monstrum

di Chinasky76
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MONSTRUM

 

Mi laureai in medicina, presso l’università di Bologna nell’autunno del 1926, che da poco avevo compiuto 24 anni.

Fu la prima volta che vidi un barlume di orgoglio negli occhi di mio padre.

Ero il rampollo della famiglia Polidori, medici da generazioni, e come tale, mio malgrado non avevo potuto sottrarmi al destino che era già stato pianificato per me dall’istante del mio concepimento.

Sfruttando il rapporto d’amicizia che lo legava all’industriale americano Frank J. Morgan, mio padre mi mandò per sei mesi negli Stati Uniti, ospite presso l’amico, ad approfondire i miei studi nel prestigioso ateneo della città nella quale Morgan risedeva.

La Miskatonik University, ad Arkam.

In quest’ora buia, immerso nell’oscurità della mia stanza, ricordo ancora la gioia incontenibile che provai, una volta appresa la notizia.

Mi imbarcai da Genova sul piroscafo Germania.

Viaggiai solo, la comodità e la bellezza della cabina di prima classe furono un palliativo di non poco conto alla monotonia dei tredici giorni dell’attraversata.

Trascorsi il tempo dedicandomi alla lettura, concedendomi, di quando in quando, brevi passeggiate sui ponti della nave, non disdegnando sporadiche chiacchierate con gli altri passeggeri.

Fu all’incirca a metà dell’attraversata, che conobbi Eugene Pinketts, professore ordinario alla Miskatonic, titolare della cattedra di Antropologia.

Era di ritorno da un viaggio in Egitto, aveva fatto tappa in Italia, a Roma, e dopo un soggiorno di una settimana si era imbarcato da Genova alla volta del nuovo continente.

Fu sorpreso nell’apprendere la mia destinazione e il motivo che mi aveva spinto così lontano da casa.

Approfittando di quella coincidenza, tempestai il mio nuovo amico di domande circa l’università, ricevendo risposte che aumentarono a dismisura le aspettative (per altro già alte) che avevo nei confronti dell’ateneo.

Prendemmo a frequentarci tutti giorni, imparai a conoscere e ammirare quell’ometto, a prima vista del tutto insignificante, che si dimostrava di volta in volta una miniera di conoscenza.

Attraccammo a Boston il 15 di settembre.

Il cielo era plumbeo, e nubi grigie come il ferro minacciavano di scatenare un inferno d’acqua da un istante all’altro.

Sbrigate le pratiche presso l’ufficio dell’immigrazione, abbandonai la struttura portuale.

Non faticai molto a individuare l’autista inviato da Morgan.

Era l’unico, e alle sue spalle, lucida come una palla da biliardo spiccava una mastodontica Bentley, che davvero poche persone avrebbero potuto permettersi.

Caricati i bagagli, mi apprestai a montare in auto, e fu in quell’istante che mi sentii chiamare a gran voce.

Era Pinketts, che affacciato al finestrino di una carrozza mi salutava agitando la mano, e rimandando il nostro prossimo incontro allorquando avessi varcato la soglia della Miskatonic.

Sorridendo alzai una mano, ricambiando il saluto.

Dopo due settimane in mare, era tempo di affrontare le poche miglia che mi dividevano dalla mia destinazione finale.

Arkam.

Abbandonammo l’abitato di Boston, lasciandocelo alle spalle, affogato nella polvere sollevata dall’auto.

Coccolato dai sobbalzi della vettura, e ipnotizzato dal paesaggio, monotono e verde, non impiegai poi molto ad addormentarmi.

Mi destai nel mentre l’autista stava risalendo un viale alberato.

Di fronte, a poco più di una cinquantina di metri sorgeva l’abitazione del mio ospite, un’imponente villa coloniale su due piani.

Sulla soglia, quello che intuii essere il padrone di casa mi stava attendendo.

Schierati al suo fianco, la moglie e i due figli, un maschio e una femmina, che stando a quanto raccontato da mio padre dovevano avere all’incirca la mia età.

Dietro di loro, una nutrita schiera di domestici.

Smontai dall’auto, e pervaso da un puerile senso di vergogna mi avviai verso l’ingresso.

Il signor Morgan mi porse la mano, presentandosi, mantenendo quell’aria austera che contribuì non poco ad aumentare il mio senso di disagio.

Mi presentò alla moglie e ai figli.

Morgan in persona, con un paio di domestici al seguito mi guidò in una visita dettagliata dell’abitazione, prima di condurmi nella mia stanza, dove già mi attendevano i bagagli.

Si congedò, comunicando che la cena sarebbe stata servita alle venti, e suggerendomi di trascorrere il pomeriggio riposando.

Una volta rimasto solo mi diedi all’esplorazione della camera, le cui dimensioni non erano di certo esigue.

Frastornato dalla stanchezza e dalla differenza d’orario mi soffermai quasi inebetito a osservare il parco della villa, dalla finestra.

Era enorme, e curato in maniera ineccepibile; quindi, mi lasciai cadere nel letto, sprofondando in un sonno ristoratore.

Quando mi svegliai il sole era già tramontato.

Mi alzai di lena, cercando l’interruttore della luce, temendo di aver dormito troppo e, di conseguenza, aver disertato la cena, incappando in una figuraccia che certo mi sarei risparmiato.

