura
le
peggiorava: i due infatti
avevano avuto la sfortuna di essere cugini, pertanto
il
pesante legame di parentela a complicava
la questione.
Tutto sommato
però,
nonostante le ribellioni a
sfavore,
essere soulmate bypassava ugualmente
tutte
le leggi in merito a legami di parentela vicini ma non prossimi,
quindi i
due ragazzi avevano
potuto ufficializzare la loro unione senza troppi problemi, eccetto
forse quelli morali posti da Mikoto in primis.
Il
secondogenito Uchiha guardò il fratello e non seppe, proprio
non
capì come facesse questi ad accettare ancora quegli stupidi
pranzi
in famiglia, finti, perché entrambi
tentavano disperatamente di provare un attaccamento materno che in
realtà non avvertivano,
di certo non come un tempo.
Cercò di buttare giù un boccone di arrosto ma
scoprì di avere la
gola così secca da faticare a deglutire, talmente
tanta era la rabbia che provava.
Altroché mangiare, avrebbe voluto ribaltare il tavolo e urlare
a Itachi di andarsene, che Mikoto non lo meritava come figlio: si
prendeva cura di lei e tutto quello che riceveva era un pranzo ogni
tanto mai esente da frecciatine più o meno mirate.
Il
problema più grande di tutti però
– nonché quello che faceva in fin dei conti
desistere Sasuke dallo
scoppiare in quel modo – era che si trovava nella stessa
posizione
di Itachi quanto a incapacità di tagliare del tutto i
rapporti con
la madre. Sebbene
incattivita dal tempo e dalle delusioni era pur sempre il genitore
rimasto loro accanto, sempre, nel bene e nel male, nonché ad
aver
subito le ripercussioni di un marito
non soulmate il quale, dopo un matrimonio di dieci anni e ben due
figli, aveva improvvisamente trovato la
propria
soulmate e se ne era andato. Fugaku
Uchiha aveva
lottato per avere la custodia dei figli ma Mikoto si era rivelata una
leonessa disperata, spendendo tutto ciò che possedeva
– denaro, tempo, amore – pur
di
tenersi i figli. Il tribunale aveva stabilito presso di lei la
residenza
e custodia
principale dei
minori,
con regolamentazione dei giorni e dei periodi paterni secondo
calendario, ma né Itachi, né soprattutto Sasuke
avevano voluto
saperne nulla del padre: li aveva abbandonati, abbandonato la loro
madre, dall’oggi al domani, come se tutto ciò che
avevano creato
non contasse più nulla, quindi
non avevano ritenuto di dover rispettare alcun obbligo nei confronti
dell’uomo.
Per
questo, per non ripetere ciò che il loro padre Fugaku aveva
fatto,
né Sasuke, né Itachi se l’erano mai
sentita di prendere
le distanze da Mikoto.
Persino
quel giorno Sasuke arrivò
al punto da provare quasi compassione per lei e, in fondo, amarla
comunque: la sua mamma, invecchiata e così piena di rancore,
che
si sentiva quasi tradita da Itachi perché anche lui, come
suo padre,
aveva trovato un soulmate anziché restare per sempre vittima
di un
amore sospeso. Lo
invidiava e questo era terribile.
“Domani
partirò per Enkidu – cambiò
allora
improvvisamente argomento
il
giornalista, girando un paio di volte la purea nel piatto, per poi
pulirsi la bocca col tovagliolo e proseguire senza guardare nessuno
in particolare – visti i miei articoli di questi anni e
grazie alle
manovre del direttore, sono riuscito a ottenere un’intervista
con
Madara Uchiha. Mah,
forse
è perché portiamo lo stesso cognome.”
Nessuno
a tavola si mosse. Naruto appoggiò la forchetta e scosse la
testa,
consapevole
che
ovviamente il cognome identico c’entrava ben poco con tutta
la
faccenda: se Sasuke era riuscito nell’impresa era
perché in quei
due anni
e mezzo da quando stavano assieme egli aveva dedicato anima e corpo
alla questione del FLA, ma anche a tutte le forme di ribellione sorte
negli stati vicini che avevano un simile sistema monarchico,
viaggiando spesso come inviato in zone considerate a rischio.
Conosceva Madara, come Madara ormai conosceva lui. Era per questo che
persino
uno che amava rilasciare dichiarazioni ma non interviste come il
presidente del FLA
aveva concesso un colloquio a Sasuke, non certo per una casuale
omonimia.
Ovviamente Naruto sapeva del
viaggio, sapeva anche che non avrebbe rivisto il suo compagno se non
il giorno dopo, e allo stesso modo conosceva i rischi – non
si
sarebbe mai abituato all’idea di non sapere quando e se
Sasuke
sarebbe davvero tornato dai suoi viaggi.
“Spero
che non finirai per far
arrabbiare
anche il presidente come
hai fatto anni fa con il suo vice,
altrimenti stavolta mi sa che
non
te la caverai con una corsa in macchina” scherzò
Naruto, cercando
di alleggerire la tensione. Sorrise quando vide il sorriso spuntare
sul volto altrimenti corrucciato di Sasuke, era sicuro che si stava
spremendo in troppi pensieri come al suo solito.
“Farò
il possibile per tenere per me le mie posizioni
contro
il terrorismo” guardò sua madre quando lo disse.
La donna per
contro si alzò in piedi e
iniziò
a rassettare le prime cose dalla
tavola,
domandando: “Qualcuno vuole un caffè?”
“Per
me come sempre senza zucchero” disse Naruto, dopo che gli
altri
ebbero accettato. Sasuke e lui si guardarono un istante. Di riflesso
Uzumaki
tese
meglio la manica per assicurarsi che il proprio marchio fosse
coperto: come promesso aveva smesso di cercare. Non che gli fosse
costato alcuno sforzo seguire
la richiesta che tempo addietro, quella sera invernale a casa sua,
gli aveva fatto Sasuke,
semplicemente dall’oggi al domani non aveva ritenuto
più
necessario fermarsi in caffetteria durante la pausa, in attesa che
qualcuno pronunciasse la fatidica frase. La verità era che non
voleva che qualcuno eccetto
Sasuke dicesse quelle parole, più in generale non desiderava
in
alcun modo conoscere il suo soulmate, mai; assurdo, per uno abituato
a scommettere di trovarlo a ogni incontro casuale, ma
persino ovvio:
conoscerlo
significava perdere Sasuke, e lui non era pronto, non lo sarebbe mai
stato.
“Certo caro” confermò
Mikoto, con una nota di dolcezza. Forse perché vedeva in lui
una
speranza per il figlio, la coronazione di una vita felice possibile
anche senza soulmate, forse perché naturalmente capace di
star
simpatico, la donna aveva sviluppato un certo affetto per Naruto.
“Anche per Shisui senza
zucchero” intervenne Itachi.
Vergognandosi
senza averne il motivo, con la sensazione di aver rubato qualcosa,
forse
un posto nella scala gerarchica del voler bene, Naruto
guardò un
istante il fratello di Sasuke e il rispettivo compagno, stupendosi
una volta di più di come si potesse essere genitori
così ciechi,
incapaci di vedere i
figli
meravigliosi
davanti a sé.
