Buondì!
Questo capitolo sarà allegato da una breve prefazione e una
notizia buona e una cattiva...
Partiamo
con la buona: Our home
è tornato! Come dopotutto vedete da soli XD
La
notizia cattiva? Sono di nuovo bloccata con la scrittura; è
un periodo di alti e bassi e scrivo quando sono dell'umore giusto, ho
l'ispirazione buona e così via, quindi tornerò in
pausa dopo qualche capitolo. Ma ci ho pensato e magari pubblicare
ciò che ho mi aiuterà a continuare, o magari
farà l'opposto, chi lo sa, lo scopriremo vivendo...
Quindi
nulla, vi lascio alla piccola prefazione… !!Avevo
già inserito questa prefazione sotto al capiotolo precedente
con un aggiornamento, ma potrebbe essere sfuggito ai più e
quindi ripropongo!!
Ho sempre
sostenuto che, se si comincia a delineare una trama complessa, o se si
scrivono i personaggi in un dato modo, ci dev'essere un
perché, un percome, e un inizio. Non mi piacciono i
personaggi che si comportano in un certo modo perché
sì, né che ci possa essere un'organizzazione
criminale nata dal nulla perché deve fare da sfondo alla
storia d'amore delle protagoniste e metterle in difficoltà.
Poi che ci possa o meno riuscire è un altro paio di maniche,
ma non siamo qui per disquisire su questo u_u Dal momento che sono
partita a scrivere Our home avevo in mente una trama più
complicata e articolata e una più base, e ammetto che
quest'ultima mi avrebbe semplificato il mondo, avrei avuto
più commenti per capitolo lungo il percorso, e me la sarei
sbrigata molto prima, ma ho seguito l'istinto e altre cose, e me la
gioco così. Mi rendo conto che molte persone leggono la mia
fan fiction solo per la supercorp (e ci mancherebbe, ahahah) e potrebbe
non interessare il resto, ma ho un dovere verso questa storia e devo
farlo a discapito di tutto. Questa piccola prefazione è per
preparavi ai capitoli che verranno! Ricordate che il capitolo 65
sarebbe stato uno stand alone? Non sarà uno stand alone
qualsiasi, ma sarà uno stand alone particolare, diviso in
sei “minicapitoli” dove potrete leggere l'inizio,
passo dopo passo: l'inizio dell'organizzazione. Perché per
me non è solo sfondo ma parte integrante di questa fan
fiction, proprio come la storia d'amore delle protagoniste.
Cosa
posso dire di più? Considerato il tempo trascorso, vi
consiglierei di rileggere il capitolo precedente Angel Children's
Memorial perché avrà modo di
prepararvi a
ciò che leggerete ora, non solo per questo stand alone
diviso in sei appuntamenti, ma proprio per i capitoli da qui in avanti.
Faremo
la conoscenza di personaggi nuovi e altri li conosceremo sotto una
nuova luce.
Capire
il passato ci aiuta a comprendere e cambiare, chissà, il
presente.
Buona
lettura!
1963
Qual
è il frutto di una tragedia?
L'elicottero
sovrastava l'aria sopra la statale, abbassandosi lentamente verso il
precipizio in modo da aiutare i soccorsi a raggiungere il pullman
precipitato. Ottantotto metri. Un catorcio informe di lamiere
appiattito dai continui colpi fino a che si era fermato, tra le
esposte grosse radici di un albero. Le telecamere si erano assicurate
di riprendere ogni particolare della scena dell'incidente: dai segni
lasciati dalle ruote dell'autobus sulla strada al guardrail
interrotto e piegato dall'impatto, dai pezzetti di vetro persi
sull'erba dei finestrini rotti alla scia di rami piegati su cui
inizialmente il pullman sembrava essersi fermato. Louie Luthor
guardava costantemente quelle immagini che passavano in televisione.
Restava piazzato e, ogni volta che ne parlavano, si allungava in modo
da avere il naso davanti allo schermo. Continuare a vederle le
rendeva man mano più distanti dalla sua realtà;
non sembravano
vere, non sembrava qualcosa successo a persone che conosceva, ma i
pezzi di un puzzle che doveva provare a ricomporre. I suoi occhi
chiari analizzavano e, parlando a bassa voce, per sé,
ricostruiva
gli eventi. Appena incastrava un elemento che gli soddisfaceva,
allora sorrideva e un pensiero veloce gli tornava in mente, un volto,
un nome, prima di rendersi conto che quell'elemento era parte
dell'insieme che, quel volto e quel nome, glielo aveva portato via. E
allora le labbra rosa si piegavano, aggrottava la fronte e gridava,
gridava così forte che era l'unico momento in cui sua madre
si
precipitava da lui prima della domestica; lo accoglieva sul suo
petto, ignorando le sfuriate per cui doveva lasciarlo andare, e gli
passava una mano sul volto per pregargli di non farlo. Louie non
poteva gridare, lei glielo diceva sempre e durante quei giorni
più
che mai. Non poteva permettersi di stressare il suo corpo nato
difettoso. Louie Luthor non poteva fare tante delle cose che le altre
persone potevano, che ignoravano quanto fossero fortunate nella loro
indipendenza e sfrontata normalità. Ma mai niente aveva
invidiato
agli altri se non una cosa che lo tormentava: la libertà di
assimilare un lutto come gli veniva meglio. Anche gridando.