Il mio orologio segnava le diciannove e venti.

Sollevato mi diressi in bagno, dovevo quantomeno rinfrescarmi e rendermi presentabile.

Scesi al piano di sotto, con un minimo di anticipo sull’orario comunicatomi, come imponeva l’etichetta.

Trovai il mio ospite intento in uno scambio di battute con il figlio, davanti all’imponente focolare che dominava la sala da pranzo.

Quando si accorsero di me s’interruppero.

Fu Morgan a salutarmi, venendomi incontro, attraversando il locale con passo deciso.

Mi offrì del brandy, per ingannare il tempo nell’attesa che la consorte e la figlia ci raggiungessero.

Accettai, in un istante venni sommerso da una serie di domande che i due mi indirizzavano, animati tuttavia da un interesse che sembrava forzato.

Non che fossero inospitali, o, che Dio me ne scampi, sembrassero in qualche modo maleducati, tuttavia le loro espressioni e le loro parole parevano intrisi di un qualcosa che mi sfuggiva, ma che tuttavia incombeva su di me come un alone maligno.

Diedi la colpa alla stanchezza, e una volta che le due donne fecero il loro ingresso nella sala, ci sedemmo a tavola.

Fu una cena piacevole, ottima cucina accompagnata da un vino altrettanto buono.

Morgan mi parlò dell’università, elogiandone lo spessore e il corpo docenti.

I figli e la moglie del mio ospite risultarono essere piuttosto taciturni, nonostante in più di un’occasione sorpresi la figlia indirizzarmi occhiate furtive.

Mi ritirai in camera, terminata la cena, scusandomi per la stanchezza.

Avevo bisogno di dormire.

 

Sbarrai gli occhi nell’oscurità, mettendomi a sedere nel letto con un impeto sconosciuto.

Sudavo parecchio, e il cuore martellava nel petto come un maglio.

Impiegai alcuni istanti a ricordare dove mi trovassi e perché.

La bocca era spalancata, congelata in un urlo muto che ora speravo di non aver emesso.

Mi imposi di calmarmi, e nel contempo rimasi in ascolto, sperando davvero di non aver urlato nel sonno, disturbando il riposo degli altri abitanti della casa.

Tutto taceva, invischiato in quell’immobile silenzio polveroso.

Mi alzai, raggiungendo lo scrittoio dal lato opposto della stanza.

Versai un generoso bicchiere d’acqua, e lo scolai d’un fiato.

Avevo la gola che sembrava andare a fuoco.

Mai, in tutta la mia vita, avevo fatto un incubo così reale e così spaventoso.

“R’lyeh” mi ritrovai a sussurrare, ignorando del tutto cosa quell’accozzaglia di lettere senza senso dovesse rappresentare.

Poi, in un istante, una valanga di ricordi mi assalì, inaspettata.

Immagini sfuocate di una città dai confini ondeggianti e vacui.

“Sommersa” Sussurrai, comprendendo solo allora il perché le immagini mi tornassero alla memoria così distorte.

La mia mente ripercorse le strade ciclopiche calcate nel sogno, ricoperte da alghe ed erose dai secoli, dimenticate nel fondo degli abissi marini.

Rividi i resti di una città mostruosa e titanica, i cui edifici erano vestigia passate di una civiltà dispersa nelle pieghe del tempo, congelata, non morta, arricchita da costruzioni in rovina, scrigno di segreti ancestrali narrati per mezzo di geroglifici sconosciuti e minacciosi che spiccavano ovunque.

Al termine della via maestra si apriva uno piazza, grande come una qualsiasi delle città dell’uomo, al centro, racchiuso all’interno di due cerchia di mura massicce, si ergeva un tempietto, tanto piccolo quanto tetro, sormontato dalla statua in pietra di un essere come mai avevo visto.

Poi, mi ero svegliato.

Tornai al letto, la notte non era ancora al suo apice, e io dovevo riposare, l’indomani avrei fatto il mio ingresso alla Miskatonik, l’ultima cosa che volevo, era giungervi debilitato dalla stanchezza.

Non impiegai poi molto ad addormentarmi, anche se percepivo una strana sensazione, qualcosa di sinistro che aleggiava, incombendo su di me.

La certezza, seppur immotivata, che qualcuno mi stesse osservando.

 

Feci colazione in compagnia di Edwin, il figlio di Morgan.

Come ebbe a dirmi, suo padre era uscito molto presto per dei non meglio precisati affari che richiedevano la sua presenza.

Ebbi modo di conoscerlo un po’ meglio, e nonostante si mostrasse disponibile e accondiscendente, non nego che quella sensazione negativa già sperimentata la sera precedente mi riassalì.

Uscimmo, e assieme montammo a bordo della Bentley.

Poco più tardi, la vettura si fermò dinanzi al cancello d’ingresso della Miskatonik University.

Smontammo, e senza dire una parola ci avviammo lungo il viale.

Rimasi stupito nel vedere l’edificio che ospitava l’ateneo.

Una costruzione a tre piani in stile gotico, in grado di mettere soggezione, talmente risultava pervasa da un alone di severa austerità.

Capannelli di studenti sostavano ordinati nel giardino antistante l’ingresso.