Forse
era per questa consapevolezza dell’incapacità
materna che Itachi
aveva sì un volto splendido, perfetto avrebbe detto Naruto,
forse
persino troppo, quasi da copertina, ma ammantato da una sorta di
malinconia, come se la sua attenzione non fosse mai rivolta troppo a
lungo alla Terra, astronauta distante anni luce con il cuore
proiettato verso
la
sua personale stella: Shisui, che trovava sempre il modo di
sorridere, di mostrarsi
felice, di farlo ridere, di essere naturalmente complice con una
sintonia splendida, quasi i due avessero una connessione neuronale ed
emotiva costruita cancellando la macchia nera sul torace di entrambi;
abbracciandosi la prima volta, da ragazzini, si erano amati e legati
per sempre.
Non
avevano dovuto attendere, cercare e cercare ancora. L’uno era
sempre stato davanti all’altro. Ma questo li rendeva
meritevoli di
invidie o biasimo? Naruto pensava di no, riteneva
al
contrario
che avevano lottato esattamente come chiunque altro, anzi, forse di
più; era spaventoso che persino in un mondo come il loro, dove
essere soulmate restava a prescindere una fortuna,
dovessero comunque dimostrare qualcosa.
“Guarda che
me lo ricordo, Itachi, non è una cosa speciale”
ribatté la donna.
Serrò i denti, sembrò voler dire altro, ma si
girò andando verso
la cucina accanto.
In quell’istante Sasuke batté
un pugno. Leggero, ma le posate tintinnarono: “Non deve
parlarvi
così.”
Per contro Itachi sembrò calmo,
appoggiò le mani intrecciate sul tavolo e reclinò
appena la testa,
accennando una sorta di sorriso enigmatico: “Capisco che ci
tieni a
noi, fratellino, ma non prendertela. È fatta
così, infelice e
insoddisfatta, mi spiace solo che vivrà male gli ultimi anni
che le
restano.”
Sembrò esserci una nota
malvagia, mitigata però da una sorta di affetto remoto,
ancora
persistente, come una malattia recidiva.
“Non ti conoscessi nel sentirti
parlare così mi spaventeresti” ammise Shisui, con
gli occhi
sgranati e una faccia quasi buffa, in parte divertita. Naruto sorrise
e scorse Itachi fare lo stesso prima di ribattere quasi profetico:
“Magari non mi conosci poi così bene.”
“Seh, a chi vuoi darla a bere –
scherzò l’altro, dandogli un buffetto sulla
spalla, prima di dare
un colpo di tosse e cambiare argomento per non imbarazzare troppo il
compagno – ma Sasuke, smettiamola di elogiare Itachi che non
è
abituato, torniamo invece a te. Ah, Madara Uchiha. La città
di
Enkidu diventata praticamente la sua fortezza. Si prospettano due
giorni di fuoco! Complimenti però, sei davvero un osso duro
per
essere arrivato a tutto questo.”
Prese
il bicchiere, sollevandolo. Sasuke guardò un attimo il
proprio, con
Naruto che già glielo riempiva per brindare, cosa che alla
fine fece
anche
se
fu un gesto quasi accennato, a seguito del quale tenne la base del
vetro
tra le dita, girandola sulla tovaglia con fare pensoso. Dopo un
istante infatti
ribadì:
“Credo in quello che faccio,
tutto qui. E Naruto… – si bloccò,
respirò, poi proseguì – è
stato paziente con me.”
Colto alla sprovvista mentre era
in procinto di bere, l’altro si fermò e
posò il proprio
bicchiere, ridacchiando amabilmente in imbarazzo: “Ma non ho
fatto
nulla di che!”
Eccetto
che lo lasciava andare, come sempre, come in ogni viaggio; nonostante
la paura, il pericolo, l’ancestrale consapevolezza che un
giorno
forse
Sasuke non
sarebbe più tornato. Eppure
lo accettava ogni volta, come aveva detto anni fa era quella
la
consapevolezza
del rischio
dei
rispettivi
mestieri.
E del
rischio di amare, avrebbe aggiunto.
Shisui ridacchiò a sua volta:
“Allora dobbiamo brindare: a Naruto che ti
sopporta.”
Sasuke si
sfregò una volta con il pollice il palmo macchiato
d’inchiostro
indelebile, infine brindò
assieme agli altri guardando il suo compagno negli occhi.
Ripensò
alle nottate svegli a competere in qualche picchiaduro o nei giochi
di corsa in macchina, le litigate perché, secondo Naruto,
Sasuke si
allenava di nascosto e doveva dargli la rivincita; gli
incontri al pub con gli amici di Naruto che erano diventati anche
suoi, tra le sigarette consumate fuori, al freddo, in compagnia di
Kiba, le chiacchiere scarne ma sentite con Shikamaru che gli parlava
della figlia, emozionandosi, la sensibilità di Choji e le
risate
collettive;
i film visti allungando il divano mentre erano avvolti
d’inverno
dalla coperta e finivano per addormentarsi l’uno contro
l’altro;
le cene fuori
che si concedevano
nelle quali o l’uno o l’altro erano in ritardo a
causa del
lavoro, del traffico, di qualche strada chiusa perché era
stato
trovato un ordigno esplosivo, delle manifestazioni a favore o contro
il FLA, la monarchia, il governo, i privilegi e le disuguaglianze; i
piatti presi d’asporto le domeniche in cui erano liberi
entrambi e
non avevano voglia di uscire, dedicando il poco tempo che avevano
solo per loro, nessun altro.
Perché era vero: quando si amava
profondamente una persona le priorità cambiavano. Come
poteva avere
importanza la Terra e tutti i suoi abitanti quando si guardava
un’unica stella amata ma mai, davvero mai abbastanza vicina,
mai
abbastanza capace con la sua luce e il suo calore di annullare del
tutto il resto.
Per questo Sasuke amava le
mattinate pigre con Naruto, i piccoli battibecchi quotidiani, il
farci l’amore quand’erano solo in tuta e pigiama, a
volte con le
calze ancora addosso e in bocca col sapore della colazione, del
caffè, del pranzo non finito, negli occhi l’ultimo
fotogramma di
un film prima di baciarsi.
Per
preservare tutto questo non toglieva mai i guanti d’inverno,
d’estate indossava quelli tagliati in cotone, nessuno faceva
domande, sembrava una fissa come un’altra, quando invece non poteva
sopportare di
mostrare la propria macchia
a
qualcuno
Macchiato
come
lui e magari… trovarlo, trovare il soulmate che da qualche
parte in
quel mondo da cui Sasuke tentava di fuggire ancora lo cercava. Non
toccava nessuno, eccetto pochissime persone, ma
non sentiva la mancanza di un contatto: Naruto
era già quel contatto, la sua famiglia, oltre a Itachi e
Shisui. E a
sua madre che pure, nonostante tutto, continuava a tenersi
vicino.
Nel bagnare le labbra col vino
dopo aver brindato, in un pensiero subitaneo, di quelli involontari
come un guizzo muscolare, si chiese cosa ne fosse di suo padre. Ogni
tanto questi gli mandava un messaggio di auguri, o di buone feste, ma
Sasuke non rispondeva mai; farlo gli sembrava di portare a tradire
tutto ciò che era, che aveva conquistato sino ad allora: un
amore
per cui aveva lottato, ma persino una madre che a differenza
dell’uomo non aveva ancora abbandonato.
