Bella
gente,
mi
fa un gran piacere che qualcuno sia passato da queste parti a dare
un’occhiatina^^
Ringrazio
moltissimo tutti quelli che mi hanno messo in qualche lista, e
ovviamente ringrazio ancor di più chi è stato così gentile da
lasciarmi un commento.
Capitolo
2
Il
tenente von Knobelsdorff passò in rassegna per l’ennesima volta
l’arredamento della stanza in cui si trovava: una scrivania, un
orologio a pendolo, un quadro, uno schedario, un paio di sedie.
Sul
piano della scrivania c’erano dei fogli dattiloscritti, un
portapenne, una scatola di legno e un posacenere.
Sollevò
lo sguardo sull’orologio, constatando che era già passato un
quarto d’ora da quando lo avevano fatto accomodare in quello strano
ufficio. Tese l’orecchio: l’unico suono che si sentiva era il
lieve ticchettare della pendola e forse una vaga eco di voci lontane.
Si
girò verso la porta da cui era entrato, quasi aspettandosi di vedere
finalmente la maniglia abbassarsi, ma essa rimase immobile.
Emise
uno sbuffo infastidito. Non che avesse mai avuto modo di farsi
un’idea precisa sullo spionaggio, ma di sicuro non se l’era
immaginato così. Quello che vedeva gli ricordava piuttosto un
lavoro da contabile, o qualcosa del genere. Uffici, carte. Niente
che avesse a che fare con l’azione o il rischio. Per quale motivo
si erano accertati che sapesse pilotare perfettamente un aeroplano,
allora?
Aggrottò
le sopracciglia, sollevò una mano a sfiorare la medicazione che
ancora gli attraversava la fronte, poi si guardò intorno di nuovo.
Tutto era così immobile da far pensare a un edificio abbandonato. Si
chiese dove fosse la gente di cui gli pareva di sentire la voce ed
ebbe la tentazione di far sentire la propria, di voce, ben alta, in
modo da convincere chi di dovere a mostrarsi.
Passò
altro tempo.
Von
Knobelsdorff ripercorse la stanza con lo sguardo, schedario,
orologio, quadro, scrivania. Orologio, scrivania, quadro, schedario.
La porta era sempre chiusa, il silenzio sempre perfetto, a parte la
misteriosa impressione di un brusio lontano.
Si
sporse verso la scrivania, cercò di leggere i fogli che si trovavano
sul sottomano. Gli parve di distinguere il suo nome.
Di
nuovo aggrottò le sopracciglia. Allungò una mano per prenderli, ma
all’ultimo interruppe il gesto. Si alzò, aggirò la scrivania e si
piegò sul dattiloscritto: si parlava effettivamente di lui, si
prendeva in considerazione la possibilità di sacrificarlo assieme
all’aereo, se fosse stato necessario per la riuscita della
missione.
A
quel punto afferrò le carte, le scorse febbrilmente, poi di nuovo si
guardò intorno.
Una
giovane donna seduta a un tavolo ingombro di documenti chiese: “Cosa
sta facendo?”
Un
uomo alto e smilzo, dai radi capelli biondicci, vestito di scuro,
raggiunse la parete, si sollevò sulle punte dei piedi per guardare
attraverso uno spioncino e disse: “Si è alzato.”
“Alla
buon’ora. Sta toccando qualcosa?”
“Per
ora solo le carte.”
“Uhm.
È difficile rilevare le impronte digitali dalle carte. Le foto
gliele hai fatte?”
L’uomo
annuì. “Certo, come al solito. Di fronte e profilo.”
La
giovane donna si alzò e lo raggiunse. “Fammi vedere,” gli disse.
L’altro le cedette il posto e spinse verso di lei un basso
sgabello. Ella vi salì sopra con agilità, quindi scrutò a lungo
attraverso lo spioncino. Infine abbandonò l’osservazione, tornò
al tavolo e nella congerie di fogli che lo ricopriva individuò un
fascicolo. Lo estrasse e cominciò a sfogliarlo. “Sta ancora
leggendo?” chiese poi, senza sollevare gli occhi dalle carte.
L’uomo
tornò allo spioncino, scrutò e rispose: “Sta girando su e giù
come una specie di leone in gabbia. Che cosa gli hai scritto su quei
fogli?”
“Il
solito.”
“Per
me se ne va.”
“In
base a quello che c’è nel suo dossier, direi proprio che non lo
farà. Ci sfiderà, piuttosto, vorrà dimostrarci che se la missione
riuscirà, sarà solo grazie a lui.” La donna fece una pausa, poi
soggiunse: “Di sicuro prenderà a male parole la prima persona che
entrerà nella stanza.”
