Koinu - Puppy

di Stria93
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koinu


Pioveva sui tetti di Tokyo. Una pioggia leggera ma costante il cui scrosciare sommesso e ipnotico conciliava il sonno come una ninnananna e faceva in modo che il trionfo di luci variopinte della metropoli si rifrangesse in ogni goccia, creando giochi di riflessi colorati spettacolari e donando alla notte un'atmosfera gradevolmente malinconica.

Shuichi dormiva tranquillo contro di lui, il viso premutogli sul petto. Il suo respiro tiepido a cadenza regolare gli solleticava la pelle.

Succedeva sempre così: facevano l'amore, poi il ragazzo gli si accoccolava accanto, sdraiato su un fianco, chiudeva gli occhi ed erano sufficienti pochi secondi prima che scivolasse nel sonno, quieto e sereno come un cucciolo. Il suo cucciolo.

Eiri gli invidiava la facilità con cui si lasciava avvincere dall'incantesimo di Morfeo e varcava le porte del sogno. In tutte le occasioni in cui avevano dormito insieme, non lo aveva mai sorpreso ad agitarsi o lamentarsi. Al contrario, mentre dormiva, il suo volto manteneva costantemente un'espressione rilassata e pacifica. Una calma serafica che rasentava la beatitudine.

A lui quella grazia era interdetta ormai da anni. Il massimo a cui potesse aspirare era di trascorrere qualche ora di oblio chimico concessagli grazie ai farmaci dai quali era divenuto dipendente insieme alle sigarette. L'insonnia era una delle tante conseguenze del disturbo da stress post-traumatico, di cui soffriva da... be', da quel giorno.

Col tempo, era stato visitato da più medici di quanti ne potesse contare; aveva parlato con decine di analisti (a malapena conservava il ricordo di qualche nome sporadico letto sulla targa lustra di chissà quale studio prestigioso). Gli erano state prescritte liste interminabili di medicine e aveva tentato innumerevoli percorsi terapeutici alternativi a quello farmacologico. Ma, alla fine, solo nel processo catartico della scrittura era riuscito a trovare quel briciolo di sollievo effimero che alti dosaggi di benzodiazepine, ore di psicoterapia, finanche sedute d'ipnosi non erano mai stati in grado di garantirgli. Era giunto a trarne un'attività lavorativa vera e propria, anche piuttosto redditizia, che gli era valsa addirittura una certa fama in tutto il Giappone.

Tuttavia, i demoni erano ancora lì, in agguato sotto la superficie congelata della sua psiche, in attesa solo di una piccola breccia per potersi liberare dal confinamento nel quale Eiri aveva fatto di tutto per relegarli.

E quella breccia fatale si era aperta nell'istante in cui aveva cominciato a imbattersi nel giovane Shuichi Shindou, in un'altalena di circostanze che, dalla mera casualità, erano traslate a una ricerca deliberata della presenza reciproca.

Sotto le lenzuola, le loro gambe erano ancora intrecciate. Un tenero vezzo al quale non era abituato e che poco si accordava con il suo carattere burbero, ma ogni volta che tentava di sciogliere quel nodo, Shuichi si ribellava e trovava il modo di trattenerlo stretto a sé, anche nel sonno.

Eiri lasciò che gli angoli delle labbra si arcuassero un poco verso l'alto. Non un vero e proprio sorriso, quello no. Erano anni che non si permetteva di sorridere in modo aperto e sincero, temeva perfino che i suoi muscoli facciali si fossero atrofizzati al punto da renderglielo impossibile. Probabilmente aveva ormai perduto quella capacità. Ma, del resto, non aveva più avuto alcun motivo per il quale valesse la pena esercitarla o rimpiangerla.