Oggi
Con
la testa pesante che sbatteva nella scatola cranica, Megan si
alzò
dalla sedia posta in corridoio e si avvicinò al vetro che
affacciava
alla cuccetta dove riposava John Jonzz. Uh, si grattò le
braccia:
aveva le pieghe sulla pelle lasciate dai braccioli della sedia. Non
si era accorta di essersi riaddormentata, doveva avere un aspetto
orribile. Cercò il cellulare per chiedere a Kara se avesse
dato da
mangiare a Nana e trovò un suo messaggio:
Da
Supergirl a Me
Nana
ha spazzolato la ciotola in un battibaleno! Sto già andando
all'Angel Children's Memorial per la riunione: mi farebbe piacere
averti lì, quando vuoi, per una boccata d'aria. Sei la
benvenuta!
Ripose
il telefono nella tasca destra dei jeans e sospirò: nessuna
novità,
i medici lo controllavano a ogni ora, era tutto sotto controllo.
Forse poteva- Una ragazza le si affiancò davanti al vetro e
Megan le
fece spazio, squadrandola appena: lunghe trecce scure lungo la
schiena, poco più alta di lei magari per i tacchi sugli
stivaletti,
giacchetta in jeans, il fiatone.
«Ho
cercato di essere qui il prima possibile, ma con le bambine e il
resto…», sussurrò a fiato corto; poi la
guardò e riuscì a farle
un sorriso, mostrandole una mano per stringergliela. «Sono
Miriam,
la ex moglie di John. Tu devi essere Megan».
Il
cuore le saltò un battito e le strinse la mano cercando
anche lei di
forzare un sorriso.
«Non
avrei voluto che ci conoscessimo in questa circostanza».
«Già».
Si
fermarono a guardarlo e si persero a parlare un po' delle sue
condizioni e di cos'era successo. Megan non riusciva neppure a capire
cosa provasse perché, se da una parte avrebbe voluto
conoscerla
presto, dall'altra non riusciva a essere a suo agio a farlo in quel
contesto, con il loro John in coma.
«Mi
ha parlato di te».
A
quell'affermazione, Megan sorrise con più gusto, lanciandole
uno
sguardo sarcastico: «Non è vero».
Anche
l'altra rise, portandosi una mano sul viso. «No…
non proprio. Ho
dovuto fargli sputare io qualcosa con la forza, da lui spontaneamente
non esce neanche uno spillo», annuì.
«Scherzi?
Sono cose così… confidenziali».
«L'agente
Jonzz non parla! Scommetto che non ti ha detto di essere stato
sposato». Megan la guardò ancora alzando un
sopracciglio e si
misero a ridere, tanto che Miriam le diede una spallata e furono
prontamente rimproverate da un infermiere che passava di lì.
«Non è
quel tipo di persona».
«Già,
lui… Gliel'ho fatto notare», le confidò
con orgoglio.
«L'ho
fatto spesso anch'io, ma forse a te darà più
retta».
Megan
scrollò le spalle. «Cosa te lo fa
credere?».
«Beh,
non mi ha parlato di te, ma lo faceva in altri modi… Quando
eri tu
a scrivergli lo sapevo perché il suo sguardo cambiava... Non
doveva
dire niente», arricciò il naso. «Tra me
e lui non ha funzionato
perché eravamo persone troppo distanti, con te è
diverso… Lo vedo
che è diverso. Può funzionare».
Megan
restò in silenzio, guardando John attraverso il vetro. Mosse
appena
le labbra, poi le piegò, increspando la fronte:
«Non sono pronta a
perderlo».
Allora
Miriam, come una vecchia amica, la colse per le spalle, offrendole
l'appoggio di cui aveva bisogno. Anche Louie Luthor aveva detto lo
stesso quando per la prima volta gli avevano comunicato del pullman
precipitato. Dopo il momento di incredulità, naturalmente.
Poteva
succedere una cosa come quella? Non poteva essere vero… Non
poteva
perderli. Non era pronto a perdere loro. A perdere lui.
1962
«Lui
è Mark».
All'interno
del salone si erano voltati tutti, lasciando le riviste sul tavolo e
i puzzle che facevano durante le pause per passare il tempo. Louie
aveva spalancato gli occhi: un nuovo membro?
«Ti
troverai bene qui con noi», aveva detto il ragazzo del
volontariato
a quello nuovo, Mark, presentandolo agli altri.