“Vado
io?” propose allora l’uomo. “Oppure posso mandare Andreas, se
vuoi.”
L'altra
fece una risatina e rispose: “Dimentichi che ho affrontato uomini
decisi a uccidermi, armi alla mano.”
“Vero
anche questo,” considerò l'altro.
“Cosa
vuoi che mi faccia quel bel galletto?” Senza alzarsi dal tavolo, la
donna volse lo sguardo in direzione dello spioncino e disse: “Bello
è bello, in effetti. Quasi troppo.”
“Si
fa notare,” ammise l'uomo.
“Appunto,
e nella nostra professione non farsi notare è fondamentale.”
“Però
anche il Werwolf è così.”
La
donna annuì, poi disse: “Ma il Werwolf è uno vecchio del
mestiere. Sa come scomparire in mezzo a una folla, sa come rendersi
perfettamente anonimo, anche se...” Si interruppe e alzò gli occhi
al cielo con un sospiro.
A
quel punto, nonostante l'insonorizzazione, al di là della parete
esplosero dei clamori. “C'è nessuno?” stava dicendo iroso il
giovanotto, “Si può avere udienza, in questa specie di ospedale
abbandonato, o mi sono sorbito il viaggio dalla Piccardia fino a
Berna solo per fare anticamera come un valletto?”
I
due si scambiarono un'occhiata.
“Io
sono un pilota!” si fece udire nuovamente la voce di von
Knobelsdorff, “Devo combattere contro gli aviatori nemici. Ma come
posso farlo, se mi tenete lontano dal fronte ad aspettare chissà che
cosa?”
Si
sentì il rumore della porta che si apriva.
“Quello
se ne va,” constatò l'uomo preoccupato. Gettò uno sguardo alla
donna, che invece appariva tranquillissima e anche vagamente
divertita dallo sfogo del giovanotto.
Ella
scosse la testa e rispose: “È solo offeso perché nessuno gli dà
udienza.”
L'altro
alzò le spalle. “Per me non è adatto.”
“Al
contrario,” spiegò la donna, “ha il carattere perfetto per
questa missione: uno troppo remissivo si farebbe ammazzare o prendere
prigioniero.”
“Sicura?”
“Vado
da lui. Vedrai come si ammansisce subito, quando gli racconto quello
che dovrà fare.”
Affacciato
sul corridoio, von Knobelsdorff si guardava intorno come un torello
alla ricerca di qualcosa da incornare.
Mezz'ora
ad aspettare, e quando finalmente si era deciso a dare un'occhiata
alle carte sulla scrivania aveva scoperto cosa c'era in serbo per
lui: lo consideravano una pedina sacrificabile, un marmittone di
nessuna importanza, buono solo a pilotare un velivolo che avrebbe
attirato il fuoco nemico mentre la vera operazione di spionaggio si
svolgeva altrove. Uno zimbello, in pratica.
Non
sarebbe diventato un Asso né avrebbe ricevuto il Pour le Mérite,
perché per certe cose non c'erano né gloria né riconoscimenti.
Udì
dei passi.
Si
volse in quella direzione e vide che una giovane donna gli si stava
avvicinando. Rimase perplesso: era certo che fino a un istante prima
il lungo corridoio fosse completamente deserto.
“I
miei rispetti, signorina,” la salutò comunque formale.
La
donna lo raggiunse e a quel punto von Knobelsdorff si rese conto che
era la stessa che aveva visto al campo di Douai. “Ci siamo già
incontrati,” le disse.
“Ha
buona memoria,” apprezzò lei.
Il
giovanotto mantenne il silenzio.
Ella
lo oltrepassò, raggiunse la porta dell'ufficio e propose: “Vogliamo
entrare?”
“Per
fare che cosa, signorina?” la rimbeccò lui senza muoversi, “Per
farmi spiegare l'importantissima
missione a cui dovrò prendere parte? Ho già visto di che si tratta,
grazie.”
La
donna sbatté gli occhi perplessa. “Lei non è un soldato?”
s'informò.
“Certo
che lo sono.”
“E
dunque, non è suo dovere eseguire gli ordini?”
Von
Knobelsdorff si irrigidì. In tono asciutto rispose: “Quelli dei
miei superiori, certo. A lei, signorina, obbedisco solo in qualità
di gentiluomo.”
“E
allora, come gentiluomo, mi segua, prego.”
Andò
alla scrivania, l'aggirò e vi si sedette. Prese i fogli che erano
rimasti sparsi in giro, li riordinò con calma, quindi chiese: “Che
gliene pare, tenente?”
