Un film
“Non
mi lascerai mai?” chiese lei.
“Non
posso lasciarti” rispose lui.
“Perché
non puoi?”.
“Perché
senza di te muoio”.
“Dimmelo
ancora”.
Lui
sorrise, la teneva stretta. “Senza di te muoio”.
“Ancora”.
“Senza
di te muoio”.
“Ancora!”.
Cherise cambiò canale con uno sbadiglio.
Era
tutto molto interessante quando lei amava lui ma lui non amava lei e quando lui
si accorgeva di amare lei ma lei non amava più lui. Ma quando entrambi si
amavano c’era tutta quella parte dedicata a dichiarazioni e smancerie varie,
che non valeva la pena di vedere. Fine
del film. Cherise trastullò il telecomando per due minuti buoni prima di
trovare un altro film. Mai stata baciata.
“Okay può andare” fece, nonostante l’avesse già visto più di una volta.
Interessante. Sì, molto divertente tutta la parte in cui lei, giornalista
infiltrata che si finge una liceale, viene presa in giro da tutta la scuola.
Molto divertente la parte in cui si smaschera al ballo di fine anno. Molto
divertente la parte in cui il professore, il suo lui, non ne voleva più sapere di lei perché l’aveva preso in giro.
“Ci siamo” borbottò mentre lei, in
piedi su quel campo da baseball, aspettava lui
per, come aveva scritto nel suo articolo, ricevere il suo primo bacio. Click. Cambiato canale. Di questa sua
mania era meglio non far parola con nessuno. Una volta aveva raccontato alla
sua vicina di banco di scuola Laura che, quando davano Titanic in tv, lasciava perdere tutta la parte in cui Jack e Rose
si innamoravano e guardava solo la morte di lui. Laura non aveva reagito troppo
bene. Aveva sgranato gli occhi, alzato le sopracciglia fino a farle sparire
dietro la frangia e detto: “Sei sadica”.
Cherise
spense la televisione. Non voleva vedere altri film d’amore, dove sembrava che
tutto andasse bene e che tutto durasse in eterno. Che cos’era l’amore
dopotutto? Incontrarsi, innamorarsi, sposarsi, divorziare.
Non mi lascerai mai?
Oh,
sì, ti lascerà, cara mia.
Sentiva
le grida dei suoi genitori, nella loro camera da letto. Sentiva la radio accesa
in camera di Tonio che tentava di coprirle.
Si
stese sul letto.
I
suoi genitori non dovevano essere delle persone molto normali, perché non era
normale litigare alle undici di sera per un libro di papà lasciato fuori posto
mentre mamma doveva pulire. Ma
d’altronde non era normale neanche chiamare la propria figlia Cherise. Era un nome che piaceva a
tutti, eppure nessuno lo sapeva scrivere. Tra i suoi compagni di classe, i più
intelligenti erano riusciti a scrivere Cherys,
ma c’era ancora chi era convinto si scrivesse Sceris. Certo,
era fico presentarsi così. “Mi chiamo Cherise”. Chi ascoltava restava
impressionato. Ma dopo cinque minuti l’aveva già dimenticato. “Scusa, come hai
detto che ti chiami?”.
“Cherise”.
Adesso
non era più impressionato. Ma era interessato. “Sei straniera?”.
“Il
mio bisnonno è morto in Canada”. Come se questo avesse potuto spiegare perché i
suoi genitori, entrambi figli di baresi emigrati a Bologna nel lontano 1977, l’avessero
chiamata Cherise.
“Ah”.
Era
una conversazione da copione.
Presentarsi
con nome e cognome era ancora peggio.
“Mi
chiamo Cherise Caruso”.
L’interlocutore
rimaneva per qualche istante pensieroso, probabilmente chiedendosi se dire o no
quella cavolata che avrebbe poi detto. “Avete dei nomi strani laggiù”.
Laggiù. Il fatto che i suo genitori
fossero del Sud e il fatto che sua madre mentre era incinta si guardasse un
film americano dietro l’altro erano ben poco collegabili. “Ero
indecisa tra Cherise e Sandy, con Caruso però stava meglio Cherise” le aveva
spiegato una volta. Sandy Caruso. Cherise
aveva cominciato ad apprezzare il proprio nome.