Mikoto
arrivò con i caffè, lo guardò e gli
sorrise, con la benevolenza di
chi avesse perdonato qualcosa. Forse lei
lo
sapeva. Forse comprendeva
meglio di chiunque altro la fragilità di quei momenti, dei
sentimenti, degli attimi irripetibili. Per questo gli sorrideva e
già
lo perdonava se avesse vacillato ancora.
*
La stanza era ampia, con le
pareti di un bianco puro che creava un contrasto quasi accecante coi
mobili in arte povera presenti, il cui legno scuro odorava di cera e
vagamente ancora di resina, come se fossero stati appena tagliati e
ricomposti per quell’occasione speciale.
Seduto al centro di un divano
bianco panna, quasi affondando nell’incavo tra un cuscino e
l’altro, con le gambe accavallate, i guanti tolti accanto a
sé e
il blocco per gli appunti appoggiato sulla coscia, in silenzio Sasuke
osservò prima Madara seduto davanti a lui, poi la donna con
eclettici capelli rosa accanto. Sakura, così
l’aveva presentata
quando si erano incontrati prima di accomodarsi nell’ampio
salotto,
al cui ingresso sostavano due uomini, probabilmente la scorta.
La stanza era inondata di luce
che passava attraverso le ampie porte-finestre collocate su di un bel
giardino verdeggiante, che rigurgitava vita nel pieno del risveglio
primaverile. La stanza stessa profumava di fiori oltre che di legno e
di pulito, i cui pavimenti lucidi restituivano i riflessi dorati del
sole attraverso i vetri.
Dopo aver appoggiato il
registratore sul tavolino, Sasuke si slacciò il primo
bottone della
camicia e senza cambiare posizione delle gambe introdusse
l’intervista come di rituale, coi primi riferimenti alla
situazione
politica attuale e le ultime dichiarazioni rilasciate da Madara
stesso.
“Dunque, supponendo che la
monarchia cessasse di esistere, come dovrebbe essere formato il
governo? Bisognerebbe creare una costituzione?”
Partì senza mezze misure. Non
era d’altronde conosciuto per compiacere chi avesse davanti,
ma
nemmeno incastrava con domande scomode che mettevano a disagio. Il
suo compito era informare e investigare, tirando fuori risposte oltre
a riflessioni, non confessioni o lodi; Madara Uchiha lo sapeva, forse
necessitava di quelle domande, o non si sarebbero mai trovati
così a
parlare nel cuore della sua casa.
In
effetti l’uomo fece una sorta di mezzo sorriso, gli occhi
infossati
in qualche ruga brillarono di una luce diversa, ma nel complesso
l’espressione rimase piuttosto neutra e attenta, di chi non
aveva
bisogno di fare la prima mossa e
studiava l’interlocutore per decidere solo in seguito come
agire.
Gli
occhi di
Sasuke tornarono
sulla donna un istante, la scorse emettere un breve sospiro anche se
il suo sguardo dalle iridi verdi non si distoglieva da lui, forse lo
stava studiando a sua volta. Una mano era appoggiata forse
inconsapevolmente sul ventre appena sporgente: doveva essere incinta
di diversi mesi, c’era infatti
un gesto di protezione in quel modo che aveva di racchiudere il
nascituro in un abbraccio. Indossava un vestito leggero ma di
eleganza semplice, con guanti raffinati che arrivavano fino al gomito
e scarpe dal tacco basso dal
gusto
vintage.
Quando
Madara cominciò a parlare, Sasuke lo seguì
appuntandosi parole
chiave, idee per ulteriori domande o approfondimenti; nel farlo, nel
vedere le lettere
confluire sulla carta tramite l’inchiostro, avvolto dal
silenzio
della stanza e dal tepore tardo-primaverile, una parte della mente
del giornalista si trasportò all’alba di quella
mattina, quando
aveva salutato Naruto prima di partire: il sole era forse
più
giallo, filtrato attraverso le nuvole pigre delle prime ore del
giorno e
in parte ostacolato dall’imponenza
delle montagne a ridosso dell’orizzonte, dai
profili degli edifici che in qualche modo sembravano cercare
disperatamente
di ritardare la salita dell’astro al vertice del cielo,
regalando
qualche ora ancora di sonno sotto le coperte, di momenti assieme, di
coccole prima di doversi alzare.
“Stasera
ti trovi con gli altri?” gli aveva domandato, posando
all’ingresso
il borsone con il cambio di vestiti.
“Sì, pensavamo di andare con
la metro fino alla steakouse, l’hanno riaperta
dopo…” aveva
lasciato in sospeso il resto della frase.
“Dopo
l’attentato di sei mesi fa? – proseguì
per lui Sasuke, diretto
come sempre,
senza distogliere lo sguardo da Naruto – ancora oggi penso sia
una
fortuna che l’ordigno fosse esploso prima del turno serale.
Sono
contento riapra, molte attività stanno riprendendo da quando
il FLA
ha allentato la presa, fa sembrare quasi che un’eventuale
impennata
lavorativa sia merito loro, pazzesco.”
Si abbassò per coccolare Cerbero
che era corso scodinzolando, quasi avesse intuito dal tono della
voce, dal modo forse in cui Sasuke aveva di muoversi, che il padrone
stava per partire. Gli accarezzò il pelo un po’
ruvido,
dispensandogli qualche grattino dietro le orecchie, per poi vederlo
correre ancora e portargli una pallina, sull’onda
dell’entusiasmo.
Sorrise. Gli sarebbe mancato, incredibile quanto un animale sapesse
entrare di prepotenza e con affetto strabordante nella vita di chi
decideva di adottarne uno. Riempivano tanti vuoti e lasciavano
voragini quando se ne andavano.
“Oggi pensavo di prendermi un
attimo e portarlo al parco, ti ricordi la cagnolina della settimana
scorsa? Magari la rivede” ipotizzò Naruto, per poi
prendere la
pallina e lanciarla attraverso il breve corridoio che dava verso lo
studio e la stanza da letto. Cerbero partì
all’inseguimento con la
rapidità di un missile e solo allora Sasuke si
alzò, prendendo la
mano di Naruto:
“Andiamoci assieme domani,
quando torno.”
“Ma sarà tardi, immagino sarai
stanco e…”
Scosse la testa: “No. Mi farà
bene.”
Naruto allora intrecciò le
proprie dita con quelle del compagno e annuì:
“Allora facciamo
domani sera – si voltò verso Cerbero che era
tornato con la
pallina – mi spiace Sbarbino, incontrerai la tua fiamma forse
questo weekend, però ti aspetta passeggiata extra-lusso al
chiaro di
luna.”
Lo
accarezzò facendo versi stupidi. Sasuke lasciò
lentamente la presa
e li guardò mentre si ringhiavano giocosi a vicenda: Naruto
era
fatto così, adorabilmente scemo, capace di soprannomi
assurdi da
dare persino al cane, un pilastro di serenità e fonte
costante di
risate; anche e soprattutto quando le cose si facevano difficili e
Sasuke temeva di chiudersi troppo, Naruto
gli ricordava di non farlo, di
tornare da lui.
“Stai
attento a Enkidu” gli disse all’improvviso Uzumaki
tra una carezza e l’altra al cane, continuando a guardare
quest’ultimo. Sembrò una cosa detta quasi per
caso, senza
importanza, ma il suo tono era serio, maturo, come se ci fosse
un’altra persona sotto lo strato giocoso che animava Naruto.