Gli
aveva battuto la spalla sinistra due volte, a un secondo di distanza:
Louie si era incantato, esaminando la scena e selezionandola con lo
sguardo. Mark aveva i capelli di un biondo cenere, opaco, tirati
indietro come uno di quei ragazzi che si potevano vedere solo in
televisione; un piccolo ciuffo gli sfuggiva e finiva sopra l'occhio
sinistro. Indossava una camicia colorata a righe, col colletto
chiuso, e un pantalone color cachi. La sua sedia a rotelle era un
vecchio modello, cigolava. Ma non era il solo ad averla in quello
stato, nessuno lì amava badare a queste cose. Aveva le
guance
arrossate e presto i suoi compagni avrebbero scoperto che le avrebbe
avute per tutto il periodo dell'anno, con il sole o con la pioggia.
Gli occhi color nocciola, grandi, le mani pallide e, avrebbe appreso
Louie, sempre fredde. Come le sue. Louie se le aveva guardate subito
e, quando il ragazzo del volontariato aveva scortato Mark al loro
tavolo per fare amicizia, strisciando quelle ruote cigolanti sulle
pianelle appena lavate, aveva scoperto da vicino che erano
più
grandi rispetto a quelle del nuovo arrivato. Le proprie dita erano
affusolate, lunghe, la pelle più rosata, le unghie corte e
tonde,
quasi bianche. Mark aveva le dita più grosse e corte, le
unghie
rotte ai bordi, marroni sulle punte: doveva trascinarsi spesso da
solo quella sedia. Oh, lo aveva sorpreso a guardarlo e Louie aveva
sorriso, mostrandogli il pezzo del puzzle più vicino.
«Duemila
pezzi, ci stiamo lavorando da ieri», si era scambiato uno
sguardo
fiero con i due ragazzi al loro tavolo, scrollando le sopracciglia,
«Pensi di starci dietro… Mark?». Loro
avevano riso, pregandogli
amichevolmente di lasciar in pace il ragazzo nuovo. Louie amava
stuzzicare gli altri, specie se in qualche modo riuscivano a
incuriosirlo.
Quello
nuovo aveva allargato gli occhi e dato un'occhiata al disegno del
puzzle, un paesaggio, poi di nuovo al ragazzo. «Sono davvero
tanti
pezzi… ma non mi tirerò indietro».
Quando
Mark sorrideva, gli angoli della bocca gli si alzavano in modo
strano, aveva una forma al limite del naturale: così curva
da
apparire disegnata, sembrava un cartone animato e Louie si era
assicurato di farglielo sapere, ovviamente, nei giorni successivi. Si
era assicurato di fargli sapere parecchie cose nei giorni successivi,
veramente: macchie della pelle, lividi, arrossamenti, un curioso
bitorzolo sull'attaccatura dei capelli, un piccolo callo sul palmo
della mano destra, se gli stavano bene i capelli bagnati quando
andavano a fare esercizio in piscina, un graffio sul naso, aveva i
capezzoli diversi, come avrebbe dovuto lasciarsi i capelli al
naturale dopo averli lavati, che aveva i piedi davvero grandi per la
sua altezza, quando aveva invece le orecchie incredibilmente piccole
per la conformità della sua testa, i nei nuovi che scopriva
e, se
non gli piacevano, gli indicava un medico. Il resto dei ragazzi
dell'associazione lo trovavano davvero fastidioso quando ci si
metteva, anche se certo dopo mesi a conoscerlo si erano abituati, ma
Mark prendeva sul serio ogni cosa che gli diceva o si preoccupava
spalancando la bocca disegnata come avrebbe fatto un bambino. Era un
anno più grande di Louie ed eppure particolarmente ingenuo.
Louie
trovava affascinante come Mark riuscisse a sopportarlo.
La
loro amicizia era destinata a cambiare quando, dopo aver fatto una
lunga serie di esercizi di fisioterapia atta a rinforzare i muscoli
delle sue gambe, Louie aveva camminato con le stampelle fino a Mark
che lo aspettava, pronto per dirgli qualcosa che, per la prima e
unica volta, si sarebbe rimangiato fino alla fine dei suoi giorni:
«Cosa
ne dici? Scommetto che ora invidi da morire il fatto che le gambe del
mio corpo difettoso possono ancora camminare e le tue no». Si
era
seduto accanto a lui con fatica, su una panca, stringendo i denti e
attento a non piegarsi troppo per non scivolare. Mark non aveva
risposto. Una volta sistemato, Louie aveva sospirato e tossito,
alzando gli occhi per osservare il suo volto smarrito, immobile, che
lo aveva fatto pentire all'istante di aver aperto anche in quel
momento quella sua boccaccia. Ma non era pronto per sentire quella
risposta:
«Non
lo sono per niente, Louie», lo aveva guardato negli occhi,
finalmente. «Le mie gambe non possono camminare, è
vero, ma godo di
ottima salute. Il tuo corpo è così fragile che
potrebbe spezzarlo
il vento. Se proprio devo dirlo… a me dispiace per
te».