Fortunatamente,
alla nascita di suo fratello, sua madre aveva già superato questa fase e aveva
scelto il nome Antonio, nome che comunque, accompagnato poi da Caruso, era un chiaro segno distintivo del
laggiù da cui venivano.
La
musica di Infinity regnava ancora
sovrana in casa, accompagnate dalle urla isteriche di mamma.
“E’
tardi, abbassate il volume!” gridò Cherise. Il giorno dopo sarebbe dovuta
alzarsi a un orario improponibile d’estate. Era il primo giorno di lavoro. Non aveva mai lavorato in vita sua, e dato
che tra qualche mese sarebbe stata maggiorenne, i suoi avevano deciso di
affibbiarle un lavoretto estivo.
Aveva
trovato qualcosa in un centro commerciale, insieme coi suoi amici Elena e
Mattia.
Sbadigliò.
Se la sua vita fosse stata un film, si sarebbe innamorata del suo capo o di un
suo collega o di un cliente abituale. Ma se la sua vita fosse stata un film,
probabilmente si sarebbe chiamata Cherise per un motivo tipo sono americana-ho un nome americano.
Il boom boom della musica house di Tonio
continuava.
“Il
volume!” esclamò ancora la ragazza.
Il
volume finalmente s’abbassò. E rimasero le urla dei genitori che non
demordevano.
“Non
mi aiuti e lasci pure la tua roba in giro!”.
“Se
la mia roba ti dà fastidio la metto in una valigia e vado via!”.
Non mi lascerai mai?
Nei
prossimi venti minuti, no
Ringrazia
di vivere in un film.
Era
appena finito Mai stata baciata.
Elena
Mancini, sdraiata a pancia in sotto sul suo letto, stringendo il cuscino a sé,
sognava ancora quel professore da sballo che aveva fatto innamorare la
protagonista. Amore. Aveva diciotto anni ma si sentiva impotente in quel campo.
Non ci capiva ancora molto. Certo che con due fratelli maschi si poteva ritenere
fortunata se era uscita qualche volta con dei ragazzi. Luca riusciva a farla
sentire in colpa ogni volta che usciva e Andrea sembrava la volesse tenere
sotto una campana di vetro. Soprattutto da quando era successo.
Qualcuno
bussò alla porta.
“Sei
ancora sveglia, Elena? E’ tardi”.
“Sto
andando a letto, nonno”.
“Buona
notte”.
Elena
si alzò e disfò il letto. “Buona notte”.
Si
risedette. Il giorno dopo avrebbe cominciato a lavorare in un centro
commerciale. Doveva farlo. La pensione del nonno e lo stipendio di Andrea non
bastavano per tutti e quattro. Non era del tutto negativa all’idea. Dopotutto
avrebbe passato del tempo con Cherise e Mattia. Sentì le gote andare
improvvisamente in fiamme. Subito dopo una risatina nervosa prese il
sopravvento. Si buttò sul letto di lato, continuando a ridacchiare. Avrebbe
passato del tempo con Mattia. La
felicità sfumò e in attimo si sentì agitata. Non aveva idea di come sarebbe
stato lavorare, non aveva idea di chi le avrebbe insegnato, non ne aveva idea se
sarebbe stata all’altezza o avrebbe fatto come suo solito delle pessime figure.
Calmati,
si disse. Il cuore le batteva forte e non voleva spegnere la luce. Se avesse
spento la luce, si sarebbe addormentata e il mattino sarebbe arrivato. Avrebbe
voluto parlarne con qualcuno, delle rassicurazioni, un po’ di conforto ma il
nonno era troppo burbero, Andrea era ancora a lavoro e Luca già dormiva. E
comunque nessuno di loro avrebbe capito. Voleva una presenza femminile, voleva
la mamma.
Si
alzò, respirando affannosamente. Smettila di avere paura, si disse. Si passò
una mano sulla fronte, era imperlata di sudore. Basta, era grande ormai, non
poteva continuare ad avere paura di notte. Eppure non riusciva mai ad evitarlo.