Sapeva che sua sorella Mika aveva messo in guardia Shuichi dalla ributtante tragedia che si annidava nell'oscurità del suo passato, come una bestia famelica in attesa nel proprio antro buio, mai sconfitta e pronta a sfoderare gli artigli per tornare a ferire Eiri in prima persona e tutti coloro che provavano ad avvicinarglisi, ammaliati da quell'inesplicabile aura di magnetismo dalla quale lo scrittore era circondato. Era un fatto curioso e paradossale che tanto maggiori fossero i suoi sforzi per tenere a distanza il mondo, tanto più attraente egli risultasse agli occhi delle persone.

E il suo cucciolo, che gli dormiva a fianco in quel momento, era rimasto invischiato in quella rete invisibile come molti altri prima di lui. Eiri sapeva che gli avrebbe fatto del male e che Shuichi gliene avrebbe fatto a sua volta, anche se in maniera del tutto inconsapevole e involontaria. Era inevitabile, dati i precedenti.

Si era lasciato conquistare dalla candida determinazione di quel giovane cantante presentatosi sotto casa sua a reclamare delle scuse per le feroci critiche che aveva mosso al testo di una sua canzone la sera in cui la sorte li aveva messi l'uno sul sentiero dell'altro, provocando quell'incontro fortuito nel parco. Non era riuscito a resistere alla limpidezza di quegli occhi, alla trasparenza delle sue intenzioni, alla fierezza quasi infantile di quello sguardo ferito ma orgoglioso nel difendere a spada tratta il proprio lavoro. Era così determinato a non lasciarlo andare senza ottenere nemmeno una spiegazione, ma allo stesso tempo non poteva nascondere l'attrazione che nutriva nei suoi confronti.

Sarebbe dovuta finire lì, in quell'ascensore. Un bacio elargito quasi con esasperazione da parte di Eiri, giusto per placare quel fiume di parole e recriminazioni che Shuichi gli stava riversando addosso, dopodiché più nulla. Non avrebbero dovuto rivedersi. Non era nei piani. Non nei suoi, almeno.

Invece il ragazzo aveva continuato a cercarlo, a rincorrerlo malgrado l'atteggiamento aspro e scostante con cui Eiri si ostinava a trattarlo per indurlo ad allontanarsi da lui. Ma più lo respingeva, più Shuichi insisteva nel suo intento. E alla fine, erano diventati amanti.

Da allora gli era toccato affrontare estenuanti discussioni con Mika. Capiva che la preoccupazione della sorella maggiore riguardo a quella relazione era legata alla disgrazia che l'aveva segnato e rivolta non solo a lui ma anche a quel ragazzino che si era preso una cotta gigantesca per qualcuno che, in realtà, non conosceva affatto. La tossicità venefica di quel segreto sepolto sotto strati e strati di fredda indifferenza da parte di Eiri avrebbe finito per consumare entrambi, se avessero continuato a frequentarsi.

Si trattava di un comportamento oltremodo egoista da parte sua, Eiri ne era perfettamente conscio, ma non voleva che Shuichi venisse a conoscenza di quanto accaduto a New York anni prima. Non ancora. Non finché fosse riuscito a tenerlo al sicuro da quell'atroce verità. Se Shuichi avesse scoperto tutto, le cose sarebbero cambiate irrimediabilmente. La lente rosea attraverso la quale il suo cucciolo interpretava la vita si sarebbe incrinata e forse egli sarebbe potuto perfino arrivare alla decisione di troncare definitivamente quel rapporto. In tal caso, non l'avrebbe certo biasimato.

D'altra parte, Eiri stesso aveva inizialmente agito affinché Shuichi si mantenesse alla larga da lui e dal fardello che gravava sulla sua esistenza, avvelenandola come un'infezione che non sarebbe mai guarita.