“Starò
attento” confermò Sasuke. Guardò il
soggiorno, i loro mobili, i
libri, le cose a terra da rimettere a posto con una sistemata veloce,
la custodia di un film in blu-ray guardata la sera prima, il pranzo
al sacco che Naruto avrebbe mangiato in giornata ancora da mettere
via, appoggiato sul tavolo assieme alla colazione appena consumata
assieme. Persisteva
l’odore
di caffè, di marmellata, dell’aria fresca
dell’alba entrata
attraverso le finestre lasciate ancora aperte in camera.
Si fotografò nella mente quel
momento, ciò che gli apparteneva e che amava, quasi per
portarselo
con sé in viaggio, anche se sarebbe stato breve ma non
abbastanza in
prospettiva a ciò che gli aspettava, a quanto gli era
costato e a
quanto gli altri richiedevano da lui.
E ora, mentre Madara parlava,
mentre la donna chiamata Sakura seduta composta lo osservava, Sasuke
davanti a sé vedeva casa sua, il suo compagno, il suo cane,
tutto
ciò che avevano creato nel tempo nonostante la paura sepolta
che un
giorno la loro bolla d’amore sarebbe magari scoppiata, o
forse
altro sarebbe stato perso nella metropoli immensa in cui vivevano,
per colpa di Madara, del FLA, delle rivolte, del bisogno
così
disperatamente umano di lottare, di perdere, di sacrificare per
ottenere libertà e diritti.
Mi
mancano.
Lo
scrisse sul blocco degli appunti, accanto a parole come diritti,
parlamento costituzionale, abrogazione, diplomazia estera.
“Lei
non ha conosciuto il proprio soulmate, vero?”
domandò
all’improvviso Madara, dopo che Sasuke ebbe chiuso il blocco
degli
appunti e spento il registratore. Il giornalista sollevò lo
sguardo,
desistendo dalla tentazione di guardarsi le mani nude e coprirsele.
Non rispose subito, aprì infatti
la borsa a tracolla ai piedi del divano e solo
allora
confermò:
“Non l’ho conosciuto.”
“Nemmeno
io – Sakura
lo guardò, sembrò in procinto di dire qualcosa ma
si zittì –
E mi sento libero. Questo negli anni è stato dimenticato, la
gente
prima delle ribellioni era ossessionata dal trovare il soulmate,
abbandonando
tutto il resto.”
Sasuke
finì di mettere via le cose, riflettendo
che un
tempo gli avrebbe dato ragione; forse, per certi versi, Madara aveva
ancora ragione, magari
era Sasuke ad aver smaltito una buona parte della rabbia tenuta in
corpo per quello che era accaduto con suo padre. Ripensò a
Itachi,
alla sua felicità nonostante la loro madre, così
come ripensò a
Naruto, alla frase semplice ma altrettanto essenziale ancora incisa
sul suo braccio.
“Questo
è vero, ma a che prezzo?” domandò
mettendosi la borsa a tracolla.
Non c’era provocazione nella domanda però
fu la seconda
volta che vide un bagliore diverso negli occhi di Sakura, la
prima era stata quando Madara aveva detto di non aver mai conosciuto
il suo soulmate.
Si rimise i guanti e tornò ad allacciarsi il bottone della
camicia.
“Mi assumo la responsabilità
di quel prezzo. Se non io, qualcun altro avrebbe iniziato tutto
questo. La violenza, i traumi, la perdita sono gli unici modi per
risvegliare un popolo dal torpore di una vita lobotomizzata”
asserì
Madara, alzandosi a sua volta in piedi imitato dalla moglie.
Erano splendenti, come se
attraverso le finestre di quella casa immersa nel verde, lontana dal
mondo di orrori che avevano creato, avessero potuto dialogare
direttamente con il Sole.
Se suo padre non se ne fosse
andato, forse Sasuke non avrebbe mai avuto il coraggio di iniziare la
relazione più felice della sua vita. Ma Naruto che traumi,
che
perdite aveva avuto? Cosa l’aveva spinto se non la sua forza
d’animo a smettere di cercare il soulmate?
“Non per tutti vale quello che
ha detto.”
“Davvero?”
accennò un sorriso, gli occhi erano attenti, così
come quelli della
donna.
“Ma
importa poco, immagino. Di fronte alla storia e al suo corso il
popolo è una massa, il singolo cessa
di esistere.
Il singolo conta solo quando prende decisioni per tutti gli
altri.”
Si preparò a prendere congedo.
Fu allora che Sakura,
all’improvviso, ancora accanto a Madara disse: “Tu
sei il
giornalista a cui oltre un anno fa Johnson ha sparato.”
Ci fu una nota divertita nella
sua realizzazione, appena percettibile nel suono serio eppure
armonioso delle sue parole. Madara fece un fischio e
applaudì un
paio di volte:
“Fai parte di quei non
lobotomizzati, immagino” notò, dandogli a sua
volta del tu.
“O forse anche io avevo bisogno
di far perdere qualcosa a qualcuno” risposte
l’altro, scrollando
le spalle come se non contasse.
Madara inspirò più a fondo,
quasi riflessivo, ma non rispose. Salutò Sasuke: non gli
tese la
mano, né ovviamente questi lo fece, anche se notò
subito che Madara
non aveva alcuna macchia sui palmi.
Fu Sakura ad accompagnarlo alla
porta dopo aver dato un cenno di congedo agli uomini vicini al
salotto, con il suo vestito semplice e che le stava così
perfetto,
quasi cucito addosso.
“La ringrazio, è stata
un’intervista interessante. Non siamo abituati devo
dire.”
“Partecipa sempre alle
interviste di suo marito? L’ho vista accanto a lui in ogni
dichiarazione” domandò incuriosito Sasuke.
La donna accennò un sorriso e
annuì: “Per quelle poche mai fatte…
sì. Il FLA è una creatura
di entrambi.”
“Perché allora solo Madara
Uchiha parla di sé come Presidente? Non dovrebbe essere lei
più
partecipe, anziché una spalla decorativa?”
Si morse un labbro, deviando lo
sguardo rabbuiandosi. Sorprendentemente, il sorriso della donna si
addolcì e ribatté, con altrettanta calma
nonostante gli occhi
fossero vividi e trasmettessero la carica del fuoco:
“L’abbiamo
deciso tanti anni fa, quando io non avevo che vent’anni e lui
era
soltanto un operaio qualsiasi. Sapevamo che sarebbe stato un percorso
difficile, per questo Madara mi ha voluto proteggere, prendendosi le
responsabilità di fronte al mondo delle scelte disumane. Ma
non lo
voglio lasciare solo di fronte a quel mondo, capisce?”
Si guardarono un istante, solo
loro, con la porta ancora chiusa in quell’atrio tanto
più piccolo
rispetto alla stanza immensa in cui erano stati a fissarsi.
“Certo che lo capisco. Forse
non lo accetto del tutto, ma lo capisco.”
“Madara è un uomo complesso e
tormentato. Lo siamo tutti in fondo. Ma è un combattente, lo
amo per
questo. Soprattutto… non odia chi ha un soulmate, lotta
anche per
loro.”
Sasuke sollevò un sopracciglio:
“Questa mi è nuova.”
La
vide arricciare appena il naso in una smorfia quasi giocosa di
disappunto, corredata da un indice sollevato in una posa ammonitrice:
“Non sia sempre così tagliente.
