koinu
Pioveva sui tetti di Tokyo. Una pioggia
leggera ma costante il cui scrosciare sommesso e ipnotico conciliava
il sonno come una ninnananna e faceva in modo che il trionfo di luci
variopinte della metropoli si rifrangesse in ogni goccia, creando
giochi di riflessi colorati spettacolari e donando alla notte
un'atmosfera gradevolmente malinconica.
Shuichi dormiva tranquillo contro di
lui, il viso premutogli sul petto. Il suo respiro tiepido a cadenza
regolare gli solleticava la pelle.
Succedeva sempre così: facevano
l'amore, poi il ragazzo gli si accoccolava accanto, sdraiato su un
fianco, chiudeva gli occhi ed erano sufficienti pochi secondi prima
che scivolasse nel sonno, quieto e sereno come un cucciolo. Il suo
cucciolo.
Eiri gli invidiava la facilità con cui
si lasciava avvincere dall'incantesimo di Morfeo e varcava le porte
del sogno. In tutte le occasioni in cui avevano dormito insieme, non
lo aveva mai sorpreso ad agitarsi o lamentarsi. Al contrario, mentre
dormiva, il suo volto manteneva costantemente un'espressione
rilassata e pacifica. Una calma serafica che rasentava la
beatitudine.
A lui quella grazia era interdetta
ormai da anni. Il massimo a cui potesse aspirare era di trascorrere
qualche ora di oblio chimico concessagli grazie ai farmaci dai quali
era divenuto dipendente insieme alle sigarette. L'insonnia era una
delle tante conseguenze del disturbo da stress post-traumatico, di
cui soffriva da... be', da quel giorno.
Col tempo, era stato visitato da più
medici di quanti ne potesse contare; aveva parlato con decine di
analisti (a malapena conservava il ricordo di qualche nome sporadico
letto sulla targa lustra di chissà quale studio prestigioso). Gli
erano state prescritte liste interminabili di medicine e aveva
tentato innumerevoli percorsi terapeutici alternativi a quello
farmacologico. Ma, alla fine, solo nel processo catartico della
scrittura era riuscito a trovare quel briciolo di sollievo effimero
che alti dosaggi di benzodiazepine, ore di psicoterapia, finanche
sedute d'ipnosi non erano mai stati in grado di garantirgli. Era
giunto a trarne un'attività lavorativa vera e propria, anche
piuttosto redditizia, che gli era valsa addirittura una certa fama in
tutto il Giappone.
Tuttavia, i demoni erano ancora lì, in
agguato sotto la superficie congelata della sua psiche, in attesa
solo di una piccola breccia per potersi liberare dal confinamento nel
quale Eiri aveva fatto di tutto per relegarli.
E quella breccia fatale si era aperta
nell'istante in cui aveva cominciato a imbattersi nel giovane Shuichi
Shindou, in un'altalena di circostanze che, dalla mera casualità,
erano traslate a una ricerca deliberata della presenza reciproca.
Sotto le lenzuola, le loro gambe erano
ancora intrecciate. Un tenero vezzo al quale non era abituato e che
poco si accordava con il suo carattere burbero, ma ogni volta che
tentava di sciogliere quel nodo, Shuichi si ribellava e trovava il
modo di trattenerlo stretto a sé, anche nel sonno.
Eiri lasciò che gli angoli delle
labbra si arcuassero un poco verso l'alto. Non un vero e proprio
sorriso, quello no. Erano anni che non si permetteva di sorridere in
modo aperto e sincero, temeva perfino che i suoi muscoli facciali si
fossero atrofizzati al punto da renderglielo impossibile.
Probabilmente aveva ormai perduto quella capacità. Ma, del resto,
non aveva più avuto alcun motivo per il quale valesse la pena
esercitarla o rimpiangerla.