Varcammo la soglia.

Edwin mi salutò, frettolosamente, prima di avviarsi lungo un corridoio.

Io rimasi solo.

Non so cosa avrei fatto, se d’improvviso, il mio nome pronunciato a gran voce, ed amplificato dalla leggera eco dell’androne non avesse richiamato la mia attenzione.

Ed eccolo, Pinketts, che di buona lena mi veniva incontro agitando la mano.

Ci salutammo, e dopo i convenevoli si offrì di condurmi attraverso i meandri dell’ateneo fino all’aula in cui il professor Pebodi, titolare della cattedra di Medicina, stava per iniziare la prima, di una serie di lezioni, che da li a sei mesi avrebbero completato il mio percorso di studi.

La giornata trascorse tranquilla, e scoprii, con piacere, che la mia padronanza della lingua mi permetteva di seguire le lezioni senza troppi problemi.

 

Rientra alla residenza dei Morgan verso le 17.00.

Tornai a piedi, una passeggiata di un paio di chilometri, giusto per prendere confidenza con la cittadina che mi stava ospitando.

Ne attraversai il centro, studiandolo con interesse, quindi, presi la strada che dopo aver attraversato il ponte sul fiume Miskatonik si inerpicava sul fianco di una collinetta, per terminare, proprio sul limitare del bosco, dinnanzi al cancello della villa del mio ospite.

Cenammo alle venti.

Più tardi, quando la signora Morgan e Hazel, la figlia, si furono ritirate, io, Edwin e il mio ospite, ci accomodammo in biblioteca.

Dinnanzi al fuoco, che scoppiettando nel camino allietava la serata, ci gettammo in un’interessante discussione riguardo la storia della Miskatonik, godendo della corposità vellutata di un Bourbon che Morgan aveva versato da una bottiglia in cristallo che da sola poteva valere un patrimonio.

Non so quando la discussione si incanalò su quel binario, so solamente che mi ritrovai ad ascoltar storie, riguardo certi tomi custoditi nella libreria dell’ateneo, tomi, il cui solo nome metteva i brividi, e che era meglio, nemmeno nominare.

Morgan ne parlava quasi con ammirazione, snocciolando una serie di titoli, la maggior parte dei quali sapevo annoverati nell’Index Librorum Prohibitorum.

La sua filippica, convertì quasi esclusivamente su uno, il cui nome nefasto era conosciuto ovunque, nonostante in pochi (in verità nessuno tra quelli che me ne avevano parlato) ne avesse anche solo vista una copia.

Il Necronomicon, redatto nel 730 a.C. a Damasco, dall’arabo pazzo Abdul Al Azred.

Più ascoltavo Morgan parlarne, più, superato l’iniziale timore reverenziale, mi affiorava sulle labbra un sorrisetto sornione.

Da uomo di scienza, consideravo la stregoneria e la demonologia, al pari di sciocche superstizioni per faciloni campagnoli, e mi stupiva l’attenzione e il riguardo con cui il mio ospite ne parlava, citandone talune volte dei passi a memoria.

Edwin dovette intuire la natura dei miei pensieri, perché di sorpresa, interruppe il discorso rivolgendosi a me, fissandomi con uno sguardo che mi trapassò.

“Non credete a certe cose,  Battista?”

“Voi sì?” risposi, lasciandomi scappare una risata.

Non ottenni risposta.

“Intendo, sono solo sciocche superstizioni” riattaccai, cercando di assumere un’aria più contenuta “Solo ciarlatani e ingenui potrebbero credere ad argomenti del genere, non trovate?”

“Naturalmente” rispose Morgan dopo alcuni attimi di incertezza.

“Ciarlatani e ingenui” gli fece eco Edwin, senza distogliermi quello sguardo feroce da dosso, e lasciando affiorare sulla bocca un ghigno, che assomigliava a fauci congelate nello spasmo antecedente l’attacco.

Trasalii, e i miei due compagni dovettero accorgersene, perché Morgan ruppe la tensione battendosi con vigore una mano sul ginocchio.

“Abbiamo fatto molto tardi, e il nostro Battista sarà sfinito. Un’intera giornata di studi e il cambio di fuso non ancora smaltito, sono cose dure da sopportare”

“Credo anch’io” sottolineò Edwin, scandendo le parole, distogliendo finalmente lo sguardo e gettandolo al fuoco, che andava lentamente a morire.

“Sarà meglio ritirarci” sancì il mio ospite alzandosi.

Feci altrettanto, ed dopo essermi accomiatato mi avviai verso la mia stanza, sollevato di non dovermi trovare ulteriormente nello stesso locale con Edwin.

 

Una volta a letto, mi sorpresi che i miei pensieri vertessero su Hazel.

La ragazza era apparsa taciturna e schiva, nel corso dei nostri primi due incontri.

Addussi il fatto alla rigida educazione, votata senza dubbio alla discrezione, inculcata dal padre.

Mi ripromisi di provare a parlarle, alla prima occasione in cui Morgan o il fratello non si fossero trovati nelle immediate vicinanze.

D’altro canto il tempo era dalla mia parte.

 

Mi sembrava di galleggiare, invischiato nelle trame dense di qualcosa di impalpabile.

Il terrore mi braccava come un segugio.