Il fatto è che prima di essere soulmate si è
anche persone,
individui, bisognerebbe essere riconosciuti come tali e non solo in
funzione del proprio compagno – sembrò voler
aggiungere altro, ma
sospirò e si portò le mani dietro la schiena
– arrivederci,
Sasuke Uchiha.”
Fu più asciutta nel dire quelle
ultime parole, quasi volendo rientrare in carreggiata e prendere le
distanze.
L’uomo allora la salutò a sua
volta e di riflesso allungò la mano per aprire la porta.
Sakura lo
anticipò, ma di poco, così finirono per bloccarsi
entrambi a
mezz’aria.
Risero, scaricando le tensioni, e
per un attimo la stanzetta vibrò di quelle risate. Senza
rifletterci
la donna tese allora quella stessa mano verso di lui:
“A prescindere da come andrà
il futuro, è stato un piacere conoscerla.”
Sasuke la strinse a sua volta
d’istinto, replicando: “Anche per me.”
I rispettivi palmi si toccarono e
le dita si strinsero... sigillando con la pelle
un’attesa di
oltre trent’anni.
Con un gesto così stupido e
semplice, Sasuke e Sakura scoprirono le loro carte e che quelle carte
erano identiche, un mazzo condiviso e poi riunito, realizzando di
aver trovato ciò che per tutto quel tempo avevano tentato
disperatamente di ignorare, di lasciare indietro, di non conoscere
perché già appartenevano a qualcuno che non erano
loro due.
Loro due. L’uno il soulmate
dell’altra.
Una scarica elettrica che partì
proprio dai rispettivi palmi e percorse il braccio in una risalita
pazza, meravigliosa, affamata, per arrivare fino in testa, una
folgorazione all’encefalo che fece battere loro i denti e
rabbrividire, prima gelo e poi caldo, i peli che si rizzarono e i
capelli che sembrarono sollevarsi, mentre l’epitelio
sensibile
captava ogni singolo atomo dell’altra persona, richiamandosi.
Entrambi si allontanarono di
scatto, ustionati, folgorati, colpiti, trasportati e terrorizzati.
Sasuke sbatté il gomito contro la porta e Sakura si
appiattì contro
il muro, ansimando entrambi. Non riuscirono a smettere di guardarsi,
gli occhi umidi non si chiusero una sola volta.
“No” mormorò Sasuke,
scuotendo appena la testa. Poi si guardò lentamente la mano,
costringendosi a distogliere lo sguardo da Sakura.
Vide il palmo, il proprio palmo
la cui macchia d’inchiostro cominciava lentamente a
dissolversi,
come se un solvente invisibile la stesse portando via. La
toccò, per
chiederle di restare, per non farla andare via e lasciarlo nudo,
esposto e vulnerabile.
Ringhiò,
serrò
i denti, mormorando con le lacrime di rabbia agli occhi:
“Idiota.
Stronzo. Come hai potuto abbassare la guardia, come hai potuto
permetterlo?”
Strinse
allora i pugni, sigillando
le
labbra, chiudendo gli occhi per cercare di contenere il proprio mondo
che si stava disgregando. E di seppellire quell’assurda
sensazione…
di completezza, sì, di completezza e quindi di pace che si
stava
facendo strada in lui, strisciando attraverso le distese
dell’orrore
e della paura, attanagliando ogni fibra di cuore colma
d’amore per
Naruto.
“Mi dispiace” mormorò
Sakura, a sua volta con gli occhi lucidi, stringendo con quella
stessa mano coperta ancora dal guanto il vestito al proprio petto.
Afferrò ansimando la maniglia della porta e la
spalancò, deglutì
infine chiese: “Non roviniamo tutto.”
Sasuke la fissò, incapace di
muoversi. Fu come se la sua testa caotica non riuscisse più
a
comandare il corpo. Voleva fuggire, ma al tempo stesso faticava ad
accettare di perdere ciò che aveva appena ritrovato,
strappando con
dolore qualcosa di sigillato in quella stretta, come se in
quell’ingresso fossero stati versati pelle e sangue.
Ripensò a Naruto, alla sua casa,
alla sua vera casa, e mosse un piede verso la
soglia. Poi un
altro. E un altro ancora. Anche se gli occhi verdi di Sakura alle sue
spalle lo fissavano, perforandogli la schiena per arrivare dritti al
cuore, quasi già lo avessero il pugno, e lui tenesse a sua
volta
quello della donna, stretto nel proprio palmo ancora serrato.
Arrivato sul marciapiede si
costrinse a non voltarsi per vedere Sakura – non la
conosceva, non
sapeva nulla di lei, eppure non sapevi nemmeno nulla di
Naruto ma
ci sei andato addirittura a letto, cosa cambia? – e
provò
quasi sollievo ma anche paradossale struggimento quando udì
la porta
di casa chiudersi.
Affondò
le mani nelle tasche e corse alla macchina, con il fiatone, quasi la
lontananza gli stesse rubando ossigeno. Cercò nella borsa a
tracolla
le chiavi ma faticò a trovarle, così la
svuotò sul marciapiede,
sul quale rotolarono le sue penne, i suoi appunti, il registratore,
la sua piccola stupida vita riversa su di una strada.
Afferrò le
chiavi, rimise alla buona le cose dentro la borsa e con le mani che
tremavano cercò di infilarle
nel quadrante d’accensione, una volta che si sedette al
volante.
L’auto
aziendale
partì, allora
Uchiha
si allacciò le cinture faticando anche in quel caso e si
diresse
verso il motel.
Avrebbe potuto guidare di notte e
rientrare a casa ma scoprì di non avere le forze, poi la
sola idea
che domattina gli sarebbe spettato anche il giro per Enkidu con
quelli del comitato di Madara gli faceva venire il voltastomaco.
Come poteva andare a casa in
quelle condizioni? Naruto avrebbe capito, avrebbe capito tutto. Si
guardò il palmo, fermo al semaforo, e si chiese cosa sarebbe
successo tra di loro. Ripensò a suo padre, quello stronzo
figlio di
puttana di suo padre, e all’improvviso provò
pietà per lui, pietà
e quasi compassione.
Che colpa ne avevi? Come
potevi resistere, come potevi stare lontano dal tuo soulmate dopo
aver provato così tanto, in così poco tempo e
così tanto
facilmente? Dobbiamo lottare talmente tanto nella vita che sembra
incredibile poter sentire tanta felicità senza il minimo
sforzo
eccetto lasciare che la natura faccia il suo corso.
“No!” gridò rauco Sasuke,
tirando un pugno al volante. Il clacson suonò in risposta,
riecheggiando per le vie di Enkidu, perdendosi oltre gli alberi e le
case a schiera della zona residenziale.
“Io ero felice. Ero
perfettamente felice” lo disse e immaginò che
anche Sakura potesse
sentirlo e rispondergli:
“Anch’io ero perfettamente
felice prima di stringerti la mano.”
*
Seduto sul letto del motel,
Sasuke guardò il cellulare. Il laptop era ancora aperto
sulla
scrivania, con le ultime mail e l’articolo
dell’intervista già
mandata al suo ufficio per una prima revisione; poco distante, il
posacenere in plastica restituiva fili leggeri di fumo mentre il nome
sbiadito del motel sul fondo era parzialmente coperto da diversi
mozziconi di sigaretta. Lesse il messaggio di Naruto, al quale non
era ancora riuscito a rispondere.