Il
giovane ufficiale rimase in silenzio. Osservava la donna: minuta,
graziosa, di età indefinita ma giovane, forse addirittura molto
giovane. Modi autorevoli, dietro l'apparenza fragile, gesti sicuri,
nessuna esitazione nel parlare. “Qual è il suo nome?” le chiese.
Per
tutta risposta, lei gli indicò la sedia che si trovava di fronte
alla scrivania e disse: “Si accomodi, tenente.”
Il
giovane aggrottò le sopracciglia. “Non mi accomodo proprio da
nessuna parte, se non so con chi sto parlando.”
La
donna annuì grave, quindi gli rispose: “Se non le dico nulla,
tenente, è per la sicurezza della Patria che entrambi abbiamo
giurato di servire. Qualora cadesse in mani nemiche, meno
informazioni avrà e meno ne potrà rivelare.”
“Io
non rivelerei mai nulla.”
“Ne
è così sicuro?”
Di
nuovo calò un silenzio greve, rotto solo dal ticchettare della
pendola. Si udì un lieve fruscio quando la donna raccolse le carte
che erano rimaste sul sottomano e le fece scivolare in un cassetto.
Infine,
von Knobelsdorff chiese: “E lei è così sicura che io le obbedirò
come una specie di scimmia ammaestrata, se non mi dà motivi per
fidarmi di lei? Potrebbe essere chiunque, per quello che ne so, anche
una spia nemica che mi sta ingannando per convincermi a lavorare per
la sua nazione.”
“Si
deve fidare,” fu la risposta.
Senza
lasciarsi impressionare, l'ufficiale replicò: “Signorina, se il
meccanico mi dice che ha riempito serbatoio del mio aereo, io vado
comunque a controllare di persona, perché dalla presenza o meno
della benzina dipende la mia vita. È chiaro il concetto?”
Ignorò
il gesto della sua interlocutrice, che ancora una volta lo invitava a
sedersi, arretrando addirittura di un passo.
“Tenente...”
Von
Knobelsdorff scosse la testa. “È inutile, signorina. Per restare
nella metafora di prima, o mi permette di controllare personalmente
che il serbatoio sia pieno, o non decollo neppure.”
“Lei
sta creando problemi.”
“Io
faccio solo quello che ogni ufficiale che abbia un minimo di senso di
responsabilità farebbe: chi è lei? Cosa vuole da me? A che titolo?
Chi sono i suoi superiori? Che garanzie ho che lei stia servendo la
stessa Patria che servo io?”
A
quel punto, si aprì la porta alle spalle dell'ufficiale. Egli si
girò di scatto e si trovò di fronte un uomo che poteva avere fra i
trenta e i quaranta anni, anche se portati decisamente male. Era
smilzo, non tanto alto, con le spalle curve e una giacca nera un po'
lucida sui gomiti. Lo sguardo chiaro, apparentemente slavato e
scialbo, lasciava trasparire a una seconda occhiata una durezza
metallica.
“Che
succede?” chiese in tono sommesso il nuovo arrivato, e von
Knobelsdorff ebbe l'impulso di giustificarsi come avrebbe fatto con
un istruttore dell'Accademia. Rimase in silenzio, arretrando come un
cavallo riottoso. Lo fissò con diffidenza.
“Qualcosa
non va?” volle sapere l'uomo. Lo sguardo assunse una nota di
sollecitudine premurosa, a von Knobelsdorff ricordò un albergatore
alle prese con un cliente insoddisfatto della stanza.
Fu
la donna a rispondere. “Il tenente non si fida di noi, Matthesius.”
L'uomo
annuì grave. “Già, certo,” disse poi, massaggiandosi il mento
con una mano dalle dita lunghe e nervose, “l'avevo previsto.”
Sollevò lo sguardo sul tenente, quindi soggiunse: “Per lei
potremmo essere chiunque, non è vero? Anche agenti di potenze
nemiche, magari.”
“È
così,” rispose senza scomporsi il giovane ufficiale.
“L'avevo
previsto,” ripeté Matthesius, come tra sé e sé. Poi, rivolto
all'ufficiale: “Vuole seguirmi, tenente?”
Von
Knobelsdorff arretrò di un altro passo, arrivando quasi con la
schiena contro la parete. Sotto le sopracciglia aggrottate, i suoi
occhi verdi assunsero una fosforescenza felina. “Per andare dove?”
ringhiò.
L'altro
si limitò a una risatina. “Venga, Maximilian,” lo invitò poi,
“non avrà paura di un omino come me, spero.”