Sapeva che sua sorella Mika aveva messo
in guardia Shuichi dalla ributtante tragedia che si annidava
nell'oscurità del suo passato, come una bestia famelica in attesa
nel proprio antro buio, mai sconfitta e pronta a sfoderare gli
artigli per tornare a ferire Eiri in prima persona e tutti coloro che
provavano ad avvicinarglisi, ammaliati da quell'inesplicabile aura di
magnetismo dalla quale lo scrittore era circondato. Era un fatto
curioso e paradossale che tanto maggiori fossero i suoi sforzi per
tenere a distanza il mondo, tanto più attraente egli risultasse agli
occhi delle persone.
E il suo cucciolo, che gli dormiva a
fianco in quel momento, era rimasto invischiato in quella rete
invisibile come molti altri prima di lui. Eiri sapeva che gli avrebbe
fatto del male e che Shuichi gliene avrebbe fatto a sua volta, anche
se in maniera del tutto inconsapevole e involontaria. Era
inevitabile, dati i precedenti.
Si era lasciato conquistare dalla
candida determinazione di quel giovane cantante presentatosi sotto
casa sua a reclamare delle scuse per le feroci critiche che aveva
mosso al testo di una sua canzone la sera in cui la sorte li aveva
messi l'uno sul sentiero dell'altro, provocando quell'incontro
fortuito nel parco. Non era riuscito a resistere alla limpidezza di
quegli occhi, alla trasparenza delle sue intenzioni, alla fierezza
quasi infantile di quello sguardo ferito ma orgoglioso nel difendere
a spada tratta il proprio lavoro. Era così determinato a non
lasciarlo andare senza ottenere nemmeno una spiegazione, ma allo
stesso tempo non poteva nascondere l'attrazione che nutriva nei suoi
confronti.
Sarebbe dovuta finire lì, in
quell'ascensore. Un bacio elargito quasi con esasperazione da parte
di Eiri, giusto per placare quel fiume di parole e recriminazioni che
Shuichi gli stava riversando addosso, dopodiché più nulla. Non
avrebbero dovuto rivedersi. Non era nei piani. Non nei suoi, almeno.
Invece il ragazzo aveva continuato a
cercarlo, a rincorrerlo malgrado l'atteggiamento aspro e scostante
con cui Eiri si ostinava a trattarlo per indurlo ad allontanarsi da
lui. Ma più lo respingeva, più Shuichi insisteva nel suo intento. E
alla fine, erano diventati amanti.
Da allora gli era toccato affrontare
estenuanti discussioni con Mika. Capiva che la preoccupazione della
sorella maggiore riguardo a quella relazione era legata alla
disgrazia che l'aveva segnato e rivolta non solo a lui ma anche a
quel ragazzino che si era preso una cotta gigantesca per qualcuno
che, in realtà, non conosceva affatto. La tossicità venefica di
quel segreto sepolto sotto strati e strati di fredda indifferenza da
parte di Eiri avrebbe finito per consumare entrambi, se avessero
continuato a frequentarsi.
Si trattava di un comportamento
oltremodo egoista da parte sua, Eiri ne era perfettamente conscio, ma
non voleva che Shuichi venisse a conoscenza di quanto accaduto a New
York anni prima. Non ancora. Non finché fosse riuscito a tenerlo al
sicuro da quell'atroce verità. Se Shuichi avesse scoperto tutto, le
cose sarebbero cambiate irrimediabilmente. La lente rosea attraverso
la quale il suo cucciolo interpretava la vita si sarebbe incrinata e
forse egli sarebbe potuto perfino arrivare alla decisione di troncare
definitivamente quel rapporto. In tal caso, non l'avrebbe certo
biasimato.
D'altra parte, Eiri stesso aveva
inizialmente agito affinché Shuichi si mantenesse alla larga da lui
e dal fardello che gravava sulla sua esistenza, avvelenandola come
un'infezione che non sarebbe mai guarita.
E così, ogni volta che il ragazzo
tentava di affrontare l'argomento, istigato dalle insinuazioni di
Mika, Eiri lo metteva a tacere prendendogli il volto tra le mani e
soffocando le sue domande con un intenso bacio che, nella maggior
parte dei casi, finiva per condurre a carezze e abbracci sempre più
passionali finché i due non si ritrovavano allacciati l'uno
all'altro, sudati e ansimanti. Tutto il peso delle cose non dette e
dei segreti si dissolveva nell'unione dei loro corpi avvinti e nel
piacere che ne traevano. Anche se spesso rimaneva ad aleggiare
nell'aria sopra le loro teste, come una nube molesta.