Come stai amore? Ahahah visto,
la distanza ci rende un po’ più teneri. Hai
insultato anche Madara
o è andata super bene come credo? Tra poco vado alla
steakhouse,
mangio carnazza anche per te, forse perché immagino solo di
averti
accanto. Mi manchi.
Si passò una mano sul volto, poi
tra i capelli.
Anche lui gli mancava, cazzo se
gli mancava. Avrebbe voluto abbracciarlo, sciogliersi da
quell’alterigia da stronzo di cui ogni tanto si rivestiva, e
chiedergli, implorarlo, che potesse dirgli che andava tutto bene, che
il mondo non sarebbe finito per una stupida macchia cancellata.
Ma cosa poteva scrivergli che non
fossero bugie? Come poteva scrivergli che gli mancava e che lo amava,
quando a pochi chilometri da lì, struggendosi,
c’era la sua
soulmate? Doveva dirglielo, doveva confessargli quello che era
successo, ma per telefono era da schifosi. E… poi?
Egoisticamente
aveva paura, paura che tutto sarebbe finito, non era ancora pronto,
anche se una parte di sé gli chiedeva di farlo, di lasciarlo
andare
e accettare che le cose sarebbero comunque andate bene, che la sua
felicità era semplice, a portata di mano. Anche il loro
amore in
fondo era semplice, senza troppe pretese, fatto di una
quotidianità
normale vissuta tra le mura di casa, con le spese di ogni giorno da
affrontare, le bollette, il mutuo, Cerbero da portare a passeggio e
le cene assieme sul divano mentre guardavano un film. Un amore come
tanti, che avrebbe potuto provare chiunque ma non per questo meno
valido: sapeva cosa comportava, poteva riprovarci.
Il palmo bruciava, come se tutto
ciò che era cercasse di ferirlo. Lo massaggiò,
con l’inchiostro
che stava svanendo sempre di più, rivelando lentamente la
nuda pelle
con tracce arrossate, quasi essa non fosse abituata a essere esposta
al mondo.
All’improvviso il telefono
suonò. Per un attimo Sasuke temette – e
desiderò – che fosse
Naruto, poi vide si trattava di un numero che non conosceva, un altro
cellulare.
Rispose.
“Pronto?”
Fu sorpreso di come la sua voce
suonasse seria, responsabile, nonostante il maremoto che lo stava
facendo affogare.
Trattenne il fiato quando udì
una voce di donna, di Sakura: “Sono io, Sasuke.”
“Come hai avuto il mio numero?”
domandò sul chi vive, alzandosi in piedi. Ma si
ritrovò a
sorridere. Di nuovo quel senso di sollievo. Del ritrovare dopo aver
perduto.
La sentì ridere, una risata un
po’ spenta: “Il tuo biglietto da visita quando ti
sei
presentato.”
“Capisco.”
La sua voce si spense. Anche
Sakura non parlò e per qualche secondo udirono solo i
rispettivi
respiri attraverso la linea.
“Io…” accennò la donna.
Sasuke disse la stessa identica parola. Tacquero entrambi.
Fu lei a proseguire dopo un
attimo, con fatica, come se ogni parola gli costasse sangue e dolore:
“Ho riflettuto e… non vorrei
ma…”
“Mi manchi.”
Lo dissero ancora una volta
assieme. Una volta di più, con più sentimento.
“Dove sei?” gli chiese.
Sasuke sentì un singhiozzo sommesso dall’altra
parte del telefono
che gli strinse il cuore.
“Madara cosa ti ha detto?”
domandò di fretta, preoccupato, disperato, quasi Sakura e la
sua
esperienza potessero essere una guida. E una speranza.
“Non
gli ho detto nulla – tacque, la voce le tremò
– Sasuke ancora
non ce la faccio a dirglielo. Ma lui lo sa, lo capirà
per forza,
ci conosciamo e…”
“Sono al motel sulla
principale, vicino all’ingresso alla statale”
rispose l’altro.
La sua voce suonò di nuovo calma, controllata, non seppe
perché,
sapeva solo che doveva vedere Sakura. Parlarle, capire se stava bene
e poi… si morse il labbro, serrando i denti.
“Arrivo a breve.”
Finirono la telefonata e allora
Sasuke si chiuse in bagno. Si fece una doccia, poi con ancora
l’asciugamano avvolto attorno alla vita e i capelli umidi che
gocciolavano, si guardò allo specchio. I contorni erano
appannati
dai residui del vapore, nella stanzetta faceva caldo, gli sembrava di
respirare acqua e odore di bagnoschiuma dozzinale.
Si portò i capelli all’indietro
e appoggiò le mani sul lavandino umido di condensa,
stringendo il
bianco lucido della ceramica.
Lo sguardo che vide era lo stesso
che aveva visto anche Naruto quel giorno in cui lo aveva fatto salire
sul suo taxi? Forse aveva qualche ruga d’espressione in
più,
qualche capello bianco, un chilo che non avrebbe mai smaltito. Una
macchia in meno sulla pelle.
“Mi spiace. Mi spiace Naruto –
tolse con il palmo le ultime tracce di appannamento, sentendo il
freddo del vetro contro la pelle – mi spiace papà,
per averti
giudicato senza sapere.”
Si asciugò i capelli, poi si
rivestì con fare quasi metodico, usando il cambio pulito che
sapeva
del suo detersivo e non del profumo di legno e fiori della casa di
Madara e Sakura. Gli sembrò di indossare una parte di
sé, di ciò
che era.
Quando si avvicinò al letto,
vide il registratore e accanto il blocchetto degli appunti. Lo
sfogliò distrattamente, così che le parole
d’inchiostro gli
scivolarono prive di significato davanti agli occhi.
Mi
manchi.
Le riconobbe in mezzo a mille
altre. Si bloccò, fissando i caratteri scritti di getto
sulla carta,
mentre pensava a Naruto, a Cerbero, alla loro casa, alla loro vita.
Non
tutti abbiamo bisogno di perdere per decidere di lottare.
Richiuse
il blocchetto e lo rimise al suo posto, alzandosi in piedi. In
quell’istante bussarono alla porta e con passi cadenzati,
come se
il suo corpo prima ancora della sua testa sapesse cosa fare, Sasuke
andò
ad aprire; Sakura
sostava
sulla soglia.
Aveva un cappello in testa e si tolse degli occhiali da sole quando
lo vide a sua volta. Gli sorrise, anche se aveva pianto, pertanto
Sasuke non riuscì a non sorridere a sua volta, un moto quasi
schivo,
ma sollevato, perché in fondo le cose con lei davanti gli
sembravano
meno terribili.
“Entra”
la
invitò,
spostandosi dalla soglia.
Ma io non sono come Naruto.
Io… forse ho bisogno proprio di perdere per decidermi a
lottare.
Ciononostante lo farò, fino in fondo.
Richiuse la porta.
*
La steakhouse era affollata ma
non troppo caotica, complici i tavoli ampi e ben distanziati, anche
se nell’aria si diffondeva l’odore di carne
grigliata, di salse e
delle patate lasciate a sfrigolare. Sembrava che tutti desiderassero
celebrare una nuova vita dopo mesi, addirittura anni, di buio,
lasciandosi per qualche ora alle spalle le atrocità del
passato
senza però dimenticarle mai del tutto.