Il
giovanotto avrebbe voluto rispondere che con una pistola in mano
anche l'omino più insignificante del mondo avrebbe potuto diventare
mortalmente pericoloso, ma sotto lo sguardo pacato e vagamente
divertito del signor Matthesius, di colpo tutte quelle recriminazioni
gli parvero fuori luogo come le bizze di un bambino. Si limitò ad
abbandonare la parete in silenzio.
Uscirono
in fila indiana. Per primo Matthesius, rapido e agile come un
folletto, poi von Knobelsdorff. Da ultima veniva la giovane donna,
con un passo così leggero che quasi non produceva alcun rumore
sull'impiantito di assi di legno.
Il
tenente si sorprese ad ascoltare il suono dei propri passi, marziale,
appesantito dagli stivali, e a valutarlo di colpo come qualcosa di
inopportuno, fuori luogo esattamente come poco prima lo erano state
le sue proteste.
Giunsero
a una stanza in cui si trovavano diversi apparecchi telefonici e un
paio di telegrafi. Uomini in borghese, dall'aria di impiegati, erano
affaccendati intorno agli strumenti. Von Knobelsdorff udì uno di
essi condurre una conversazione telefonica in francese, annotando di
tanto in tanto appunti su un foglio. Un altro parlava con
disinvoltura in una lingua scandinava, compilando nel corso della
conversazione una scheda.
Il
ticchettio delle macchine da scrivere sembrava grandine contro i
vetri.
La
voce di Matthesius lo richiamò bruscamente alla realtà: “Venga
avanti, prego.”
I
tre entrarono nella stanza, un uomo si fece loro incontro. La giovane
donna disse: “È per quella chiamata, Franz.”
“Certo,”
rispose l'altro, quindi fece cenno di seguirlo.
Il
frastornato ufficiale fu condotto attraverso un labirinto di
scrivanie ingombre di carte e uomini che parlavano al telefono nelle
più diverse lingue. Telegrafi e macchine da scrivere funzionavano a
pieno ritmo, apparecchi squillavano un po' ovunque.
Alla
fine il gruppetto raggiunse un angolo appartato, nel quale la
confusione della stanza giungeva vagamente ovattata. Il signor
Matthesius a quel punto indicò un apparecchio telefonico posto al
centro di una scrivania. Come in risposta a quel gesto, esso cominciò
a squillare. L'uomo si voltò verso von Knobelsdorff e gli disse:
“Risponda, su.”
“Io?”
chiese il giovane perplesso.
“È
per lei.”
Il
tenente sollevò la cornetta, se la portò all'orecchio. Si piegò
verso il ricevitore e in tono esitante disse: “Pronto?”
Rispose
la voce di von Stade: “Immaginavo che mi avrebbe chiamato.”
“Cosa?”
“Sì,
mi permetta di dire che conosco i miei polli. I miei aquilotti, in
questo caso. Immaginavo sarebbe stato diffidente di fronte alle
proposte della signorina.”
Von
Knobelsdorff fece guizzare lo sguardo dalla giovane donna all'uomo di
nome Matthesius, e poi di nuovo verso la donna. “Signore, chi sono
queste persone?” chiese.
Giunse
lapidaria la risposta: “Meno cose sa, meno rischierà di
rivelarne.”
Il
giovane aggrottò le sopracciglia. “Io non rivelerei mai nulla.
Morirei, piuttosto.”
“Noto
che non è cambiato, tenente. Questo va molto bene, perché i signori
hanno cercato in tutte le Jasta, compresa la 11[1], per trovare un
carattere come il suo.”
Piccato,
von Knobelsdorff chiese: “Perché, come sarebbe il mio carattere,
signore?”
Il
maggiore fece una breve risata, quindi rispose: “Faccia quello che
le dicono i signori, tenente, sono persone della massima fiducia e
hanno bisogno di un pilota abile e coraggioso per una missione
importante.”
“Ma
signore...”
“A
presto, tenente.”
La
comunicazione si interruppe.
Von
Knobelsdorff abbassò adagio la cornetta, quindi fissò Matthesius e
la donna come se li vedesse per la prima volta.
“È
convinto adesso?” gli chiese la giovane signora.
L'ufficiale
rimase in silenzio.
§
Il
tenente von Knobelsdorff scostò appena una tendina e guardò fuori.
La campagna francese si estendeva leggermente ondulata a perdita
d'occhio. Qua e là, macchie di alberi spezzavano la monotonia del
paesaggio.
La
giovane donna, irriconoscibile in abiti da contadina, con i capelli
di un colore diverso e le guance pitturate in modo da sembrare
rubizze, seduta al tavolo della cucina stava decodificando un
messaggio. Aveva accanto a sé una casseruola, in cui avrebbe
infilato rapidamente ogni cosa se qualcuno fosse entrato
all'improvviso.