I suoi piedi cercavano da soli le ciabatte e la conducevano fuori dalla stanza,
lungo il corridoio. Si ritrovò di fronte a quella porta che nessuno apriva mai.
L’aprì
piano, quella cigolò appena. Era buio.
“Mamma,
papà” chiamò “posso dormire con voi?”.
Senza
aspettare una risposta, s’intrufolò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé
senza fare rumore.
Si
avvicinò al letto in punta di piedi perché non voleva svegliare nessuno. Si accomodò
sul letto, ignorando la coperta ruvida, e si fece piccola piccola perché se no
in tre non ci stavano.
“Buonanotte
mamma. Buonanotte papà”.
Baciò
le due fotografie che il nonno aveva messo ai due lati del letto.
E
chiuse gli occhi.
Era appena
finito uno di quei film che sicuramente tutte le ragazzine avevano guardato
ciucciandosi il dito.
Mattia
spense la tv assonnato. La sera prima del grande
giorno dovevano trasmettere quella roba?
In
due ore di film, la giornalista era riuscita ad avere ciò che più sognava. Un
articolo ben scritto, fama e amore. Bella vita. Mattia si stese a pancia in
sotto sul letto, armatosi di carta e penna.
4 scrisse. Si gratto la punta del mento
con la biro. 25. 78. 43. Chiuse gli
occhi per concentrarsi. 59. Sì, 59 ci
stava. E per ultimo, 88. Piegò il
foglietto di carta e lo lanciò sul comodino. Se quella era la sera prima del
grande giorno, che sarebbe stato noto come il più orribile della sua vita, Dio
poteva mandargli un po’ di fortuna. Un euro. Un misero euro e sei numeri.
Si
mise su un lato, guardando davanti a sé una seggiola ricoperta di vestiti. La
sua vita era sempre stata estremamente noiosa.
Scuola, calcio, scuola, calcio. Un cinema ogni tanto. Genitori ordinari,
una sorella isterica, un cane. E ora avrebbe avuto il top della noia. Un lavoro. In un centro
commerciale. Con due amiche, con Elena Mancini,
ma tanto non è che andavano là per divertirsi. Fece una smorfia. Ripensò a ciò
che gli diceva Chiara.
“Pensi
di avere una vita noiosa? E’ la vita che hanno tutti i ragazzi, cosa ti aspetti
di più?”.
“Boh”.
“Sei
proprio uno strano, Parisi. Sogni ma non sai cosa sognare”.
Non
credeva fosse un complimento. Ma non sapeva mai cosa dire in certe situazioni.
Certo che dire alla propria ragazza che la vita gli sembrava noiosa non era
stata una grande idea. Probabilmente era per quello che l’aveva mollato. Non
importava, l’amore non era eterno e che finisse prima o dopo non faceva
differenza. Tutta questa situazione faceva pena.
“Sei
tu che fai pena, Mattia”.
“Grazie,
Giulia”.
Dio,
aveva solo esposto di prima mattina tutti gli aspetti negativi della vita mentre
accarezzava il cane. Giulia aveva sputacchiato latte ovunque sibilandogli che
almeno lui quel giorno non avrebbe avuto l’interrogazione di matematica e il
compito di latino nel giro di tre ore. Questo si chiamava vivere giorno per
giorno. Sua sorella Giulia viveva giorno per giorno. Era felice se non c’erano
interrogazioni o era felice se il tipo
super super figo della 5°B la
guardava. Lui voleva di più. Se la tipa
super super figa della 5°A lo guardava (e comunque non era mai successo),
ciò non risolveva un bel niente.
Poggiò
sul pavimento biro e carta. Doveva ricordarsi di raccoglierli da terra subito
il mattino dopo o la mamma l’avrebbe tirata così lunga che il caffè si sarebbe
bruciato, il cane avrebbe pisciato in casa, Giulia avrebbe cominciato a
frignare perché aveva bisogno per come
minimo mezz’ora del bagno, occupato da papà che non usciva perché non
voleva finire in quel casino.
Chiuse
gli occhi.
Dio, fa che vinca al superenalotto.
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