E così, ogni volta che il ragazzo tentava di affrontare l'argomento, istigato dalle insinuazioni di Mika, Eiri lo metteva a tacere prendendogli il volto tra le mani e soffocando le sue domande con un intenso bacio che, nella maggior parte dei casi, finiva per condurre a carezze e abbracci sempre più passionali finché i due non si ritrovavano allacciati l'uno all'altro, sudati e ansimanti. Tutto il peso delle cose non dette e dei segreti si dissolveva nell'unione dei loro corpi avvinti e nel piacere che ne traevano. Anche se spesso rimaneva ad aleggiare nell'aria sopra le loro teste, come una nube molesta.

- Yu... ki. -

Eiri osservò il suo giovane amante mugolare il proprio nome con un sorriso placido dipinto sulle labbra dischiuse e farglisi più vicino, strofinandogli la fronte contro il torace.

L'uomo gli accarezzò i capelli, facendo attenzione a non svegliarlo. Un sospiro di piacere sfuggì dalla bocca del ragazzo mentre si accomodava meglio tra le sue braccia.

Eiri si sentì travolgere da un'ondata di struggente commozione a quella vista.

Shuichi non se ne rendeva conto, ma era portatore di un tesoro raro e prezioso che, in cuor suo, Eiri voleva tentare di preservare il più a lungo possibile: l'innocenza. Quell'ingenuità virginale intatta, retaggio dell'infanzia, che porta a fidarsi incondizionatamente dell'avvenire e della bontà altrui perché non si è ancora scontrata con la crudeltà gratuita del mondo, con l'ingiustizia della dura realtà, con il tradimento più ignobile e devastante: quello che avviene per mano di coloro che amiamo e che pensavamo ci amassero a loro volta.

Era proprio così con Shuichi: immaturo nel senso migliore del termine. La sua mente, il suo cuore e la sua anima erano ancora vergini e immacolati, lontani anni luce dalle bassezze e dall'efferatezza che Eiri aveva conosciuto quando era poco più giovane di lui.

Stava male al pensiero che la purezza di Shuichi potesse venire contaminata, sporcata da ciò che si celava tra le pieghe della sua vita passata, ma tenerlo accanto a sé e abbeverarsi di un po' di quel nettare dal sapore ormai dimenticato era diventata una necessità, per quanto dolore potesse arrecargli.

Da quella nefasta notte in cui tutto era cambiato per sempre, in cui aveva deciso di chiudere il suo cuore in una camera d'ibernazione blindata, tutti i suoi sforzi si erano focalizzati sull'impresa di rimuovere l'accaduto, di dimenticare. Ma da quando Shuichi aveva fatto il suo ingresso imprevisto e rocambolesco nelle sue giornate, ogni tentativo compiuto nel corso degli anni era stato demolito pezzo a pezzo. I mattoni del muro si sgretolavano e i ricordi dolorosi riaffioravano inclementi, tormentandolo nella veglia così come nel sonno.

Era cosciente del potere che deteneva sul giovane. Lo vedeva affannarsi attorno a lui per compiacerlo in ogni modo, tollerare le sue maniere brusche, il sarcasmo, le imbeccate caustiche e gioire ogniqualvolta Eiri lo ricompensava con un gesto d'affetto, un bacio o una carezza. Anelava le sue coccole e le sue attenzioni con l'urgenza di un cagnolino che si prostra ai piedi del padrone in attesa di una grattatina alle orecchie.

Conosceva bene quel senso di devozione assoluta verso qualcuno che, erroneamente e accecati dall'infatuazione, si idealizza fino a considerarlo una sorta di entità infallibile, luminosa e perfetta: unica fonte dispensatrice di gioia in una quotidianità che scorre solo in sua funzione.

Ci era passato, da ragazzino. Il ricordo di Yuki Kitazawa lo perseguitava ancora e non solo rispetto all'”incidente”. Rammentava fin troppo chiaramente il bisogno viscerale di averlo vicino a sé in ogni momento, di ricevere la sua approvazione, un complimento, un sorriso... qualunque accenno di benevolenza da parte sua. Anche lui, un tempo, era stato un cucciolo. Puro e ingenuo.