“Una
volta non riuscii a distruggere subito le mie note e fu un vero
problema,” disse, senza alzare gli occhi dal lavoro. “Dovetti
scappare a nuoto in un fiume, venni ripescata da una chiatta.”
Il
tenente, che a sua volta vestiva modesti abiti borghesi, senza
distogliere gli occhi disse: “Davvero?”
“Ero
in macchina con un ufficiale belga quando d'un tratto mi sfuggì un
foglio di appunti. Feci fermare la macchina, cercai di recuperarlo,
ma lui fu più svelto di me. Fece finta di nulla, disse che il foglio
gli era sfuggito, ma io capii che ne aveva visto il contenuto. Al
primo villaggio fermò la vettura vicino a un gruppo di gendarmi, per
consegnarmi a loro. Io approfittai del fatto che era sceso per
parlare con il comandante della pattuglia, saltai al posto di guida e
diedi gas. Purtroppo all'epoca non sapevo ancora condurre la
macchina, per cui dopo poco mi schiantai contro un albero. Saltai
giù, scappai in un bosco, raggiunsi un fiume. Mi tolsi i vestiti e
me li legai sulla schiena, quindi mi buttai in acqua e cominciai a
nuotare. Per fortuna venni ripescata da una chiatta olandese, che mi
portò in salvo.”[2]
Von
Knobelsdorff si voltò verso di lei. Non stentava a credere che il
fatto fosse accaduto realmente. Erano bastati pochi giorni a contatto
con lo spionaggio per cambiare completamente ogni sua idea in
proposito. In primo luogo, aveva scoperto che le spie erano ovunque,
chiunque poteva esserlo: un commerciante, un operaio, un sacerdote,
donne, uomini, ragazzi. Aveva sentito dire che i russi adoperavano
persino i cani, anche se non riusciva a figurarsi in che modo.
Secondariamente,
aveva notato che erano proprio le persone più insignificanti quelle
che spesso si rivelavano più pericolose. La giovane donna, che nelle
sue vesti di contadina francese si faceva chiamare Marie, sembrava
poco più di una ragazzina, eppure aveva affrontato in svariate
occasioni i soldati nemici, uscendo sempre vincitrice dagli scontri.
Si
chiese quante volte aveva avuto a che fare con spie, tedesche o
straniere, senza saperlo. Chissà, forse anche l'ostessa del bistrot
dove andavano ogni tanto alla fine della giornata di volo era una
spia. Magari fingeva di non sapere il tedesco e poi invece ascoltava
minuziosamente le conversazioni degli ufficiali e le riferiva ai suoi
superiori.
Tornò
a guardare fuori. La casa in cui l'avevano portato, ufficialmente
dimora di una famiglia di contadini, era in realtà gestita dallo
spionaggio tedesco. Tutti i suoi abitanti erano spie e si occupavano
di raccogliere e smistare la maggior parte delle informazioni che
venivano raccolte in Francia.
Il
fienile non ospitava bestie, ma apparecchi di ogni genere. Più
lontano era stato allestito quello che da fuori appariva come un
capanno per accogliere la fienagione, mentre in realtà era un hangar
nel quale si trovava l’aereo che avrebbe dovuto usare. Due uomini
stavano allestendo la pista da cui sarebbe decollato.
“Quando
partirò?” chiese, senza distogliere gli occhi dall'aia.
Alle
sue spalle, la donna rispose: “Stiamo aspettando un comunicato.”
“Da
chi?”
“Da
lui.”
Von
Knobelsodrff alzò gli occhi al cielo. “Quello che dovrò andare a
recuperare?”
“Precisamente.”
Si
girò a fissare la sua interlocutrice. “Ma lui me lo dirà, come si
chiama?”
Lei
alzò le spalle. “Ne dubito, è un agente troppo esperto.” Fece
una breve pausa, che utilizzò per piegare accuratamente il foglio
che aveva appena finito di compilare, quindi proseguì: “Del resto,
vi vedrete al massimo per un'ora, poi lei tornerà alla sua unità e
si comporterà come se tutto questo non fosse mai accaduto.”
Il
tenente stava per replicare quando entrò nella cucina un uomo che
trasportava due secchi pieni d'acqua.
Il
nuovo arrivato posò i due recipienti da una parte, poi si voltò
verso di lui e con la massima naturalezza disse: “È opportuno
salvare le apparenze, non le pare?”
“Nel
senso che dovete fingere di essere una famiglia di contadini
francesi?”
“Precisamente.
Se qualcuno stesse tenendo d'occhio questo posto, cosa vedrebbe?