Potevo sentire il cuore battere violentemente.

Compresi di essere sott’acqua.

Ero in balia di sensazioni nuove, tremende e destabilizzanti.

Mi muovevo di concerto con le correnti, ma contro qualsiasi logica di buonsenso, respiravo!

L’acqua entrava in bocca, nel naso, e poi giù fino ai polmoni, in un continuo flusso liquido, del quale percepivo il sapore salino e i miasmi propri degli abissi.

Ma respiravo!

Non so per quanto rimasi in balia delle correnti marine, il tempo era un lusso che non potevo permettermi.

So solo che alla fine di quel mio peregrinare, si materializzò davanti ai miei occhi, emergendo dalla cupe profondità oceaniche, una città, immensa, osservandola da quel mio punto d’osservazione.

Vedevo la megalopoli che appariva morta da tempo estendersi a perdita d’occhio, sotto di me, che come un uccello ne solcavo i cieli fatti d’acqua.

Costruzioni enormi, che non rispettavano nessun canone della geometria euclidea, ma che anzi, al contrario, apparivano come un guazzabuglio di forme improbabili, per non dire impossibili.

Poi, iniziai la mia discesa in quel cimitero architettonico.

Dapprima fu come una lenta discesa, una planata dolce verso un abisso sconosciuto e minaccioso, poi, la velocità della stessa prese ad aumentare, sempre più, fino a divenire una caduta frenetica, come se una forza misteriosa mi stesse trascinando verso una fine che appariva certa.

Senza rendermene conto mi ritrovai in ginocchio nel mezzo di un viale, interamente ricoperto da uno strato di sedimenti marini che lo rendevano viscido e molliccio.

Il fetore di putridume era aumentato, al punto che anche respirare rappresentava una tortura alla quale mio malgrado non potevo sottrarmi.

Spaesato osservai la serrata di edifici che sorgeva ai lati della via.

Un esercito di sentinelle minacciose a guardia di chissà quale tesoro, o mostruosità che risedeva in quella città dimenticata.

Notai che le superfici degli stessi, erano ricoperti da uno stuolo di simboli strani, caratteri, supposi, che dovevano appartenere ad una lingua antica, a metà strada tra la scrittura cuneiforme e i geroglifici egiziani.

Spinto dalla curiosità, mi incamminai lungo quella via deserta, con la costante sensazione di essere osservato da occhi che non vedevo ma percepivo benissimo.

La solitudine e il silenzio immobile di quel posto orrendo, mi fecero riconsiderare il valore del vociare assordante che tante volte in città avevo giudicato deprecabile e fastidioso.

La strada, terminava in una piazza, la medesima sognata la notte precedente, al cui interno, sorgeva quella doppia cinta di mura ciclopiche e concentriche, il cui ricordo era ancora ben impresso nella mia memoria.

Il senso di disagio che serpeggiava nelle profondità del mio essere, ora, di fronte a quell’abominio titanico, esplose in tutta la sua potenza.

Mi incamminai, sospinto da una forza misteriosa, e con ogni probabilità autodistruttiva, verso il cuore di quella costruzione, deciso, lo sapevo, a raggiungerne il centro; il tempio che ivi sorgeva.

Mi accompagnava un brusio basso, al quale sino a quel momento non avevo dato peso, ma che ora, aumentava di intensità ad ogni passo compiuto.

Sembrava una litania, in una lingua antica, dimenticata.

Una sorta di invocazione, ripetitiva e cadenzata, che si articolava in un susseguirsi di suoni gutturali e schiocchi.

Quando superai le due cerchia di mura, attraversandone i cancelli aperti, giungendo finalmente a cospetto della mia destinazione, il brusio era divenuto una cacofonia di suoni infernali, un boato in grado di rimbombare nella mia testa, facendomi vacillare sul baratro della follia.

Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn

Queste erano le parole che percepivo chiare da quel ribollire incensante di suoni.

Parole che non conoscevo, e che tuttavia mi terrorizzavano.

Caddi in ginocchio, di fronte a quell’empietà che, ne ero certo, custodiva al suo interno un abominio inimmaginabile, che in qualche modo imperscrutabile, aveva deciso di rivolgere su di me la sua attenzione.

Urlai, portandomi le mani alle orecchie, cercando di contrastare il frastuono che riecheggiava nella mia testa.

Poi, mi svegliai.

Mi misi a sedere nel letto cercando di domare il respiro, mentre gli occhi frenetici scandagliavano lo spazio della camera, immerso nel buio e nell’immobilità.

I ricordi dell’incubo mi tormentavano ancora.

Il mio cervello seguitava a percepire quell’odore mefitico, e il torace sembrava oppresso, come se ancora mi trovassi nelle profondità oceaniche, costretto da milioni di metri cubi d’acqua che con il loro gravare mi rendevano ardua la respirazione.

“Si è trattato solo di un incubo” 

Sussurrò una voce delicata.

Balzai nel letto, portando lo sguardo alla poltrona sistemata in un angolo della camera, oltre il letto, laddove il buio diveniva oscurità.

Lo scintillio d’un momento, un bagliore lunare che si rifletteva sulla superficie acquosa di un bulbo oculare, una sagoma che si metteva in piedi, staccandosi dall’oscurità, una cellula che si replicava per mitosi dal nero che la componeva.

