I
proiettili dei fucili e dei cannoni volavano nell’aria.
L’odore
della polvere saliva dalla terra e si mescolava al tanfo della
decomposizione.
Luisa
oltrepassò la porta San Pancrazio, le mani sottili strette
attorno al fucile.
Il
suo sguardo ceruleo, ardito, saettò da una parte all’altra.
Prese
il fucile. Lo caricò.
Un
soldato francese, colpito al petto, barcollò sul cavallo, poi
cadde a terra nella polvere.
Un
altro milite si lanciò contro la donna, la sciabola sguainata,
scintillante di bagliori sinistri.
In
un gesto d’istinto, Luisa alzò il fucile. Affondò
la baionetta nel ventre dell’uomo.
Il
sangue sprizzò dalla ferita e macchiò il viso di lei.
La
donna estrasse l’arma e riprese a sparare. L’esercito
invasore francese era ben più numeroso delle forze a difesa
della Repubblica Romana.
E
l’assedio durava da troppo tempo.
Ma
loro, accorsi da tutta Italia, non potevano arrendersi.
Tutto
il paese era teso nella sforzo dell’emancipazione dallo
straniero.
E,
in nome di questo sacro dovere, dovevano continuare a combattere.
Ad
un tratto, una palla colpì la giovane donna al ventre.
Attraversò la carne, dilaniandola.
Luisa
sbarrò gli occhi e un fiotto di sangue sgorgò dalle sue
labbra.
Poi,
il suo corpo cadde.
Con
fatica, la giovane aprì gli occhi e provò a girare la
testa.
Un
gemito di dolore attraversò il suo corpo e, in quel momento,
la sua mente ricordò. Mentre combatteva, era stata colpita da
un proiettile nemico al ventre.
Poi,
aveva perduto i sensi.
– Mia
cara, non affaticatevi. Siete nell’ospedale. Presto, il medico
arriverà. – mormorò una gentile voce maschile.
La
ferita aguzzò lo sguardo e, accanto a lei, vide un giovane
alto e magro, con una folta chioma di capelli castani, dai riflessi
ramati, e gli occhi verdi, dal taglio allungato, simili a smeraldi.
La
divisa da bersagliere, macchiata di sangue e polvere, copriva il suo
corpo.
Un
leggero sorriso sollevò le labbra sottili della donna. Il suo
amato Domenico era ancora vivo.
Ne
era sicuro, non aveva esitato a combattere con ardimento il nemico
della Repubblica.
Del
resto, era un ardente sostenitore delle idee di Giuseppe Mazzini.
E
lei, Luisa Fiore, figlia di un commerciante di tessuti di Perugia, si
era innamorata della gentile fermezza dell’erede dei conti
Faina.
Per
questo, non aveva esitato a seguirlo nelle sue tribolazioni.
Gli
occhi cerulei della giovane brillarono di nostalgia. L’opposizione
intransigente delle loro famiglie aveva rafforzato il loro
sentimento.
Per
lui, lei aveva rinunciato ad una vita quieta, cullata dalle ricchezze
della sua famiglia.
Lo
aveva assistito nella sua carcerazione, causata dalle sue idee, e lo
aveva seguito nelle sue battaglie.
Il
suo cuore si era appassionato alle sue idee.
– Do…
Domenico… Mi date… la vostra mano… –
mormorò, il tono serio.
Il
soldato, turbato, la fissò, poi prese la mano destra di lei
tra le sue. Quella voce, di solito vibrante d’amore, in quel
momento, risuonava di malinconia.
No,
non poteva crederci.
Non
riusciva a pronunciare quella parola.
–
Ditemi…
Ditemi, mio amore… – mormorò lui, il tono
apparentemente calmo.
– Il
mio… Il mio percorso finisce qui… Voi non volete
dirmelo, ma la mia vita sta terminando… Ma non mi preoccupa…
Io… Io sono felice di avere lottato assieme a voi per
costruire il sogno dell’Italia unita… – cominciò
lei, gli occhi celesti fissi in quelli verdi del marito.
Con
un cenno del capo, Domenico annuì. Sì, quei mesi, per
quanto duri, erano stati felici, perché avevano combattuto
insieme, in nome del loro comune ideale.
Luisa,
per lui, aveva intrapreso un cammino duro, insolito per una donna.
–
Promettetemi
che… che la giustizia e la libertà… saranno
l’ideale della vostra vita… Morte agli invasori! –
concluse lei, il tono flebile, ma deciso.
La
mano destra di lei si strinse attorno a quella di Domenico.
– Sì,
amore mio. Morte agli invasori e viva l’Italia! –
concordò lui, un sorriso sulle labbra sottili e gli occhi
lucidi di lacrime.
Le
labbra di Luisa si sollevarono in un debole sorriso, poi il suo corpo
si abbandonò nella morte.
Domenico,
per alcuni istanti, fissò il corpo della moglie, abbandonato
sul lettino.
Era
morta.
La
sua meravigliosa moglie era caduta in battaglia da valorosa.
Lacrime
sgorgarono dai suoi occhi, poi chinò la testa e le sue labbra
si posarono sul viso di lei in baci lievi. Non voleva lasciarla
andare.
Aveva
sognato di costruire una famiglia con lei, ma tale desiderio, con la
sua morte, si era tramutato in una vana fantasia.
Lei
era la fiaccola della sua vita.
Ma
erano stati legati da un sogno di libertà e giustizia per il
popolo italiano.
Si
alzò in piedi e, per alcuni istanti, fissò il corpo
della giovane donna.
Un
giovane tarchiato, vestito d’una tonaca nera, con corti capelli
neri e occhi castani, si avvicinò a Domenico.
Al
collo, ondeggiava una croce lignea e il lato destro del suo viso era
sfigurato da una cicatrice.
Lanciò
un breve sguardo ora al soldato, ora alla defunta, e segnò
l’aria con una croce.
– Vi
ringrazio, don Enrico. – affermò Domenico, atono.
– Ah,
smettila con queste formalità. Se permetti, voglio officiare
io il rito funebre per lei. Ha mostrato un coraggio virile ed è
morta come un’autentica eroina. Merita tutto il nostro
rispetto. – affermò il prete.
Di
scatto, sollevò la mano nel saluto militare.
–
Grazie.
Lei sarebbe stata felice, perché ammirava il tuo impegno per i
poveri. – rispose il giovane nobile.
– Faccio
solo il mio dovere. Andiamo. – si schernì Enrico.
E,
insieme, uscirono dall’infermeria.
P.S.:
la storia dell’eroica Colomba Antonietti mi ha dato
l’ispirazione per questo breve lavoro.
Spero
di non avere scritto troppe castronerie storiche.
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