- Yu... ki. -
Eiri osservò il suo giovane amante
mugolare il proprio nome con un sorriso placido dipinto sulle labbra
dischiuse e farglisi più vicino, strofinandogli la fronte contro il
torace.
L'uomo gli accarezzò i capelli,
facendo attenzione a non svegliarlo. Un sospiro di piacere sfuggì
dalla bocca del ragazzo mentre si accomodava meglio tra le sue
braccia.
Eiri si sentì travolgere da un'ondata
di struggente commozione a quella vista.
Shuichi non se ne rendeva conto, ma era
portatore di un tesoro raro e prezioso che, in cuor suo, Eiri voleva
tentare di preservare il più a lungo possibile: l'innocenza.
Quell'ingenuità virginale intatta, retaggio dell'infanzia, che porta
a fidarsi incondizionatamente dell'avvenire e della bontà altrui
perché non si è ancora scontrata con la crudeltà gratuita del
mondo, con l'ingiustizia della dura realtà, con il tradimento più
ignobile e devastante: quello che avviene per mano di coloro che
amiamo e che pensavamo ci amassero a loro volta.
Era proprio così con Shuichi: immaturo
nel senso migliore del termine. La sua mente, il suo cuore e la sua
anima erano ancora vergini e immacolati, lontani anni luce dalle
bassezze e dall'efferatezza che Eiri aveva conosciuto quando era poco
più giovane di lui.
Stava male al pensiero che la purezza
di Shuichi potesse venire contaminata, sporcata da ciò che si celava
tra le pieghe della sua vita passata, ma tenerlo accanto a sé e
abbeverarsi di un po' di quel nettare dal sapore ormai dimenticato
era diventata una necessità, per quanto dolore potesse arrecargli.
Da quella nefasta notte in cui tutto
era cambiato per sempre, in cui aveva deciso di chiudere il suo cuore
in una camera d'ibernazione blindata, tutti i suoi sforzi si erano
focalizzati sull'impresa di rimuovere l'accaduto, di dimenticare. Ma
da quando Shuichi aveva fatto il suo ingresso imprevisto e
rocambolesco nelle sue giornate, ogni tentativo compiuto nel corso
degli anni era stato demolito pezzo a pezzo. I mattoni del muro si
sgretolavano e i ricordi dolorosi riaffioravano inclementi,
tormentandolo nella veglia così come nel sonno.
Era cosciente del potere che deteneva
sul giovane. Lo vedeva affannarsi attorno a lui per compiacerlo in
ogni modo, tollerare le sue maniere brusche, il sarcasmo, le
imbeccate caustiche e gioire ogniqualvolta Eiri lo ricompensava con
un gesto d'affetto, un bacio o una carezza. Anelava le sue coccole e
le sue attenzioni con l'urgenza di un cagnolino che si prostra ai
piedi del padrone in attesa di una grattatina alle orecchie.
Conosceva bene quel senso di devozione
assoluta verso qualcuno che, erroneamente e accecati
dall'infatuazione, si idealizza fino a considerarlo una sorta di
entità infallibile, luminosa e perfetta: unica fonte dispensatrice
di gioia in una quotidianità che scorre solo in sua funzione.
Ci era passato, da ragazzino. Il
ricordo di Yuki Kitazawa lo perseguitava ancora e non solo rispetto
all'”incidente”. Rammentava fin troppo chiaramente il bisogno
viscerale di averlo vicino a sé in ogni momento, di ricevere la sua
approvazione, un complimento, un sorriso... qualunque accenno di
benevolenza da parte sua. Anche lui, un tempo, era stato un cucciolo.
Puro e ingenuo.