“Hazel” sussurrai, riconoscendone all’istante i tratti baciati dal riverbero di Selene, una volta che ebbe abbandonato la sua seduta tenebrosa.

“Vi ho sentito lamentarvi nel sonno… la mia camera è attigua alla vostra”

Frastornato mi sorpresi a squadrarla, soffermandomi sulla delicatezza dei tratti del viso e dalla grazia del suo corpo, che potevo intravedere in trasparenza, attraverso la camicia da notte.

“Vi sentite bene?” Mi incalzò, strappandomi da quella malia che lei stessa aveva contribuito lanciarmi.

“S-sì”

“Ne sono lieta” sussurrò, avviandosi verso la porta, sparendo oltre la soglia senza aggiungere altro.

Rimasi solo, in balia di un infimo senso di terrore e di pensieri poco consoni, al cui centro, vorticando in un marasma di immagini sfuocate, gli occhi di Hazel mi fissavano senza sosta.

 

I giorni seguenti trascorsero normalmente.

Gli incubi non si ripeterono, fino a che il loro ricordo divenne poco più che un disegno sbiadito sulla tela della mia mente.

Edwin seguitava a comportarsi nel suo solito modo, educato sì, ma chiaramente sfuggente e elusivo.

Con Hazel le cose iniziarono a cambiare.

Quasi avesse intuito la natura dei miei sentimenti nei suoi confronti, la ragazza aveva preso a frequentarmi con maggior frequenza.

Dal canto mio, non facevo nulla per nascondere l’interesse che provavo nei suoi confronti.

Lei, non sembrava affatto infastidita.

Non parlammo mai della sua sortita nella mia stanza.

Mi sembrava terribilmente imbarazzante.

 

Fu all’incirca nel corso del terzo mese, che ricominciarono gli incubi.

Avevo dimenticato quanto potessero risultare vividi e reali.

Ogni notte, mi ritrovavo immerso in quella realtà alternativa e orripilante.

Il sogno era sempre il medesimo, nel mezzo di quella maledetta città sommersa, attirato come una falena dal tempio e da ciò che sotto di esso, dalla sua tomba, mi chiamava.

Nel tempo della mia permanenza a Arkam, ebbi modo di imbastire un rapporto di genuina amicizia con il Professor Pinketts, fu quindi naturale, dal mio punto di vista, data la sua specializzazione in antropologia, riferirgli ciò che mi stava accadendo, sperando potesse fornirmi una spiegazione.

Mi sorpresi nel notare quanto la sua espressione, solitamente gioviale e propensa all’allegria, mutasse in maniera repentina, mano a mano che gli narravo ciò che ormai ogni notte vivevo in sogno.

“Amico mio” mi disse in fine “O vi state burlando di me, oppure…”

“Oppure?”

“Ditemi, e vi prego di prendere molto seriamente la mia domanda; vi interessate per caso di esoterismo?”

“Bontà divina! Professore, non credo affatto a certe cialtronerie!”

Lui scosse la testa.

“Forse dalle vostre parti certi argomenti saranno presi allo strenuo di mero folclore, ma da queste parti non è così.”

“Spiegatevi meglio”

“In queste terre il paganesimo ha radici profonde e ben radicate. Quello che mi avete appena descritto, è narrato in un tomo molto antico, e si rifà ai miti degli Altri Dei e delle creature antiche che, si dice, calcassero la terra molto prima della comparsa dell’uomo”

“Non riesco a trovare un nesso”

“Se prendessimo per veri certi argomenti, vi direi che qualcosa di ancestrale, e terribilmente malvagio, ha posato il suo sguardo su di voi”

Rimasi basito, e impossibilitato di capacitarmi di come un uomo di scienza quale era Pinketts, mi stesse sciorinando teorie tanto assurde.

“Non riesco a capire…”

“Per questo vi ho chiesto se vi foste mai interessato di pratiche esoteriche”

“Mai, in tutta la mia vita!”

“Allora qualcuno lo ha fatto al posto vostro”

“Come? Perché?”

“Questa è una domanda alla quale non posso dare una risposta. L’unica cosa che posso dirvi, è che se davvero le cose stanno come suppongo, la situazione non promette nulla di buono.”

“Ascoltatemi” riprese, dopo un attimo di silenzio “Esistono certe cose… certe cose che esulano da quello che tutti noi riteniamo normale. Cose che non riusciamo a vedere, grazie a Dio, e che a stento riusciamo in certe situazioni solo a percepire. Pensiamo di vivere in un mondo che riteniamo a torto perfetto, ma ignoriamo cosa si celi dietro al sottile velo che ci separa dalla vera realtà del tutto. Il nostro mondo non è altro che una piccola imbarcazione in balia di tempeste inimmaginabili, e cose che vivono da sempre in questo mare pericoloso che ci troviamo a solcare. State attento amico mio, e riferitemi tutto ciò che vi accade, nel mondo reale e in quello onirico”

Allungò una mano, posandola sulla mia. Fu in quell’istante che nel suo sguardo scorsi un barlume di reale preoccupazione.

Rientrai che stava facendo sera.

Non avevo seguito un granché delle lezioni giornaliere, scosso dall’assurdo monito lanciatomi dal mio amico.