Nonostante tutto, non era mai riuscito a scrollarsi di dosso l'effetto della sua influenza, tanto da arrivare a scegliere proprio Yuki come pseudonimo letterario sotto il quale firmava i suoi scritti. Non aveva mai avuto la forza di recidere quel legame, neanche dopo ciò che era successo.

Durante l'adolescenza, Eiri aveva sviluppato una vera e propria adorazione per quell'individuo. Era più del suo maestro: Yuki rappresentava il suo modello, il suo ideale, l'ago della sua bilancia emotiva che, con una sola piccola oscillazione, poteva elevarlo fino in paradiso o precipitarlo all'inferno.

Purtroppo era la seconda ipotesi quella che si era realizzata.



Era accaduto in una nevosa notte del rigido inverno newyorkese. L'aria gelida risuonava delle grida sguaiate degli ubriachi, del rumore di bottiglie e di musica rap prodotta dalle casse di qualche stereo in lontananza. Era stato allora che si era consumato il dramma, in quello squallido edificio che si faceva pretenziosamente passare per un hotel al centro di un quartiere malfamato dell'enorme città americana. La Grande Mela nel pieno del suo marciume.*

Yuki aveva dato appuntamento in quel luogo al suo pupillo sedicenne che, ignorando i segnali d'allarme che il suo istinto seguitava a inviargli, vi si era recato senza pensarci troppo. Tutto pur di vederlo e stare con lui: importava solo questo.

Finestre in frantumi, preservativi usati, cocci di bottiglie vuote e siringhe abbandonate sul pavimento cigolante, qualche materasso lercio sparso qua e là, pareti ricoperte di graffiti indecifrabili e frasi oscene. Quando Eiri aveva iniziato a rendersi conto che qualcosa decisamente non andava in quella struttura fatiscente e inospitale, i campanelli d'allarme nella sua testa si erano moltiplicati a dismisura e una paura strisciante, profetica, aveva preso a farsi strada nel suo petto, raggelandolo e rendendo i suoi passi più insicuri.

Ma, nonostante tutto, una certezza brillava ancora come una fiammella che impediva alla paura di avere la meglio: Yuki non l'avrebbe mai condotto in un posto pericoloso, giusto? Yuki non avrebbe permesso che gli accadesse qualcosa, mai. Yuki gli voleva bene.

Eppure, una volta varcata la porta mezzo divelta della stanza indicatagli, Eiri non aveva più potuto chiudere gli occhi dinanzi alla verità, né trovarne una giustificazione. Era una verità che aveva l'odore stantio e penetrante di alcool scadente, tabacco di pessima qualità e forse di altre sostanze chimiche e organiche sulle cui origini aveva preferito soprassedere.

Yuki era lì; barcollava e farfugliava, visibilmente ubriaco. I lineamenti del viso, di solito così dolci e delicati, erano deformati in un ghigno cattivo mentre posava lo sguardo malevolo su di lui e tentava di afferrarlo maldestramente, i movimenti resi scoordinati e impacciati dall'alcool che aveva in circolo.

- Smettila! -

- Smetterla? E perché? Non è questo che vuoi? Non mi hai sempre cercato per tutto questo tempo? -

E poi l'arrivo di quei due uomini che l'avevano braccato, immobilizzandolo contro il muro; le banconote che passavano dalla sudicia mano di uno di loro a quella di Yuki, che le accettava con tranquillità. Gli aveva dedicato un'ultima occhiata di scherno e si era ritirato in un angolo della stanza per godersi lo spettacolo con i suoi soldi stretti avidamente tra le dita. I soldi che si era guadagnato vendendo il suo protetto. I soldi che rappresentavano il valore del suo giovane corpo casto e illibato.