Nonostante tutto, non era mai riuscito
a scrollarsi di dosso l'effetto della sua influenza, tanto da
arrivare a scegliere proprio Yuki come pseudonimo letterario
sotto il quale firmava i suoi scritti. Non aveva mai avuto la forza
di recidere quel legame, neanche dopo ciò che era successo.
Durante l'adolescenza, Eiri aveva
sviluppato una vera e propria adorazione per quell'individuo. Era più
del suo maestro: Yuki rappresentava il suo modello, il suo ideale,
l'ago della sua bilancia emotiva che, con una sola piccola
oscillazione, poteva elevarlo fino in paradiso o precipitarlo
all'inferno.
Purtroppo era la seconda ipotesi quella
che si era realizzata.
Era accaduto in una nevosa notte del
rigido inverno newyorkese. L'aria gelida risuonava delle grida
sguaiate degli ubriachi, del rumore di bottiglie e di musica rap
prodotta dalle casse di qualche stereo in lontananza. Era stato
allora che si era consumato il dramma, in quello squallido edificio
che si faceva pretenziosamente passare per un hotel al centro di un
quartiere malfamato dell'enorme città americana. La Grande Mela nel
pieno del suo marciume.*
Yuki aveva dato appuntamento in quel
luogo al suo pupillo sedicenne che, ignorando i segnali d'allarme che
il suo istinto seguitava a inviargli, vi si era recato senza pensarci
troppo. Tutto pur di vederlo e stare con lui: importava solo questo.
Finestre in frantumi, preservativi
usati, cocci di bottiglie vuote e siringhe abbandonate sul pavimento
cigolante, qualche materasso lercio sparso qua e là, pareti
ricoperte di graffiti indecifrabili e frasi oscene. Quando Eiri aveva
iniziato a rendersi conto che qualcosa decisamente non andava
in quella struttura fatiscente e inospitale, i campanelli d'allarme
nella sua testa si erano moltiplicati a dismisura e una paura
strisciante, profetica, aveva preso a farsi strada nel suo petto,
raggelandolo e rendendo i suoi passi più insicuri.
Ma, nonostante tutto, una certezza
brillava ancora come una fiammella che impediva alla paura di avere
la meglio: Yuki non l'avrebbe mai condotto in un posto pericoloso,
giusto? Yuki non avrebbe permesso che gli accadesse qualcosa, mai.
Yuki gli voleva bene.
Eppure, una volta varcata la porta
mezzo divelta della stanza indicatagli, Eiri non aveva più potuto
chiudere gli occhi dinanzi alla verità, né trovarne una
giustificazione. Era una verità che aveva l'odore stantio e
penetrante di alcool scadente, tabacco di pessima qualità e forse di
altre sostanze chimiche e organiche sulle cui origini aveva preferito
soprassedere.
Yuki era lì; barcollava e farfugliava,
visibilmente ubriaco. I lineamenti del viso, di solito così dolci e
delicati, erano deformati in un ghigno cattivo mentre posava lo
sguardo malevolo su di lui e tentava di afferrarlo maldestramente, i
movimenti resi scoordinati e impacciati dall'alcool che aveva in
circolo.
- Smettila! -
- Smetterla? E perché? Non è questo
che vuoi? Non mi hai sempre cercato per tutto questo tempo? -
E poi l'arrivo di quei due uomini che
l'avevano braccato, immobilizzandolo contro il muro; le banconote che
passavano dalla sudicia mano di uno di loro a quella di Yuki, che le
accettava con tranquillità. Gli aveva dedicato un'ultima occhiata di
scherno e si era ritirato in un angolo della stanza per godersi lo
spettacolo con i suoi soldi stretti avidamente tra le dita. I soldi
che si era guadagnato vendendo il suo protetto. I soldi che
rappresentavano il valore del suo giovane corpo casto e illibato.