Cenai con i Morgan, come da consuetudine, rimanendo ai margini dei discorsi intavolati.

Mi ritirai subito dopo. 

Ero stanco, confuso.

Mi addormentai quasi subito.

 

Rumori, versi, strani e incomprensibili, mi giungevano alle orecchie attraversando gli spazi onirici, infiniti e bui nei quali ero immerso.

Un sonno agitato e privo di incubi, che tuttavia mi tormentava.

Mugugnando aprii gli occhi.

La stanza era un cubicolo di oscurità.

Tutto era immobile, ma non ero solo, quella litania di versi animaleschi me lo confermava.

Era lo stesso susseguirsi di schiocchi e gorgoglii che avevo udito in sogno innumerevoli volte.

Lentamente mi misi a sedere, sfidando con lo sguardo non ancora a fuoco il buio che dominava la stanza.

In risposta, la sequela di suoni divenne più veloce, quasi che chi, o cosa la stesse emettendo si fosse accorto che ero desto.

Aveva iniziato a muoversi, strisciando sul pavimento, lo udivo perfettamente.

Congelato dal terrore voltai il capo nella direzione da cui il rumore sembrava provenire.

Fu allora che lo vidi.

Era un essere indescrivibile.

Un’agglomerato di materia molle che si muoveva su un nugolo di tentacoli.

Teneva la bocca spalancata, dalla quale fuoriusciva la lingua, scura e molliccia, che guizzando emetteva quella serie di schiocchi che udivo alla perfezione.

Aveva un unico occhio, una palla lattiginosa e bianca, priva di palpebra, fissa su di me.

Fu nell’attimo in cui una delle propaggini mollicce di quella cosa si posò sulla superficie del letto, che sfuggii alla presa della malia in grado di tenermi inchiodato, e urlando balzai fuori dal giaciglio.

La cosa prese ad emettere ancor più freneticamente il suo verso terrificante.

Senza prestarle attenzione, afferrai la maniglia della porta e abbandonai la stanza.

Mi fermai sul limitare delle scale, fissando lo sguardo al corridoio, cercando di convincermi che quello a cui avevo appena assistito fosse solo un incubo, più vivido dei precedenti; ma quando vidi quell’abominio uscire dalla stanza, incedendo con un’andatura dinoccolata e incerta, compresi che l’incredibile era divenuto realtà.

Mi catapultai per le scale, urlando a squarciagola. 

Talmente intento a controllare alle mie spalle, nemmeno mi accorsi di franare letteralmente addosso a Morgan, che sostava ai piedi delle stesse.

“Un mostro!” ululai.

Lui prese le mie mani tra le sue.

“Calmatevi”

“Dobbiamo scappare! Andarcene!”

“Cosa mai vi turba a questa maniera?”

“Hazel” sussurrai incurante “Sua moglie! e… e Edwin! Dobbiamo svegliarli! avvertirli!”

“Sono tutti qua ragazzo” mi rispose il mio sopite, ostentando una calma surreale.

Solo allora li vidi.

I membri della famiglia che mi osservavano saccenti, disposti a ventaglio dietro a Morgan.

L’ennesimo gorgoglio mi raggiunse dalle spalle.

Voltai la testa, intravedendo la cosa che aveva ormai iniziato a discendere le scale.

“Non temete, ragazzo” incalzò Morgan.

Riportai lo sguardo al mio ospite.

Il suo volto era sparito.

La sua testa era una testa da polpo, grigiastra e diafana. Al posto degli occhi, due cavità scure, e la bocca era divenuta un piccolo orifizio dal quale fuoriusciva un rumore simile alla sua voce ma che non lo era più.

Cercai di scostarlo, ma le braccia sembravano costrette.

Abbassai lo sguardo e rimasi pietrificato.

Le mani di Morgan erano sparite, al loro posto due tentacoli, saldamente attorcigliati ai miei polsi.

Urlai, spostando tutto il peso del mio corpo contro a quello che era stato il mio ospite.

Dovetti sbilanciarlo, perché cadde all’indietro, e le sue sudice propaggini si staccarono dalle mie braccia, guizzando per attutire la caduta.

Ne approfittai.

Mi lanciai verso la porta, incurante degli ululati che esplodevano alle mie spalle.

Afferrai la maniglia, la tirai, e fui fuori, libero, immerso nella notte del Massachussets, intento a correre a perdifiato senza una direzione, con l’unico scopo di scappare da quella villa infernale.

Raggiunsi l’abitato di Arkam, la città era addormentata.

Mi voltai, posando lo sguardo sul ponte che attraversava il Miskatonik, pregando Dio, o chiunque potesse ascoltarmi di non scorgere sagome sinistre al mio inseguimento.

Rimasi immobile per un lasso di tempo indefinito, ascoltando il ritmo del mio respiro che andava regolarizzandosi.

Tutto era immobile.

Vagai per la città, ora che l’agitazione era calata almeno in parte, mi ero reso conto di avere addosso solamente il pigiama, e il clima, da quelle parti, non era certo clemente.

Trovai riparo in un canile abbandonato, in un vicolo secondario.