Lo
aveva fatto sentire così in difetto. Non che avesse voluto
ferirlo
con quella battuta da sentire il bisogno di proteggersi, né
di certo
aprire a una discussione più seria, era solo una
stupidaggine, una
battuta infantile rispedita al mittente con violenza: la
verità. Se
lo era meritato. Louie lo aveva guardato in modo differente da quel
giorno. Ed era stato certo che anche Mark doveva essersi pentito
poiché non lo aveva più guardato negli occhi per
alcuni giorni. Per
fortuna non troppi, non ne avrebbero avuti così tanti a
disposizione
e il destino, beffardo, aveva già fatto partire il triste
conto alla
rovescia.
«Dovremmo
andarcene», aveva sospirato Mark un giorno, nel cortile
dell'associazione intenti a prendere il sole. Aveva il volto puntato
verso il cielo e gli occhi chiusi, ma il tono della sua voce
suggeriva che era serio.
«E
dove?», aveva sorriso un ragazzo del gruppo che, sulla
panchina
accanto, non faceva che guardarsi le mani incantato, osservando il
cambio di colore dalla luce all'ombra. «Sei tutto scemo: noi
da soli
non dureremmo nulla, lo sai?».
«Non
è vero», aveva sbottato allora Louie, zittendo gli
altri pronti a
prendere parola. «Non avete capito cosa sta succedendo? Il
Vietnam è
solo l'inizio. Credete che la guerra non ci riguardi?», aveva
cercato di inquadrare i volti dei compagni ma nessuno di loro aveva
ricambiato. «Siamo responsabili anche noi, o pensate che gli
storpi
siano esenti?».
Uno
di loro lo aveva fissato solo allora, aggrottando lo sguardo.
«Io
non la volevo mica quella guerra, non l'ho chiesta», aveva
stretto
un pugno. «Smettila! Noi non siamo nessuno per
decidere».
«Ma
è quello che vogliono farci credere», aveva
ribattuto. «Che siamo
scarti, e inutili. Che non abbiamo idea del mondo che ci circonda! Ci
hanno messo in un angolo e credono che resteremmo lì per
sempre!
Dobbiamo farci sentire, invece. Fuori da qui ci trattano
come… come
se non fossimo persone anche noi», aveva aggrottato lo
sguardo
severo. «Io a quella guerra dico no.
Se anche voi dite no,
dovete farvi sentire».
Un
ragazzo aveva scosso la testa e alzato gli occhi al cielo come se
avesse appena sentito la più grande scemenza della sua vita,
ma
Louie ci credeva davvero a quello che aveva detto e, se anche il
resto del gruppo faticava a prenderlo sul serio, Mark vedeva le
stesse cose che vedeva lui. E ci sperava.
«Hai
sentito di quel movimento?», gli aveva chiesto solo poco
più tardi,
rientrando nell'edificio. «Ripudiano la guerra, criticano il
sistema
corrotto! Se riesco ad andarmene, voglio farlo con loro».
«Gli
hippy! Oh sì», aveva sorriso Louie, «ti
ci vedrei bene un fiore
tra i capelli, per dargli un po' di colore».
Lui
aveva subito riso. «Scemo… Ti prendevo sul
serio». Pensava che la
discussione fosse chiusa, ma…
«Ero
serio. Vengo anche io a fare l'hippy con te. I fiori stanno bene
anche sui miei di capelli, non crederti l'unico fortunello».
Suo
padre era un grande sostenitore della guerra in Vietnam, al
contrario. Dopotutto, essendo proprietario dell'unica fabbrica di
armi di National City, non poteva essere altrimenti. La sfortuna, o
forse fortuna, voleva che non avessero un rapporto che andava al di
là del loro augurarsi la buonanotte o il buongiorno e non
dovevano
discuterci. In ogni caso, era sua madre a sedare le discussioni sul
nascere per non stressarlo. Lei non aveva posizione in merito, non
voleva averla perché suo marito l'aveva per lei. Sua sorella
Lara
non ci pensava; se ne stava chiusa nella sua camera a scrivere
lettere, oppure a ideare qualche piano di vendita per l'azienda che
il loro padre non avrebbe mai letto. E Levi, invece, era troppo
impegnato a fare da scudo al mondo per la creatura che la sua povera
moglie portava in grembo per preoccuparsi del resto del mondo. Dopo
aver perso una gravidanza un anno prima e tanto provarci, non avrebbe
mai dato nulla per scontato.
«Io
sono figlio unico», gli aveva confessato Mark in attesa della
fisioterapia giornaliera. «Com'è avere dei
fratelli?».
«Non
lo so, abbiamo troppi anni di differenza», aveva fatto una
smorfia,
rigettando dietro la fronte un ricciolo dei capelli scuri.
«Non
passiamo insieme molto tempo. Preferisco passarlo con te».
Gli
aveva sorriso e Mark, di scatto, era arrossito, poiché era
la prima
volta che si era messo a dirgli qualcosa di carino.
«I
miei genitori invece sono… genitori»,
si era fermato per tossire. «Minacciano sempre di portarmi
via da
qui perché non vedono miglioramenti, ma loro non cercano
miglioramenti, loro cercano…», aveva abbassato gli
occhi, «il
miracolo. Non esistono i miracoli».