Da quel punto in poi, la sua memoria
era costellata di vuoti e buchi neri. Ciò che gli era rimasto di
quei minuti convulsi era un coacervo confuso di impressioni inerenti
per lo più alla sfera sensoriale: il puzzo di sudore rancido, fumo e
sporcizia esalato dai due energumeni, le loro mani che lo toccavano
rudi e impazienti, stringendolo fino a fargli male, gli ansiti
eccitati e i grugniti disgustosi vicino al suo orecchio mentre uno
dei due gli si premeva contro mozzandogli il respiro, insinuandogli
una mano tra le gambe tremanti e l'altra sotto la camicia intanto che
il complice iniziava a slacciarsi i pantaloni con foga animalesca.
Le dita ruvide e callose del primo si
erano infilate a forza oltre i vestiti sotto l'ombelico, lambendogli
il pube. Tra le lacrime, Eiri aveva rivolto uno sguardo supplice a
Yuki ma quel viso così caro gli era apparso all'improvviso del tutto
estraneo, trasfigurato dalla perfidia e da una scellerata
eccitazione. Nessun aiuto sarebbe giunto da lui. Era chiaro.
Malgrado il terrore che lo paralizzava,
era stata proprio quell'evidenza spaventosa appena realizzata a
dargli la spinta necessaria per sottrarre a uno dei suoi aggressori
la pistola che portava alla cintura. Aveva mirato alla cieca e
premuto il grilletto, in un impeto di terrificata disperazione. Il
boato secco e perentorio degli spari era riecheggiato nell'aria,
simile a un tuono durante un temporale. Yuki si era accasciato a
terra come un manichino senza emettere alcun suono e i due bruti si
erano scambiati un'occhiata sgomenta prima di darsela a gambe.
Eiri era crollato in ginocchio, in
preda allo shock, scosso da brividi incontrollabili. Non riusciva a
distogliere lo sguardo dal corpo senza vita di Yuki, inoltre si
sentiva ancora addosso l'olezzo ripugnante dei due uomini e
l'impronta bruciante delle loro mani lorde dove questi l'avevano
palpeggiato. Affiancato al panico, avvertiva un senso di schifo e
repulsione che, ne era sicuro, non avrebbe mai potuto lavare via.
Non l'avevano violentato. La
repentinità della sua reazione istintiva li aveva colti alla
sprovvista e si erano trovati costretti ad abbandonare il loro infimo
proposito senza poter andare fino in fondo, ma si trattava di un
dettaglio che nella mente traumatizzata e annebbiata di Eiri faceva
ben poca differenza. Si era sentito sporco, profanato, insozzato,
oltraggiato, spezzato. Tradito.
Nei suoi sedici anni non si era mai
percepito così impotente e indifeso, e la persona alla quale avrebbe
affidato la sua stessa vita senza alcuna esitazione era proprio
quella che l'aveva attirato in trappola e poi se n'era rimasta in
piedi a pochi passi da lui, a guardare mentre veniva stuprato con un
ghigno di crudele soddisfazione dipinto sulla bocca malvagia.
Ma il
tentativo, quasi riuscito, di violenza non era stato il solo evento
che in quell'esigua manciata di minuti aveva stravolto completamente
la vita di Eiri. Aveva ucciso. Aveva tolto la vita a
un'altra persona. No, non un'altra persona. Aveva ucciso Yuki. Il suo
adorato Yuki.
L'immagine della versione di lui che
aveva imparato a conoscere e ad amare si sovrapponeva in
continuazione a quella irriconoscibile dell'essere meschino che
l'aveva venduto agli stupratori. I due ritratti erano inconciliabili,
eppure indivisibili. Era straniante pensare che Yuki fosse stato
entrambi: l'amorevole sensei che lo aveva iniziato alla scrittura, e
il mostro senza scrupoli, depravato e sadico di quella notte.
Non importava quanto Eiri cercasse di
convincersi di aver agito per legittima difesa: il fatto
inconfutabile era che premendo quel grilletto, aveva posto fine alla
vita non solo dell'orco che l'aveva spinto tra le grinfie dei suoi
violentatori in cambio di vile denaro, ma anche a quella dell'uomo
che gli aveva regalato tanti momenti di felicità. L'uomo in funzione
del quale aveva vissuto quegli anni spensierati e colmi di emozioni
meravigliose.