Da quel punto in poi, la sua memoria era costellata di vuoti e buchi neri. Ciò che gli era rimasto di quei minuti convulsi era un coacervo confuso di impressioni inerenti per lo più alla sfera sensoriale: il puzzo di sudore rancido, fumo e sporcizia esalato dai due energumeni, le loro mani che lo toccavano rudi e impazienti, stringendolo fino a fargli male, gli ansiti eccitati e i grugniti disgustosi vicino al suo orecchio mentre uno dei due gli si premeva contro mozzandogli il respiro, insinuandogli una mano tra le gambe tremanti e l'altra sotto la camicia intanto che il complice iniziava a slacciarsi i pantaloni con foga animalesca.

Le dita ruvide e callose del primo si erano infilate a forza oltre i vestiti sotto l'ombelico, lambendogli il pube. Tra le lacrime, Eiri aveva rivolto uno sguardo supplice a Yuki ma quel viso così caro gli era apparso all'improvviso del tutto estraneo, trasfigurato dalla perfidia e da una scellerata eccitazione. Nessun aiuto sarebbe giunto da lui. Era chiaro.

Malgrado il terrore che lo paralizzava, era stata proprio quell'evidenza spaventosa appena realizzata a dargli la spinta necessaria per sottrarre a uno dei suoi aggressori la pistola che portava alla cintura. Aveva mirato alla cieca e premuto il grilletto, in un impeto di terrificata disperazione. Il boato secco e perentorio degli spari era riecheggiato nell'aria, simile a un tuono durante un temporale. Yuki si era accasciato a terra come un manichino senza emettere alcun suono e i due bruti si erano scambiati un'occhiata sgomenta prima di darsela a gambe.

Eiri era crollato in ginocchio, in preda allo shock, scosso da brividi incontrollabili. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo senza vita di Yuki, inoltre si sentiva ancora addosso l'olezzo ripugnante dei due uomini e l'impronta bruciante delle loro mani lorde dove questi l'avevano palpeggiato. Affiancato al panico, avvertiva un senso di schifo e repulsione che, ne era sicuro, non avrebbe mai potuto lavare via.

Non l'avevano violentato. La repentinità della sua reazione istintiva li aveva colti alla sprovvista e si erano trovati costretti ad abbandonare il loro infimo proposito senza poter andare fino in fondo, ma si trattava di un dettaglio che nella mente traumatizzata e annebbiata di Eiri faceva ben poca differenza. Si era sentito sporco, profanato, insozzato, oltraggiato, spezzato. Tradito.

Nei suoi sedici anni non si era mai percepito così impotente e indifeso, e la persona alla quale avrebbe affidato la sua stessa vita senza alcuna esitazione era proprio quella che l'aveva attirato in trappola e poi se n'era rimasta in piedi a pochi passi da lui, a guardare mentre veniva stuprato con un ghigno di crudele soddisfazione dipinto sulla bocca malvagia.

Ma il tentativo, quasi riuscito, di violenza non era stato il solo evento che in quell'esigua manciata di minuti aveva stravolto completamente la vita di Eiri. Aveva ucciso. Aveva tolto la vita a un'altra persona. No, non un'altra persona. Aveva ucciso Yuki. Il suo adorato Yuki.

L'immagine della versione di lui che aveva imparato a conoscere e ad amare si sovrapponeva in continuazione a quella irriconoscibile dell'essere meschino che l'aveva venduto agli stupratori. I due ritratti erano inconciliabili, eppure indivisibili. Era straniante pensare che Yuki fosse stato entrambi: l'amorevole sensei che lo aveva iniziato alla scrittura, e il mostro senza scrupoli, depravato e sadico di quella notte.

Non importava quanto Eiri cercasse di convincersi di aver agito per legittima difesa: il fatto inconfutabile era che premendo quel grilletto, aveva posto fine alla vita non solo dell'orco che l'aveva spinto tra le grinfie dei suoi violentatori in cambio di vile denaro, ma anche a quella dell'uomo che gli aveva regalato tanti momenti di felicità. L'uomo in funzione del quale aveva vissuto quegli anni spensierati e colmi di emozioni meravigliose.