«Io
credo nei miracoli, Louie».
«Non
dire scemenze, scemo», lo aveva prontamente sbeffeggiato: lo
diceva
in quel modo così sicuro che lo avrebbe preso in giro per
l'eternità, se l'eternità glielo avrebbe
permesso.
«No,
ci credo davvero! Quando ho avuto l'incidente pensavo sarei morto, ma
un miracolo mi ha salvato».
«Ti
ha portato via l'uso delle gambe».
«Ma
mi ha salvato».
Lui
aveva scosso la testa, portando le dita lunghe e affusolate in mezzo
ai ricci dei suoi capelli mal pettinati. «E allora che
miracolo c'è
stato con me?», lo aveva guardato, mostrando i suoi occhi
freddi
come mai prima.
Mark
aveva esitato. «Sei vivo… Louie. Sei qui davanti a
me e sei… sei
un bel ragazzo, sei…», aveva sorriso imbarazzato,
giocando con le
dita tozze delle mani, «intelligente, sei… tu il
miracolo, Louie».
Era
stato ad ascoltarlo; sapeva che quelle parole gli sarebbero entrate
dentro con la forza perché non avrebbe voluto perderle nel
tempo. Il
corridoio era deserto, erano in attesa, l'unico rumore nell'aria era
il continuo gocciolare di un secchio lasciato troppo pieno in attesa
di lavare il pavimento. Louie Luthor si era avvicinato al suo volto
con il proprio e lo avrebbe baciato, lo avrebbe fatto, se la signora
delle pulizie non sarebbe apparsa da una porta all'improvviso per
portare il bastone con lo straccio. Louie si era tirato indietro
subito.
Mark
invece non si era mosso e lo aveva guardato di straforo.
«La…»,
aveva ripreso, «La mia fidanzata… è
stata lei a convincermi che i
miracoli esistono».
Louie
aveva spalancato gli occhi di ghiaccio: fidanzata? Mark aveva una
fidanzata? Non sapeva neppure perché, a conti fatti, la cosa
lo
aveva colto di sorpresa così tanto: uno come lui come poteva
non
aver già trovato con chi passare la vita insieme?
«Tu…
Tu non hai ancora una fidanzata, Louie?».
Era
stato facile innamorarsi di Mark, difficile sarebbe stato accettarlo.
D'altronde, quando aveva conosciuto Kristen, la fidanzata di Mark,
comprendeva quanto fosse fortunato. E non voleva di certo portarlo
via da lei, avrebbe voluto solo… non lo sapeva. Forse non lo
aveva
mai saputo.
Si
era fatto aiutare da sua madre a lavare i capelli, si era sistemato i
ricci davanti allo specchio che continuavano a ricaderli sugli occhi,
così ci aveva spruzzato sopra della lacca per tenerli
ordinati e sua
sorella l'aveva prontamente sgridato perché era sua,
prendendo la
sedia a rotelle con lui sopra per schiaffarlo in camera sua. Si era
guardato davanti allo specchio per minuti interi, immobile,
aspettando chissà quale idea brillante. Poi aveva cercato di
pettinarseli, non soddisfatto. Aveva sentito l'alito e aveva
setacciato casa in cerca di una caramella alla menta, facendo
impazzire la domestica. Infine, si era sistemato le pieghe del
maglioncino così tante volte da consumarlo, in attesa,
vicino alla
porta di casa. Mark doveva andare da lui quel giorno, Kristen lo
avrebbe accompagnato. Era in fibrillazione. E aveva aspettato,
aspettato. Sua madre aveva cercato di convincerlo ad andare a
sdraiarsi un po', ma lui aveva continuato ad aspettare piantato
lì.
La pancia gli aveva iniziato a brontolare a un certo punto, ma non si
sarebbe arreso, restando ad aspettare. Poi si era fatto più
stanco e
aveva chiuso gli occhi.
«Storpio!
Ehi, storpio».
Louie
aveva aperto gli occhi piano, inquadrando sua sorella Lara in piedi
davanti a lui.
«È
ora riposare, il tuo amico non verrà».
Tristemente,
aveva dovuto darle ragione. L'indomani non gli aveva rivolto parola,
anche se Mark aveva cercato di chiedergli scusa spesso e
insistentemente, aspettando l'attimo giusto per parlare e venendo
sempre interrotti. Entrare in bagno dopo di lui doveva essergli
sembrata una bella occasione, sgattaiolando con la sua sedia a
rotelle cigolante dai volontari ed educatori impegnati, aspettando
che il ragazzo che aveva accompagnato Louie si fosse allontanato,
eppure quest'ultimo aveva alzato gli occhi al cielo, mettendo su il
broncio appena lo aveva visto davanti alla porta.
«Sto
cercando di chiederti scusa».
«E
io di ignorarti! Stai ostacolando il mio intento, lo sai?».