Trascorsi la notte in un costante dormiveglia per nulla ristoratore, ma ogni volta chiudevo gli occhi, le immagini terribili di ciò che avevo vissuto mi riassalivano senza pietà, costringendomi alla veglia.

 

Alle prime luci dell’alba, mi decisi ad abbandonare il rifugio.

Emersi sulla via principale, attirando su di me gli sguardi dei passanti.

Imbarazzato mi avviai laddove speravo di trovare aiuto.

La Miskatonik University.

Varcai l’ingresso dell’ateneo tra sguardi attoniti e risate mal celate.

Senza curarmene mi diressi nell’ufficio dell’unica persona che così lontano da casa potevo considerare amica.

Pinketts.

Il professore mi fece accomodare sul divano del suo studio, chiedendomi cosa fosse accaduto.

Un’aria greve si faceva largo sul suo viso, mano a mano gli narravo i fatti assurdi di cui, mio malgrado, ero stato protagonista.

“Ora vi porto da me, resterete fino alla partenza del primo piroscafo per l’Italia”

“Non ho soldi per il biglietto, ho lasciato tutto a casa Morgan”

“Di quello non dovete preoccuparvi, non possiamo coinvolgere la polizia, ci rinchiuderebbero in manicomio, ma posso farmi accompagnare alla residenza dei Morgan da qualche amico, recupererò i vostri effetti e ve li porterò”

“Grazie” bofonchiai, prima che la stanchezza e la tensione non mi presentassero il conto, obbligandomi ad un pianto incontrollabile.

 

Pinketts fece come detto, e verso le sei di sera rientrò a casa, con al seguito un paio di facchini che trasportavano i miei bagagli.

Gli andai incontro, chiedendogli ragguagli.

Mi disse che Morgan aveva narrato una vicenda del tutto diversa, aveva asserito che nel cuore della notte mi aveva sorpreso ad abbandonare urlando la casa, senza nessun motivo apparente.

Non gli aveva creduto, mi confidò, c’era qualcosa nel tono della voce di Morgan e nel suo modo di fare che non lo convinceva.

Durante la cena mi disse che il giorno seguente avrebbe consultato quei tomi di cui avevamo parlato per cercare di capire cosa stesse accadendo.

Forse fu la stanchezza, o forse la disperazione, ma al punto in cui mi trovavo, ero pronto a prendere in considerazione anche le possibilità più assurde.

Ero certo di cosa avessi visto la notte precedente, e non c’era nulla di razionale che potesse spiegarlo.

Mi ritirai subito dopo cena, convinto che finalmente avrei trascorso una notte di riposo, lontano dalle follie di casa Morgan.

Mi sbagliavo.

 

Non ho idea di che ore fossero, so solo che mi svegliai di soprassalto, preda di un senso di terrore sconvolgente.

La camera era illuminata da una luce tremula, che compresi essere gettata dalla serie di candele disposte attorno al mio letto.

Attorno al talamo, cinque figure, avvolte in tuniche nere stavano in ginocchio, salmodiando a bassa voce una litania in una lingua a me sconosciuta; una quinta, sostava in piedi, nuda, oltre il letto.

La riconobbi subito, Hazel, tremendamente bella, con lo sguardo fisso su di me stava abbozzando un sorriso sinistro e dolce allo stesso tempo.

Provai ad alzarmi, ma mi accorsi di non poterlo fare.

Ero legato mani e piedi ai quattro pomoli presenti agli angoli del giaciglio.

Cercai di urlare, ma l’urlo mi si gelò in gola, una volta che ebbi buttato indietro la testa, e scorta quella nube scura e vorticante che ribolliva a pochi centimetri dal soffitto, in corrispondenza del mio capo.

Fu in quell’istante che il turbine, la nube, o qualsiasi cosa fosse si immobilizzò per una frazione infinitesimale di tempo; quindi, scattando come solo il fulmine sa fare, si fiondò nella mia bocca, spalancata in quell’urlo mai fatto, entrando dentro di me.

Mentre con le ultime forze lottavo per rimanere vigile, intravidi Hazel muoversi nella mia direzione, e la sua bocca disegnare parole che non potevo più udire, poi furono solo tenebra e silenzio.

 

Un ronzio persistente mi tormentava le orecchie.

A fatica aprii gli occhi.

La camera era inondata dalla luce del sole.

Con la testa che mi doleva mi misi a sedere nel letto.

La camera appariva ordinata.

I ricordi emersero con prepotenza alla memoria, talmente prorompenti da farmi sfuggire un lamento disarticolato.

Ero solo.

Il ronzio che avevo udito proveniva da oltre la porta, compresi essere un chiacchiericcio troppo debole per essere interpretato.

Che mi fossi sognato tutto?

Sospirando mi alzai.

Mi assalì un violento capogiro che mi costrinse ad allungare una mano alla parete per risparmiarmi una rovinosa caduta.

Mossi un passo.

Mi grattai un polso, dal quale proveniva un fastidioso prurito; fu quando abbassai lo sguardo che con sommo orrore notai le escoriazioni.

Un bracciale vermiglio che ruotava tutto attorno all’articolazione.

Mentre il cuore prendeva ad accelerare, controllai anche l’altro, e la medesima ferita era la, dove speravo di non trovarla.

Mi sedetti sul letto, scostando il pigiama osservandomi la caviglia.