Monsieur Escargot che porta in casa l'acqua per cucinare la
bouillabaisse.” Fece una risatina. “Venga,” disse poi, “andiamo
a dare un’occhiata.”
“Dove?”
“Ma
che domande: le presento il suo Bucefalo.”
Raggiunsero
quello che a prima vista sembrava un capanno di assi. Nella
costruzione, che in realtà era un allestimento provvisorio
realizzato in stoffa dipinta, si trovava un aeroplano coperto da un
telo.
Subito
interessato, il tenente si avvicinò al velivolo. “Cos'è?”
chiese.
Alle
sue spalle, l'altro rispose: “Albatros C.III.”
Von
Knobelsdorff lo percorse dapprima con lo sguardo, quindi chiese: “Si
può togliere questo lenzuolo?” Senza attendere risposta ne afferrò
un lembo e lo fece scivolare a terra. Comparve un biposto da
osservazione di un uniforme color grigio chiaro, senza marche,
emblemi o segni distintivi di alcun genere. Il tenente prese a
girargli lentamente intorno. “Velocità massima?” chiese.
“140
chilometri orari.”
“Autonomia?”
“550
chilometri.”
“Che
motore ha?”
“Mercedes-III,
raffreddato a liquido.”
Il
tenente continuava a girare intorno all'aereo. Toccò la fusoliera,
vi fece scorrere sopra la mano come avrebbe fatto con la groppa di un
cavallo. “Suppongo che un volo di prova sia fuori discussione?”
s’informò poi.
“Impossibile,
già è stato difficile farlo arrivare qui senza che nessuno se ne
accorgesse.”
“Lo
immaginavo,” replicò l'ufficiale con un’alzata di spalle, quindi
montò sull'ala e si sporse all'interno della carlinga per vedere il
quadro comandi. Si protese ad afferrare la barra e la spostò da una
parte e dall'altra, poi gettò un'occhiata alla Spandau MG08 montata
nell'abitacolo dell'osservatore e disse: “Le armi saranno cariche,
spero.”
“Ovvio.”
“La
persona che dovrò trasportare sa maneggiarle?”
Con
una risatina, l’uomo rispose: “Meglio di quanto lei sappia
maneggiare quella che le ha fornito madre natura, tenente.”
Una
volta completata l’ispezione del velivolo, l’ufficiale tornò in
casa e salì al piano superiore. Andò nella camera che gli era stata
assegnata, dispiegò sul letto una carta della zona e vi sovrappose
la sottilissima mappa che a suo tempo i signori dello spionaggio
avevano consegnato al maggiore von Stade.
La
studiò in silenzio per un po', quindi recuperò bussola, compasso e
regolo e cominciò a tracciare la rotta per la navigazione.
A
livello tecnico era tutto così semplice che persino un pilota con
venti ore di volo avrebbe potuto portare a termine la missione con
facilità.
Riguardò
la mappa. Forse non proprio venti, dal momento che avrebbe dovuto
atterrare su un campo sconosciuto e non preparato. Niente di
preoccupante, comunque, se paragonato alla più innocua delle
missioni di guerra.
Lavorò
un po’ sulla navigazione – decisamente semplice, praticamente una
linea retta – poi abbandonò sul letto gli strumenti e si alzò in
piedi. Fece qualche passo nella stanza.
Nonostante
tutto, c’era qualcosa che non gli quadrava. Erano proprio le cose
più semplici, del resto, quelle che nascondevano i rischi maggiori.
Il
primo elemento che lo lasciava perplesso, ad esempio, era proprio
l'uso dell'aereo. La donna era stata più volte dietro le linee
nemiche, eppure non aveva mai fatto ritorno a bordo di un
apparecchio.
Addentrarsi
per chilometri nella zona controllata dai francesi era ovviamente un
rischio, così come lo era attraversare la linea del fronte. C'erano
zone tranquille, chiaramente, anche zone così tranquille che quasi
non sembrava esserci nemmeno la guerra, ma la guerra comunque c'era,
e di certo era molto più difficile nascondere un aeroplano in volo
che una persona a piedi. Di nuovo ripensò a quello che la giovane
donna gli aveva raccontato: era fuggita in mille modi dal territorio
nemico, una volta addirittura in treno come una viaggiatrice
qualsiasi, e non era mai stata scoperta.
Perché
quindi organizzare un volo? La risposta più logica era una: avevano
bisogno di fare più in fretta possibile, e niente era veloce come un
aeroplano.
Guardò
verso la porta, e attraverso essa fissò le scale che conducevano al
piano inferiore. Di certo non avrebbe avuto alcun senso scendere di
nuovo in cucina e chiedere spiegazioni alla donna. Come a ogni sua
domanda, la risposta sarebbe stata che meno sapeva, meno avrebbe
eventualmente rivelato al nemico.