Mark
lo aveva guardato attentamente mentre si fregava le mani con
insistenza sotto l'acqua calda, tentando di grattare via dalle dita
chissà quale sporco che vedeva solo lui. Allora si asciugava
e si
lavava di nuovo, non soddisfatto. Era costretto a farlo più
e più
volte dai suoi pensieri che lo facevano prigioniero, non gli
lasciavano respiro finché continuava a sentirsi sporco, e
Mark aveva
sospirato: adesso sapeva perché il ragazzo che lo
accompagnava al
bagno lasciava sempre che finisse da solo. «Sono
pulite… Louie».
«No,
non lo so-», aveva stretto i denti, mettendo altro sapone.
«Ti
aspetto».
«No»,
aveva girato il collo verso di lui, «Vai, non stare fermo
lì, mi dà
sui nervi».
«Io
ti do sui nervi».
«Anche
tu, è ovvio. Oh, ci sei arrivato?». Aveva preso
una grossa boccata
d'aria: dannate mani! Non erano mai abbastanza pulite! Continuava ad
appoggiarle sul lavandino, sporcandole di nuovo. Non ce la faceva
più. Doveva stare attento: bagnarle, insaponarle, tenere
d'occhio la
distanza col piano del lavandino, risciacquarle e… Avrebbe
dovuto
usare le mani per girare il pomello e chiudere l'acqua, sporcandole
di nuovo. Era abituato a farlo con le maniche del maglione tirate
fino alle dita, ma avrebbe dovuto farlo una volta asciutte. Si era
voltato, sentendo le ruote cigolanti di Mark avvicinarsi. Aveva
chiuso lui l'acqua. Che vergogna. Ora non avrebbe più avuto
il
coraggio di guardarlo negli occhi. «Non
avevo bisogno che-».
«Eri
in difficoltà, volevo aiutarti».
«Non
ne ho bisogno: posso fare almeno questo, da solo?».
Mark
aveva sospirato. «Possiamo parlare?», gli aveva
chiesto, «Prima
che arrivino a cercarci, ti prego».
«No».
«Louie».
«No»,
aveva digrignato i denti, stando attento a non agitarsi troppo.
«Devi
andartene».
«Perché?
Sei arrabbiato perché i miei genitori non mi hanno fatto
andare a
casa tua ieri o perché ti ho visto lavarti le mani? Cosa me
ne
importa, testa di rapa? Ti fissi, ripeti le cose, a volte sembri
scacciare via pensieri negativi, visualizzi tanto i dettagli come
se…
come se li rigirassi nella testa e… sei
ossessivo», aveva sorriso,
guardandolo abbassare gli occhi infastidito. «È
solo una cosa in
più».
«Cosa
in più?», finalmente era riuscito ad alzare la
testa,
mordicchiandosi un labbro. «Che sono-?».
«Strano?»,
Mark aveva scrollato le spalle. «Te ne vergogni, adesso? Hai
mai
notato che siamo tutti strani, qui dentro? Siamo diversi, strani,
reietti, l'ultimo vagone del treno», aveva sorriso e le sue
guance
rosse dovevano essere sembrate ancor più rosse.
«Lo so che vorresti
dirti che sei il peggiore perché ami metterti in mostra, ma
non ti
darò questa soddisfazione».
Louie
aveva pensato che non sarebbe più riuscito a guardarlo negli
occhi,
ma si sbagliava: lo aveva fissato a lungo e si era alzato dalla sedia
per essergli più vicino, facendosi forza e resistendo al suo
peso
tanto per abbassarsi verso di lui; Mark lo aveva tenuto per non
cadere e Louie si era sorretto sui braccioli della sua sedia a
rotelle cigolanti. I suoi occhi non erano totalmente nocciola:
nell'iride aveva delle chiazze più chiare intorno alle
pupille, e
altre più scure, più piccole. Louie si era
abbassato ancora,
rischiando di perdere forza. Le sue iridi sembravano il mosaico della
vetrata di una chiesa che, al centro, custodiva un buco nero. Erano
bellissimi, ma non poteva restare a fissarli oltre, sentendo la
fredda mano destra di Mark posarsi sul suo volto. Allora gli aveva
guardato le labbra: lisce, rosa; molto diverse dalle sue spaccate.
Così si erano baciati la prima volta.
Non
avrebbero avuto molto tempo, a due mesi dal primo bacio sarebbe
accaduto l'irreparabile. Una piccola gita fuori casa con l'inganno
dei genitori per conoscere un gruppo di hippy si sarebbe rivelata
l'inizio della fine: Louie si era sentito male ed era svenuto;
Kristen, la fidanzata di Mark con loro per accompagnarli, aveva
cercato aiuto; visto l'accaduto e non riscontrando miglioramenti nel
figlio, i signori Luthor avevano deciso di spostarlo in un'altra
struttura, privata, sperando sarebbe stato seguito a dovere. Louie e
Mark avrebbero avuto sempre meno tempo per rivedersi, prima della
fine.
«Ci
hanno tagliato i fondi», gli aveva detto Mark una sera.
Kristen lo
aveva accompagnato a casa Luthor, era riuscita a convincere i
genitori: allora i Luthor erano una famiglia benestante piuttosto
malvista da alcuni, a causa di quella fabbrica di armi.