Si era tormentato a lungo chiedendosi se il suo atteggiamento affettuoso potesse essere stato motivo di fraintendimento da parte del suo sensei. Poteva essere in qualche modo, parzialmente colpa sua? L'aveva incoraggiato lui, senza volerlo? Davvero credeva che desiderasse una... una cosa del genere?

Forse lo Yuki Kitazawa dolce e gentile di quei ricordi ameni non era mai esistito nella realtà, ma i sentimenti che Eiri aveva maturato per lui erano reali quanto il freddo metallo dell'arma che gli era rimasta a pesare tra le dita dopo aver esploso i colpi mortali.

E in quell'istante fatale non era morto solo Yuki. Una parte di Eiri se n'era andata per sempre. Un pezzo della sua anima gli era stato strappato via, lasciandolo monco, storpio. Una parte che aveva provato a salvare appropriandosi di quel nome per conferire paternità ai suoi romanzi, che nascevano dalle ceneri della sua pena ermeticamente inaccessibile agli altri se non attraverso quell'unico canale. Una parte di sé che aveva perduto molto tempo prima e ritrovato ora in Shuichi. Guardare lui era come affacciarsi a uno specchio riflettente il vecchio se stesso: quel sedicenne sempre sorridente e gioioso verso il quale sentiva una straziante nostalgia. Felice nella sua beata ingenuità. Prima che tutto succedesse.

Ecco il suo sordido segreto. Ecco il lerciume che infangava la sua esistenza e dal quale voleva proteggere il suo cucciolo ad ogni costo. Ecco chi era Yuki Eiri e come era venuto alla luce.



Quelle memorie ridestate incautamente gli provocarono un brivido gelido lungo la schiena che presto si estese a tutto il corpo, in risposta al quale Eiri cinse più forte a sé Shuichi, affondando il viso nei suoi capelli e inspirandone il profumo per calmarsi e cercare conforto.

- Mpf. Yuki? -

Il ragazzo dischiuse le palpebre, si stropicciò gli occhi e li sollevò verso Eiri. Lo sguardo appannato dal sonno si venò di sconcerto quando il giovane scorse le lacrime che rigavano il bel viso dello scrittore.

- Yuki, che cosa... ? -

Eiri scosse la testa con un moto di fastidio e gli premette l'indice sulle labbra.

- Non è niente. - tagliò corto, categorico. - Rimettiti a dormire. -

- Ma... Ma tu... -

Eiri si puntellò su un gomito per ritrovarsi a guardare Shuichi dall'alto. I suoi occhi di ghiaccio lo fissarono con intensità per qualche secondo, poi gli afferrò il mento tra le dita e lo baciò a lungo, quasi con disperazione. Era un bacio che recava il sapore di una preghiera, una supplica. Non chiedere. Ti scongiuro. Non farlo. Non chiedermi nulla.

Prolungò il contatto tra le loro labbra fino a quando non sentì che il giovane si abbandonava completamente a lui. Eiri comprese con sollievo che, almeno per il resto di quella nottata, non ci sarebbero state altre domande, altre richieste di spiegazioni che lui non poteva, non voleva fornire.

- Shhh. Va tutto bene. - mormorò con un filo di voce. - Torna a dormire. -

Shuichi gli si sistemò accanto di nuovo, cinto dal suo abbraccio. Non ci volle molto prima che si riaddormentasse. Eiri gli accarezzò una guancia e depose un tenero bacio tra le sue sopracciglia.

Io non sono come lui. Non lo sono. Si disse, meno convinto di quanto avrebbe voluto.



*Di solito non lo faccio, ma stavolta mi sono presa una piccola licenza poetica e ho modificato l'aspetto dell'hotel rendendolo allo stesso modo in cui Eiri lo ritrova quando torna a New York alla fine della serie, anche se all'epoca dei fatti narrati non lo vediamo così squallido e malridotto.






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