Ma
se potevano evitare di dargli informazioni, di certo non gli potevano
togliere la facoltà di ragionare. Perché era necessario fare in
fretta? Perché sicuramente quel tizio aveva con sé qualcosa di
molto importante, qualcosa che era opportuno far arrivare al quartier
generale dello spionaggio tedesco il prima possibile, al fine di
evitare che i nemici tentassero di riprenderselo indietro.
Come
la Germania aveva agenti segreti, del resto, poteva immaginare che li
avessero anche le altre nazioni, e se quell'individuo era giunto in
possesso di qualcosa che aveva tutta quella rilevanza ai fini della
condotta bellica, di certo spie abili quanto o forse più di lui
erano sulle sue tracce.
Con
uno sbuffo di impazienza abbandonò la navigazione e volse lo sguardo
fuori dalla finestra. Il cielo era terso, le fronde immobili facevano
capire che non c'era un filo di vento. Ripensò agli altri piloti
della sua Jasta, si chiese cosa stessero facendo. Volavano,
probabilmente, e ottenevano vittorie. Di certo anche Hoffmeyer ormai
doveva aver acquisito i fatidici otto abbattimenti.
Volse
nuovamente lo sguardo al cielo: una volta tornato alla sua unità,
sarebbe stato l'unico senza alcuna decorazione al valore, se non
quelle che si era guadagnato come ufficiale degli ulani. Si chiese se
il servizio che stava per svolgere sarebbe stato premiato con qualche
riconoscimento, ma era quasi certo che l'oscuro compito sarebbe stato
premiato unicamente con l'oblio.
In
ogni caso, concluse, non valeva la pena di stare a ragionarci troppo
sopra. Le decorazioni se le sarebbe guadagnate una volta rimesse le
mani sui comandi di un Albatros D-III, e i problemi della missione
dietro le linee li avrebbe affrontati – e di certo risolti –
qualora si fossero presentati. In fin dei conti si trattava solo di
pilotare un aereo, atterrare, recuperare una persona e tornare
indietro: l'aveva fatto decine di volte, l'avrebbe saputo fare
praticamente a occhi chiusi.
E
la gentile donzella dabbasso, che faceva tanto la misteriosa con le
sue missioni dietro le linee, avrebbe presto imparato chi era
Maximilian von Knobelsdorff.
§
La
volta celeste era di un azzurro cupo, ancora punteggiato qua e là
delle ultime stelle. Sulla linea dell'orizzonte, a est, il sorgere
del sole si annunciava con un baluginare dorato.
Il
tenente von Knobelsdorff si chiuse intorno al collo il pesante
pastrano di pelliccia. Sotto l'ampio indumento non gli avevano
permesso di indossare l'uniforme, ed egli, che da tempo non portava
altri abiti che la sua divisa, si era risolto a mettere un completo
come quelli che aveva nelle battute di caccia al cervo, di loden
verde scuro con i bottoni di corno. Sorrise fra sé e sé: se
qualcuno l'avesse abbattuto, cos'avrebbe potuto pensare? Che era così
eccentrico da andare a caccia con l'aeroplano?
Si
girò verso Levante e strinse appena gli occhi: il disco solare stava
comparendo, le ombre lunghe dell'alba si disegnavano sui campi. Anche
l'aereo, investito da quei primi raggi, da grigio che era diventava
d'oro e ambra.
Con
un gesto quasi automatico, il tenente gli fece scorrere una mano
sulla fusoliera, quindi batté due colpetti affettuosi.
“Non
è un cavallo,” si fece udire la voce della donna.
Il
tenente alzò le spalle. “Abitudine.”
“È
preoccupato?”
A
quel punto, von Knobelsdorff si voltò a fissarla: la cosiddetta
Marie portava uno scialle stretto fin sotto il mento. Era così
minuta che gli arrivava a malapena alla spalla e le si sarebbero dati
a esagerare vent'anni, forse anche meno. Come avrebbe potuto
rispondere che era preoccupato, quando quella ragazza, così piccola
e fragile, aveva compiuto innumerevoli missioni dietro le linee?
“Per
nulla,” rispose disinvolto.
“Il
segno di riconoscimento le è chiaro?”
“Tutto
chiaro.”
“Ha
con sé documenti o oggetti che possano identificarla come ufficiale
tedesco?”
“No.”
“Ha
controllato bene? A volte anche solo un biglietto del teatro o una
fotografia sono sufficienti.”