«Stiamo
raschiando il fondo del barile, ma ce la faremo. Lo sai che non
è da
noi arrenderci».
Louie
avrebbe tanto voluto fare qualcosa per loro, magari con qualche soldo
in più si sarebbero risollevati, ma suo padre non voleva
ascoltarlo.
Aveva chiesto a sua sorella Lara ma lei, impegnata a scrivere
un'altra di quelle lettere, lo aveva sbattuto fuori. Allora si era
rivolto a suo fratello Levi, l'unico che il genitore considerava
veramente, dopotutto, che gli aveva promesso che ci avrebbe parlato.
Felice della cosa, Louie era riuscito a convincere sua madre a
lasciar andare a casa tutti i suoi amici dell'associazione,
purché
se ne sarebbero andati via presto per non causargli stress, e avevano
festeggiato con bibite e dolcetti. Almeno per la maggior parte di
loro.
A
un certo punto, facendo l'occhiolino a Mark, Louie aveva fatto
tintinnare un bicchiere per prendere l'attenzione del gruppo. Sua
madre lo aveva ammonito da lontano e lui aveva cercato di ignorarla.
«Questa è una festa per il futuro. Il nostro
futuro. Dunque,
signori, sognate in grande e confidatemi le vostre sfrenate
ambizioni». Tutti lo avevano fissato e lui aveva sorriso con
fierezza, alzando il mento: «Cosa volete fare da grandi?
Salvare il
mondo? Ditemi». Non avrebbe accettato pessimismi, quella
volta. Ma
nessuno sembrava sapere cosa dire, così era stato Mark a
sciogliere
il ghiaccio:
«Io
sarò un tassista». Tutti a parte Louie si erano
messi a ridere e
Mark era arrossito ancora. «Credete che non potrei riuscirci?
Quando
sarò adulto, la sedia a rotelle non sarà
più un ostacolo e le
macchine saranno facili da guidare. Potrei vedere tanti posti nuovi
solo accompagnando le persone da un posto a un altro e rendendole
felici».
«Magari
le macchine voleranno», aveva suggerito Louie e Mark gli
aveva
sorriso.
I
ragazzi erano stati in silenzio solo altri pochi istanti,
sorridendosi a vicenda.
«I-Io
un giorno sarò u-un maestro», aveva confidato a
quel punto uno di
loro, nascondendo il sorriso imbarazzato dietro una mano ricurva.
«Io
magari il parrucchiere», aveva preso voce un altro,
«Le mie gambe
non vanno, ma le mie mani…».
«Io
ancora non lo so», aveva fatto una smorfia con la bocca un
altro
ragazzo, appiattendosi al tavolo.
«Tu
potresti fare l'artista», gli aveva suggerito Louie,
indicandolo con
orgoglio. «Le tue dita sono storte, ma disegni lo stesso, no?
Lo fai
sempre, hai già trovato cosa fare e i tuoi dipinti sono
bellissimi».
Il
ragazzo aveva sorriso, arrossito, girando le dita per aria e
fissandole.
E
c'era chi avrebbe voluto fare il sub, chi il ballerino, chi avrebbe
voluto lavorare nel piccolo negozietto di famiglia come i fratelli
più grandi, chi avrebbe voluto essere padre. Il desiderio
aveva
aperto la strada ad altre tipo di ambizioni e i ragazzi si erano
scatenati fino a tirare fuori le cose più assurde, come chi
avrebbe
voluto essere un fiocco di neve solo per sapere come ci si sentiva a
volare giù dal cielo. Louie era stanco ma soddisfatto: era
stata la
giornata più bella di tutta la sua vita.
«Voi,
amici miei, cambierete il mondo», aveva detto a testa alta a
festa
finita e le famiglie erano passate a prenderli.
Anche
Kristen era andata a prendere Mark. «Grazie per la bella
serata, da
parte sua», si era fermata per parlargli, davanti alla porta.
Louie
aveva notato come la ragazza si attorcigliasse una ciocca dei capelli
scuri e lisci con le dita: ripeteva all'infinito quel processo ogni
volta che parlava con lui; era imbarazzata.
«Mark
è sempre felice con te e non c'è miglior regalo
che potresti fargli
se non restargli vicino. Ti ringrazio». Si era sistemata la
coroncina gialla e aveva preso a spingere la carrozzina del suo
fidanzato, dopo avergli dato un bacio. I due ragazzi si erano
guardati a lungo, prima che la signora Luthor chiudesse la porta per
far andare a riposare il figlio.
Qualche
giorno dopo, Levi aveva mantenuto la promessa fatta al fratello
minore e aveva parlato a suo padre per aiutare l'associazione, ma
lui, non convinto, lo aveva lasciato andare dicendogli che ci avrebbe
pensato. Sarebbe stato troppo tardi e, una mattina di quelle, una
scarpata avrebbe portato via tutti i loro sogni.