Non controllai l’altra, sapevo già che vi avrei trovato la stessa identica escoriazione.

Non era stato un sogno, quei segni di costrizione testimoniavano che qualcosa di abominevole mi era accaduto durante la notte.

Dovetti trattenermi per non dare di stomaco.

Mi alzai, avviandomi con andatura incerta alla porta.

Anche il corridoio era affogato nell’immobilità, ma da li, il chiacchierio udito in precedenza mi giungeva un po’ più chiaro.

Percorsi le scale e giunsi davanti alla porta della cucina.

La aprii.

“Ecco il nostro ragazzo!” Esordì con il tono più gioviale di questo mondo Morgan, seduto attorno al tavolo assieme ad altre cinque persone.

Le riconobbi all’istante, Hazel, la signora Morgan, Edwin, Pinketts e… accanto a colui che avevo reputato amico, un’altra persona, che mi guardava con sguardo soddisfatto e carico d’ammirazione.

Mio padre.

Temetti di cadere, e solo i riflessi fecero sì che la mia mano si saldasse alla maniglia, evitandolo.

“Vieni, siediti con noi, figliolo” disse mio padre, e io, inebetito dall’assurdità di quella situazione obbedii.

Sentivo i loro sguardi posarsi su di me, delicati come farfalle.

“Mi hai reso fiero questa notte” proseguì, mentre io non capivo nulla “Fin dall’istante della tua nascita eri destinato a questo”

“A cosa?” chiesi.

Lui sorrise.

“A fare da tramite, a ospitare un Dio dimenticato affinché attraverso te, potesse essere messo nella condizione di far concepire la sua progenie.”

“Io non capisco” balbettai.

Hazel si alzò, il sole che entrava dalla finestra alle sue spalle creava uno sorta di aura evanescente che ne rendeva tremuli i contorni.

Mi sorrise, mentre con grazia si sbottonava la camicia da notte.

Sentii esclamazioni di assenso, mentre la veste scivolava a terra, carezzandole il corpo, e mostrando a tutti la sua nudità, la perfezione dei seni torniti, e la curva armonica del ventre di una madre già avanti con la gestazione.

“Ma com’è possibile?” chiesi, percependo come estranea la mia stessa voce, mentre il mio intelletto lottava per non frantumarsi dinnanzi a un prodigio di tal portata.

“Nascerà all’incirca tra un mese, lo sento già muoversi, percepisco la sua fame; le sue propaggini che si agitano frenetiche mi solleticano le viscere” disse, abbassando gli occhi e accarezzandosi il ventre con l’amore che solo una madre può provare per la creatura che porta in grembo.

Mi accasciai sulla sedia, e mentre gli astanti si lasciavano andare in complimenti e sorrisi amorevoli, io percepii che la mia caduta nell’abisso della follia era appena iniziata.

Rientrai in Italia a bordo del Germania in compagnia di mio padre.

Durante il viaggio mi spiegò di come ogni avvenimento di quel mio triste viaggio fosse stato pianificato da tempo, persino la presenza a bordo di Pinketts scoprii non essere stata per nulla casuale.

Cercò di convincermi di quanto grandioso fosse quello che, volente o meno, avevo contribuito a fare.

In un impeto d’orgoglio rigettai tutto, minacciandolo di dire a chiunque ciò che avevo visto.

Lui, non diede molto peso alle mie minacce, anche se, ed è l’unica consolazione che mi resta, fu molto amareggiato da quel mio comportamento.

Una volta rientrati, e preso atto del mio non voler sentir ragioni, usando la sua influenza nel mondo accademico, non ebbe molte difficoltà a farmi dichiarare pazzo.

Mi lasciò scegliere, recluso per sempre in casa o internato in un sanatorio.

Odiandomi per la mia debolezza, optai per la prima.

 

Sono ormai passati tre anni dai fatti che ho scritto in questo diario.

La reclusione non mi risulta insopportabile, d’altra parte, che vita potrei sperare di fare, ora che so cosa si cela dietro il velo di normalità che permea il mondo?

Come dovrei comportarmi, sapendo che non esiste nessun Dio benevolo, ma, al contrario, un pantheon di divinità che governano il cosmo; esseri di malvagità pura, che non attenderebbero un istante ad annientare il nostro bel mondo se, per puro caso, voltassero lo sguardo nella sua direzione e malauguratamente si dovessero accorgere della sua esistenza.

Come disse Pinketts, il nostro mondo è una fragile barchetta alla deriva nelle acque insidiose del cosmo, acque popolate da esseri così potenti, in grado di far perdere il senno anche al più forte degli uomini, solamente focalizzando su di esso il loro sguardo.

Certe notti d’estate, quando il caldo a Bologna rende arduo persino respirare, e io, resto su questa poltrona fumando oppio, cercando di dimenticare l’inutilità della mia esistenza, mio figlio mi fa visita.

E’ un semidio.

Arriva all’improvviso, e se ne sta in piedi sulla porta del terrazzo, fissandomi in silenzio per ore dalle profondità dei suoi occhi rilucenti.

Mostro, è la prima parola che mi sovviene, quando poso i miei occhi inebetiti su di lui, ricordando la vera accezione di quel termine.

Mostro, dal latino Monstrum:

Prodigio.





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