Si era tormentato a lungo chiedendosi
se il suo atteggiamento affettuoso potesse essere stato motivo di
fraintendimento da parte del suo sensei. Poteva essere in qualche
modo, parzialmente colpa sua? L'aveva incoraggiato lui, senza
volerlo? Davvero credeva che desiderasse una... una cosa del genere?
Forse lo Yuki Kitazawa dolce e gentile
di quei ricordi ameni non era mai esistito nella realtà, ma i
sentimenti che Eiri aveva maturato per lui erano reali quanto il
freddo metallo dell'arma che gli era rimasta a pesare tra le dita
dopo aver esploso i colpi mortali.
E in quell'istante fatale non era morto
solo Yuki. Una parte di Eiri se n'era andata per sempre. Un pezzo
della sua anima gli era stato strappato via, lasciandolo monco,
storpio. Una parte che aveva provato a salvare appropriandosi di quel
nome per conferire paternità ai suoi romanzi, che nascevano dalle
ceneri della sua pena ermeticamente inaccessibile agli altri se non
attraverso quell'unico canale. Una parte di sé che aveva perduto
molto tempo prima e ritrovato ora in Shuichi. Guardare lui era come
affacciarsi a uno specchio riflettente il vecchio se stesso: quel
sedicenne sempre sorridente e gioioso verso il quale sentiva una
straziante nostalgia. Felice nella sua beata ingenuità. Prima che
tutto succedesse.
Ecco il suo sordido segreto. Ecco il
lerciume che infangava la sua esistenza e dal quale voleva proteggere
il suo cucciolo ad ogni costo. Ecco chi era Yuki Eiri e come era
venuto alla luce.
Quelle memorie ridestate incautamente
gli provocarono un brivido gelido lungo la schiena che presto si
estese a tutto il corpo, in risposta al quale Eiri cinse più forte a
sé Shuichi, affondando il viso nei suoi capelli e inspirandone il
profumo per calmarsi e cercare conforto.
- Mpf. Yuki? -
Il ragazzo dischiuse le palpebre, si
stropicciò gli occhi e li sollevò verso Eiri. Lo sguardo appannato
dal sonno si venò di sconcerto quando il giovane scorse le lacrime
che rigavano il bel viso dello scrittore.
- Yuki, che cosa... ? -
Eiri scosse la testa con un moto di
fastidio e gli premette l'indice sulle labbra.
- Non è niente. - tagliò corto,
categorico. - Rimettiti a dormire. -
- Ma... Ma tu... -
Eiri si puntellò su un gomito per
ritrovarsi a guardare Shuichi dall'alto. I suoi occhi di ghiaccio lo
fissarono con intensità per qualche secondo, poi gli afferrò il
mento tra le dita e lo baciò a lungo, quasi con disperazione. Era un
bacio che recava il sapore di una preghiera, una supplica. Non
chiedere. Ti scongiuro. Non farlo. Non chiedermi nulla.
Prolungò il contatto tra le loro
labbra fino a quando non sentì che il giovane si abbandonava
completamente a lui. Eiri comprese con sollievo che, almeno per il
resto di quella nottata, non ci sarebbero state altre domande, altre
richieste di spiegazioni che lui non poteva, non voleva fornire.
- Shhh. Va tutto bene. - mormorò con
un filo di voce. - Torna a dormire. -
Shuichi gli si sistemò accanto di
nuovo, cinto dal suo abbraccio. Non ci volle molto prima che si
riaddormentasse. Eiri gli accarezzò una guancia e depose un tenero
bacio tra le sue sopracciglia.
Io non sono come lui. Non lo
sono. Si disse, meno convinto di quanto avrebbe voluto.
*Di solito non lo faccio, ma stavolta mi
sono presa una piccola licenza poetica e ho modificato l'aspetto
dell'hotel rendendolo allo stesso modo in cui Eiri lo ritrova quando
torna a New York alla fine della serie, anche se all'epoca dei fatti
narrati non lo vediamo così squallido e malridotto.
|