Sono bastate queste poche pagine per farmi shippare Louie e Mark
all'ennesima potenza, mentre scrivevo, ma così
com'è finita è
terribile…
Come
state, people?
Ci
tengo prima di tutto a precisare una cosa: il termine “storpio”
è usato solo ed esclusivamente in questo contesto, e non
esiste
altro modo in cui verrà utilizzato: Louie lo usa su di
sé e gli
altri perché è un po' stronzetto e il sarcasmo e
l'ironia solo la
sua arma per via della sua condizione, e Lara lo usa sul fratello
perché è appunto suo fratello e hanno un rapporto
loro, non lo
farebbe con nessun altro. Non è usato in modo da ferire
qualcuno; se
qualcuno che dovesse leggerlo si infastidisse mi dispiace veramente,
è usato solo ed esclusivamente in questo contesto.
E
ora… rieccoci! Sono stata via a lungo ma, come scritto in
precedenza, tornerò ad assentarmi perché scrivo
in modo discontinuo
e non posso fare altrimenti, mi dispiace! Ma fintanto che ci
sono…
aaah, si
ricomincia con un bel e lungo stand alone! E sì, gli
altri minicapitoli saranno più lunghi…
Lo
so, magari come ritorno vi aspettavate qualcos'altro, me ne rendo
conto, anche se vi avevo preparato con la prefazione, e dopotutto
eravamo arrivati qui e così…
Spero
vi sia piaciuto ugualmente e che abbiate apprezzato questo
nuovo scorcio, il primo passo verso l'inizio di qualcosa di grande, e
che abbiate riletto almeno il capitolo 64 prima di approcciarvi a
questo perché altrimenti potrebbe essere dura ricollegare i
fili, ma
in ogni caso:
Chi
è Louie Luthor? Presentato oggi per la prima volta, lo
abbiamo
già sentito nominare nei capitoli scorsi, sia
perché John Jonzz
aveva iniziato a chiedersi di lui investigando sull'organizzazione,
sia perché l'Angel Children's Memorial, la piazza dove si
sono
incontrate le ragazze, è stata fatta costruire da lui in
memoria dei
ragazzi persi in quell'autobus. Proprio in quell'autobus. È
il padre
di zia Lorna, che abbiamo conosciuto al matrimonio di Lillian e
Lionel. Capelli neri, un po' inacidita; ha aiutato Lillian a
prepararsi al suo matrimonio, è cugina di Lionel, e nel
presente era
anche al matrimonio di Lillian ed Eliza. Ha mandato via John Jonzz
quando lui le ha chiesto del padre e pare, PARE da come ne parlavano
le ragazze in piazza, che riserbi dell'astio per i Luthor. Che
sarà
successo…? Sarà vero? Louie è il
fratello minore nato malato di
Lara Luthor. Vi ricordate la tenera zia Lara sempre al matrimonio di
Lillian e Lionel? Proprio lei, ma molto prima che diventasse la
tenera zia Lara. Avremo
modo di conoscerla. Ed è anche il
fratello minore di Levi Luthor, il figlio di mezzo. Levi lo
conosciamo leggermente meglio, si è visto in alcuni capitoli
ed è
stato nominato diverse volte: è il padre di Lionel, il signor
Luthor che ha
accolto Lillian nella sua famiglia e che voleva
come sua erede, non scordiamocelo, lo ha detto Zod. Qui deve ancora
diventare il signor
Luthor, che
è invece suo padre. Quindi
Levi è il nonno di Lena morto quando suo fratello Lex aveva
nove
anni. Tutto torna, segnatevele queste cose XD Oh, vi avevo scritto,
tempo fa, che questi personaggi sarebbero tornati…
Perché
è importante Louie Luthor? Lo vedremo.
Ah,
un'altra cosa: Louie ha di fatto una malattia mentale, oltre al
suo fisico debilitato. E in realtà, anche questo
c'entra…
Spero
con tutto il mio cuore di non aver trattato male la tematica
disabilità.
Dunque
magari si è capito, ma se non è così
lo dico ora, che
questo capitolo, tutti questi
minicapitoli del macrocapitolo
65, parlando delle parti solo al presente, sono ambientate nella
stessa giornata dello scorso capitolo. Vedremo i pezzi che ci
mancano; ad esempio qui abbiamo la mattina poco prima che Kara
andasse in piazza, lo dice il messaggio a Megan. Ricordiamo che
Maggie è arrivata dopo, che Kara doveva andare da sua zia, e
che
magari lei e Lena si sono ritrovate più tardi, a fine
serata…
Spero
che tutto questo non sia troppo incasinato XD Dai prossimi
minicapitoli le parti al presente saranno più sostanziose e
vedranno
personaggi diversi.
E
nulla, spero vi sia piaciuto anche se si va a esplorare un passato
non così passato ;)
Ci
rileggiamo con il minicapitolo 65.2
Riscatto: La nuova società
sabato 20! Non mancate! (Sì, i minicapitoli, a meno di
variazioni
dell'ultimo minuto, saranno pubblicati uno a settimana!)
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