“Ehi, Naruto? Sei con noi o
stai guidando un taxi immaginario verso Enkidu?”
Il taxista si riscosse e
ridacchiò appena, portandosi una mano dietro la testa:
“Scusatemi,
è che sono un po’ in pensiero per Sasuke, gli ho
scritto un
messaggio ore fa ma non mi ha ancora risposto.”
Loro nel frattempo avevano finito
la cena e i piatti dei dolci ordinati erano sul tavolo, già
spazzolati con golosità. In tutto questo, ancora nessuna
traccia di
Sasuke.
“Kiba, lascialo stare, anche io
sarei in pensiero se Shikamaru entrasse in silenzio stampa, specie
dopo aver intervistato non un signor nessuno, ma addirittura Madara
Uchiha” intervenne Temari lanciando un’occhiata
all’uomo che
annuì, consapevole di quanto potente potesse essere la furia
della
sua compagna se ignorata ingiustamente.
Nel mentre che Temari si era
girata a riprendere la figlia intenta a lanciare i residui di panna
col cucchiaino, Nara aggiunse guardando l’amico di una vita:
“Certo che non è da Sasuke,
sicuro non ti abbia magari inviato una mail o cercato con altri
mezzi? Sai, magari la connessione per qualche motivo è
debole.”
“Niente, nada, non pervenuto.
Silenzio radio totale – strinse il tovagliolo, ammettendo
– sono
tentato di prendere la macchina e andare a Enkidu.”
Choji giocherellò con la
guarnizione residua della fetta di torta e poi convenne: “Non
potrei darti torto, lo farei anch’io.”
Shikamaru gli lanciò un’occhiata
ma non se la sentì di entrare in aperto disaccordo, pur
consapevole
che Naruto non era certo nello stato d’animo di guidare:
“Se lo
fai, se vuoi davvero andare a vedere che succede, noi veniamo con
te.”
“Puoi scommetterci, cazzo!”
esclamò Kiba, sbattendo il bicchiere. Gli ultimi residui di
schiuma
si scossero brevemente per poi tornare a depositarsi sul fondo in
infinite bollicine. Temari sussultò, ma si limitò
a sospirare,
dando una leggera carezza alla figlia che si era bloccata a sua volta
guardando Kiba con occhi sgranati d’infante.
Quella sera Naruto ebbe il primo
sorriso spontaneo da quando si erano dati appuntamento, anche se
velato da un cenno di commozione. Se gli amici si vedevano nel
momento del bisogno, lui poteva proprio dire dopo così tanti
anni di
avere direttamente degli angeli custodi.
“Non vorrei farvi fare un
viaggio simile ma voglio essere onesto con me stesso e con voi: non
ce la farei a tornare all’appartamento da solo e attendere
senza
far nulla. Ma è anche vero che non avrei la
lucidità adatta per
guidare così lontano, mi secca ammetterlo, purtroppo non
sono un
supereroe.”
“Sei già super abbastanza”
ammise Shikamaru, con un mezzo sorriso. Fu Temari a suggerire di
potersi occupare di Cerbero prima di tornare a casa con la bambina.
Naruto avrebbe tanto voluto
provare un’autostima proporzionale almeno al complimento
prezioso
ricevuto dall’amico, ma si trovò parecchio in
difficoltà. La sua
mente già correva a una serie di scenari catastrofici, una
buona
parte dei quali includeva il timore di essere nient’altro che
materiale di scarto affettivo.
Allo stesso tempo però sentì
farsi strada dentro di sé una nuova energia, trasmessa forse
da
quella carica vigorosa di partecipazione data dagli amici, forse dal
suo naturale ottimismo. Pur nella solitudine immensa di quella serata
senza il suo compagno, Naruto realizzò di non sentirsi
affatto solo
e di essere bensì amato da tante persone, disposte a un
viaggio
notturno improvvisato pur di stargli accanto, con la speranza che a
Sasuke non fosse successo nulla.
“Grazie ragazzi, siete i
migliori.”
In quel ragazzi incluse
ovviamente anche Temari che annuì, facendogli
l’occhiolino.
Finirono le ultime cucchiaiate
dei dolci e si organizzarono per pagare il conto, tra Naruto che
insisteva per volerci pensare lui e gli altri che si opponevano. Nel
mentre si udì una musichetta leggera che si perse appena tra
le
chiacchiere del locale, il viavai dei camerieri e la musica di
sottofondo del locale, mischiata alle griglie sfrigolanti.
Fu Choji dopo un po’ a
chiedere: “Ma chi è che ha la colonna sonora di
Shoot & Pray
come suoneria del cellulare?”
Tutti guardarono Kiba che,
sorpreso e un po’ offeso, sollevò le mani
obiettando: “Ehi,
trash va bene, ma c’è un limite a tutto!”
Di riflesso gli sguardi si
spostarono su Naruto che aggrottò le sopracciglia,
perplesso, poi
sgranò gli occhi: “Ma sono io! L’ho
cambiata giusto l’altroieri
per le chiamate di Sasuke e…”
Si bloccò. Fu il turno degli
altri a sgranare gli occhi assieme a lui, mentre Temari
esclamò:
“Sasuke! Ti sta chiamando?”
Agitato, con il cuore che prese
stupidamente a battere più forte, la testa inondata di
centinaia e
centinaia di paure, di pensieri, di ipotesi differenti – starà
bene? Gli è successo qualcosa? È bloccato da
qualche parte? Perché
adesso, dove… con chi eri? – e le mani
quasi instupidite da
tutto quel pensare. Frugò sotto il tovagliolo dove
dispettosamente
sembrava aver deciso di nascondersi il cellulare, poi cercò
di
sbloccare lo schermo sbagliando due volte la combinazione,
sbuffò,
ci riprovò infine con successo e, senza nemmeno darsi tempo
di fare
altro, rispose quasi urlando:
“Pronto, Sasuke!”
Sentì un rumore di traffico e di
clacson, al punto che fece fatica a capirlo. Riuscì a
distinguere
delle parole confuse tipo scusami e Naruto.
“Aspetta che esco un attimo,
non ti sento.”
Gli altri lo guardarono uscire
preoccupati. Kiba fece per alzarsi ma Shikamaru fece un cenno
così
che l’amico si bloccò.
Uzumaki nel frattempo sbatté le
porte e si fiondò fuori, quasi incollandosi il volto al
telefono per
cercare di sentire, al punto che le parole di Sasuke fecero uno
strano eco:
“Alza gli occhi.”
Senza riflettere, Naruto obbedì
però in rapida successione aprì la bocca, con le
parole che avrebbe
dovuto dire incastrate sopra la lingua, lì, come su un
trampolino,
terrorizzate dal vuoto prima di saltare.
Vide davanti a sé Sasuke.
Sembrava diverso, gli occhi
avevano un taglio più deciso ancora, i capelli ricordavano
onice,
lucidi, splendidi, sotto la luce dei lampioni e quella ai neon
dell’insegna del ristorante.
“Cosa ci fai qui?” gli uscì
di getto, tutto d’un fiato. Fu tutto quello che gli venne in
mente,
anche se di domande, così come d’idee ne aveva
persin troppe. Ma
quell’interrogativo era l’unico che forse gli
piacesse.