Von
Knobelsdorff emise un sospiro infastidito, quindi in tono tagliente
replicò: “Signora, non sarò una spia, ma non sono nemmeno una
testa di legno. Se lei mi dà istruzioni, io mi attengo a esse.”
La
donna non disse nulla. Era evidente dal suo sguardo che avrebbe
preferito controllare di persona ogni suo indumento, e non certo per
motivi di interesse personale, tuttavia si limitò a uno scarno:
“Spero per lei che sia vero.”
Gli
girò le spalle e rientrò in casa.
Il
tenente la seguì per un istante con lo sguardo, poi tornò a
dedicare le sue attenzioni all'aereo: era una bella macchina, con
l'aria di essere appena uscita dalla fabbrica. La vernice era ancora
lucida in alcuni punti, la tela tesa alla perfezione. Con il muso
proteso verso l'alto, sembrava letteralmente invocare aria e cielo.
“Ci divertiremo,” gli assicurò il tenente. Spostò poi lo
sguardo sugli uomini che se ne stavano occupando: gente che
chiaramente sapeva dove mettere le mani. Si chiese se avessero
prelevato anche loro da qualche Jasta o se si trattasse di gente che
si occupava di aeroplani già prima della guerra.
Incrociò
lo sguardo di uno di essi. “Un bell'apparecchio, non è vero?”
gli disse, battendo di nuovo la mano sulla fusoliera dell'Albatros
C-III.
L'uomo
annuì. “Sissignore.”
Sotto
lo sguardo attento del meccanico, il tenente salì sulla semiala, di
nuovo si sporse sulla carlinga, poi scese e andò a controllare che
il serbatoio fosse pieno di benzina. Infine disse: “Beh, penso che
sia ora di partire. Stia pronto a dare il giro all'elica.”
“Sissignore.”
Von
Knobelsdorff si calò nello stretto abitacolo, si sistemò la carta
sulla coscia, fissandola in modo che il vento non la portasse via,
quindi cominciò i controlli pre-volo.
Completata
la procedura, diede il contatto e urlò: “Contatto!”
Il
motore partì e andò a regime con un rombo cupo, che gli faceva
vibrare la gabbia toracica. Alzò la mano e fece segno di togliere i
tacchi da sotto le ruote. L'aereo cominciò a rullare lentamente.
Von
Knobelsdorff socchiuse gli occhi e cercò di cogliere l'essenza della
nuova macchina attraverso le vibrazioni che il movimento gli
trasmetteva, esattamente come avrebbe fatto con un cavallo mai
montato prima.
Diede
un po' di motore. L'aereo aumentò la velocità di rullaggio, le
vibrazioni si fecero più intense. Portò la manetta tutta in avanti,
l'aereo cominciò a divorare il prato nella corsa di decollo, il
tenente incollò gli occhi agli strumenti, che stavano prendendo vita
insieme all'aereo. Alla velocità giusta tirò indietro la barra ed
esso si staccò dolcemente da terra.
Il
tenente gli lasciò prendere quota, intervenendo al minimo sui
comandi. L'Albatros C-III saliva docile, senza scossoni, senza
tentativi di ribellione. Pensò che se si fosse trattato di un
cavallo sarebbe stato un bel castrone robusto, di quelli in sella ai
quali si può affrontare un'intera giornata di caccia, forse lenti,
ma più comodi di una poltrona.
Abbozzò
una virata e l'aereo reagì come previsto, con un movimento calmo,
sicuro, senza scosse.
A
quel punto, von Knobelsdorff abbassò lo sguardo sulla cartina, poi
inclinò l'aereo e si sporse di lato alla ricerca del primo dei punti
di riferimento con cui aveva contrassegnato la navigazione.
A
terra, la donna si pose la mano di taglio sulla fronte per schermare
gli occhi dalla luce nitida dell'alba. Fissò l'aereo, che ormai era
un puntino all'orizzonte, poi emise un sospiro e disse: “Speriamo.”
Al
suo fianco, l'uomo che le faceva da aiutante chiese: “Non ti fidi?”
“È
una testa calda, vorrà fare a modo suo.”
L'altro
alzò le spalle. “Non credo che con il Werwolf potrà permettersi
tante alzate di testa.”
“Sai
com'è fatto il Werwolf,” fu la replica.
“Non
penso che si lascerà distrarre,” disse l'uomo, rivolgendo uno
sguardo distratto alla gente che si dava da fare per cancellare ogni
segno del decollo, “anche per lui la missione viene prima di
tutto.”
[1]
La Jasta 11 era quella di von Richthofen
[2]
Questa vicenda di Annemarie Lesser (celeberrima spia tedesca, nota
come “Mademoiselle Docteur”) è storicamente documentata.
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