“Devo spiegarti un sacco di
cose. Quello che è successo oggi, io…”
“Stai bene?” fu la seconda
cosa che Naruto gli chiese. Anche se provava una certa rabbia, dal
momento in cui la paura che gli fosse successo qualcosa era
parzialmente annichilita, consapevole che ora che ce lo aveva davanti
potevano risolvere qualunque problema Sasuke avesse avuto.
Colse un moto di disgusto sul
volto di Uchiha, non sapeva rivolto a chi di preciso, ma pareva quasi
a se stesso, infine l’altro rispose: “Non lo so se
sto bene. Ma
so che dovevo vederti e parlarti.”
Il tono di voce era controllato,
il viso calmo, serio e professionale come sempre. Puzzava di fumo,
Naruto lo immaginò divorare sigarette mentre guidava, con il
finestrino abbassato che schiaffeggiava il volto col freddo di quella
tarda serata primaverile. Il taxista infatti conosceva bene il suo
uomo, le sfumature e le ombre sul volto, e poteva recepire quasi a
pelle che Uchiha era agitato, pieno di cose da dire ma al tempo
stesso accorto, un ballerino pronto a saltare su di un lago
ghiacciato. Troppo, decisamente troppo accorto per una serata come
quella, in cui era piombato lì davanti quando il compagno
non lo
aspettava che per il giorno dopo.
“Neanche un messaggio –
sbottò infatti Naruto, scuotendo la testa – che ti
costava? Ero
preoccupato. Io… stavo per venire a Enkidu, ti rendi conto?
Ah,
cazzo!”
Si passò una mano tra i capelli,
per poi trarre un sospiro e ritrovare la calma. Quella volta lesse
chiaramente una profonda mortificazione sul viso di Sasuke e non gli
piacque per niente. Sasuke era fiero, tagliente, orgoglioso, timido e
capace di improvvise parole d’affetto dopo ore di silenzio,
ma...
mortificato? Mai. Dispiaciuto a volte, faticava a scusarsi
esattamente come Naruto, però in nessuna occasione si era
mostrato a
lui con l’aria così carica di senso di colpa,
anche se si trattò
di un moto subitaneo.
“Mi dispiace Naruto. Dovevo
vederti, non ce la facevo a scriverti.”
Con agitazione crescente l’altro
gli si avvicinò ad ampie falcate, afferrandolo per le
spalle:
“Sasuke, mi vuoi dire che è successo?”
Una voce nella sua testa gli
suggeriva che ormai era ovvio. Che chiedere a quel punto era da
perdenti vigliacchi. Ma Naruto non lo lasciò, né
mollò la presa,
attendendo.
“Andiamo a casa, vuoi? Mi
mancavi. È stata una giornata difficile, tutto
qui.”
Sasuke gli portò a sua volta le
mani sulle braccia. Solo allora Naruto notò che non
indossava i
guanti e una mano, quella con il marchio, era fasciata.
“Che… ti sei fatto male?”
Fece per toccargliela, ma Sasuke
la ritrasse: “Mi sono ferito in maniera stupida, tutto qui
–
lanciò un’occhiata alle spalle del suo ragazzo e
aggiunse, vedendo
i suoi amici uscire all’ingresso della steakhouse –
non vorrei
averti fatto perdere la serata con gli altri, anche se gli altri a
quanto pare ti hanno raggiunto comunque.”
Mosse il capo in un cenno rivolto
alle spalle di Naruto che, confuso, con troppe domande e dubbi, si
voltò quasi distrattamente per poi notare oltre la soglia
del
ristorante Kiba e tutti gli altri, con questi che fumava poco
distante e gli sguardi di tutti discreti ma preoccupati.
La figlia di Shikamaru e Temari
aveva sorriso nel vedere Sasuke che le sorrise a sua volta, togliendo
la presa dalle braccia di Naruto per rimettersi le mani nei tasconi
del giubbotto.
“Sei uscito senza giacca, avrai
freddo” gli fece notare infine.
“Il freddo è l’ultima cosa a
cui riesco a pensare in questo momento. Comunque… va bene,
ok,
andiamo a casa, ma parliamo poi, eh? Non so esattamente di cosa, sono
un ammasso di paura, di felicità per rivederti e ansia
stupida in
questo momento, ma non posso far finta che non sia
così.”
“Lo so, lo so, sono anche io un
concentrato di tante cose in questo momento.”
Sasuke si lasciò sfuggire un
sorriso involontario nel vedere Naruto sorridere agli altri e
rassicurarli, gli stessi altri che senza più il timore di
aver
interrotto un momento particolare si avvicinarono chiedendo a
entrambi se stavano bene.
E a quella vista, di fronte a
quel calore e alla consapevolezza che avrebbe potuto perderli tutti
per sempre, Sasuke si sentì rivoltare le viscere. Strinse la
mano
senza più marchio e bruciava, cazzo se bruciava. Ma gli
aveva
mostrato la realtà delle cose: stava a Sasuke renderle tali,
con
tutti i sacrifici del caso; soprattutto, si sentiva disgustato
all’idea di mentire ancora. Avrebbe voluto essere
più spietato,
con se stesso, coi sentimenti di entrambi e ignorare persino quel
senso etico di correttezza tanto insito nella sua persona, solo per
continuare a fingere per ancora un altro po’, cullandosi
nell’illusione temporanea che tra loro due non fosse cambiato
nulla, quando invece erano acrobati inesperti appesi a un filo
sottilissimo, un’esile tela di ragno carica di rugiada.
“Naruto” lo chiamò,
guardandolo negli occhi. Sentì un nodo alla gola
stringerglisi come
se la sua stessa pelle, divenuta troppo stretta, volesse strozzarlo.
“Dimmi” lo esortò l’altro.
Teneva ancora il cellulare in mano e sembrava sull’attenti,
vigile,
ma un pochino più sereno. Fu per questo che Sasuke non
riuscì a
esitare ancora e gli disse d’un fiato:
“Ho trovato il soulmate.”
Il cellulare cadde dalle mani di
Naruto e si schiantò a terra, con il vetro che si
frantumò in
centinaia di frammenti scintillanti, capaci di riflettere come
miriadi di cristalli il neon delle insegne e il buio del cielo senza
stelle sopra tutti loro.
Ma...
Stava per aggiungere Sasuke,
senza riuscire a proseguire. O forse fu Naruto che non
riuscì più
ad ascoltarlo, con le orecchie che gli fischiavano e il cuore che
scalpitava impaziente nel petto, anche se era impossibile che
battesse ancora con così tanta vita e forza: Naruto avrebbe
giurato
di averlo sentito volare a terra e spaccarsi in infinite schegge,
esattamente come il cellulare e le lacrime che avrebbe voluto
versare.
Sproloqui di una
zucca
Questo
è stato un capitolo per me difficilissimo da scrivere! In
parte perché la faccenda del separarsi dal compagno/a con
cui si ha convissuto per tanto è un'esperienza che mi ha
segnata tanto, in parte perché come sempre mi ritrovo a
scrivere di tematiche toste ma in realtà così
quotidiane: l'incertezza di una relazione o dell'esistenza in
sé, l'importanza degli amici, la voglia di lottare, anche se
in modi e con mezzi diversi. Che dire, spero tanto vi sia piaciuto, che
vi abbia lasciato qualcosa, in attesa del quarto e ultimo capitolo.
Spero anche che Sasuke non risulti particolarmente inviso :3
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