ATTENZIONE:
Nel testo sono presenti
termini che potrebbero turbare i lettori e insulti omofobi che non condivido
assolutamente e che ho inserito solo per motivi di trama.
Se siete
particolarmente sensibili, vi consiglio di passare oltre e vi ringrazio
comunque per l’interessamento :)
Auguro una buona
lettura a tutti ♥
Watch your words – or
your words might drown you
Esco dal mio locale gay preferito e mi fermo a fumare una
sigaretta prima di avviarmi verso il mio appartamento.
Non abito molto distante da qui, così ne approfitto per fare
due passi e respirare un po’ d’aria fresca. Del resto l’aria frizzante della
sera acuisce i miei sensi e mi aiuta a cacciare meglio.
In questo locale ho conosciuto tanti ragazzi e con alcuni di
loro sono stato diverse volte, mentre con altri è stata soltanto l’avventura di
una notte; in generale non ho tantissimi amici all’interno di questo ambiente,
ma vado d’accordo un po’ con tutti.
Mi appoggio con la schiena alla parete e faccio scattare la
pietrina dell’accendino, aspirando il fumo con calma e guardandomi attorno con
curiosità.
Noto una coppia di donne che lasciano il pub e in lontananza
sento delle voci concitate, ma per il resto la strada è praticamente deserta.
Questo non è un quartiere particolarmente malfamato, ma non posso certo
affermare che sia frequentato dai ricchi di Beverly Hills.
Sorrido tra me: con quello che guadagno con il mio lavoro di
spacciatore potrei permettermi una villa a Beverly Hills, ma per il momento
preferisco vivere con Dave e usare la grana per compiacere i tanti uomini con
cui me la spasso quasi ogni sera. È questa la vita che mi piace, dove posso
dare e ricevere affetto senza limiti e continuare a essere me stesso.
E poi devo aiutare la signora Anita e la sua famiglia perché
loro mi hanno accolto quando mio padre è scomparso nel nulla e mi sono
ritrovato da solo; da quando suo figlio maggiore Laudir è rimasto ucciso
durante una sparatoria tra gang, la donna ha continuato a lavorare sodo per
garantire al minore la possibilità di studiare.
Juan è un ragazzo intelligente e merita il meglio, così mi
sono offerto di aiutarli senza remore. Non li frequento più come un tempo
perché non voglio spiegargli da dove arrivano i soldi che gli mando – anche se
sono certo che in fondo lo sappiano – e a volte mi mancano, sul serio, ma è
meglio così.
A ben pensarci, Anita e Juan sono la cosa più simile a una
famiglia che mi rimane, se escludiamo Dave. Ma Dave è diverso, lui è tutta
un’altra storia.
Sto per prendere l’ultimo tiro dalla sigaretta quando un
tizio corpulento mi si piazza di fronte. Come ho potuto abbassare la guardia in
questo modo?
Sfodero un sorriso accattivante e non mi faccio intimorire.
«Amico, vuoi sesso o roba?» chiedo.
Lui mi molla un pugno in faccia e mi manda a sbattere con la
nuca contro la parete, stordendomi. Cerco di reagire, ma lui è più rapido e
forte: mi afferra malamente per le braccia e mi trascina con sé lungo la via
deserta, svoltando ben presto in un vicolo.
Ho gli occhi chiusi, la faccia e la testa mi fanno un male
cane e non sono in grado di scrollarmi le sue mani enormi di dosso. Questo
tizio non ha nemmeno un cattivo odore, non sembra un ubriaco o un drogato in
astinenza in cerca di guai, ma se voleva prendersi il mio culo poteva anche
chiedermelo gentilmente.
Non so quanto tempo trascorre – sento il suo respiro pesante
e affannato mentre mi sospinge con decisione – prima che si fermi.
A quel punto cerco di reagire e socchiudo le palpebre, ma
tutto intorno a me è fatto d’oscurità.
Il tizio apre lo sportello di un’auto e mi butta con malagrazia
sui sedili posteriori, per poi salire al posto di guida e mettere velocemente
in moto.
Riesco a riacquistare un minimo di lucidità che siamo già in
viaggio da almeno un paio di minuti.
«Cazzo!» sputo, massaggiando il labbro inferiore tumefatto
che rischia di spaccarsi a ogni tocco – è un miracolo che non sia già successo.
«Comincia a chiudere il becco, rotto in culo» sbraita il
tizio alla guida, rivelando così una voce grossa e graffiante.
«In un’altra occasione penserei che sei proprio sexy, amico»
biascico.
«Chiudi quella cazzo di bocca.»
Mi metto a sedere e mi affaccio tra i due sedili anteriori,
mostrandomi per niente intimorito – in realtà sto cominciando a preoccuparmi
perché non so cosa voglia da me e perché mi abbia sequestrato, ma so perfettamente
che in casi come questi non è bene farsi vedere deboli.
E poi sono praticamente cresciuto in strada, non posso
lasciarmi intimorire da uno scimmione muscoloso qualsiasi.
«Mi dici almeno cosa vuoi?» chiedo, continuando a ignorare i
suoi ordini.
Il tizio sbuffa e continua a guidare con movimenti nervosi.
Cerco di riflettere un attimo: potrei allungare la mano e
tirare il freno a mano, ma siamo immersi nel traffico e non voglio certo
causare un incidente. Ho troppa fame di vita e non ho neanche trent’anni, non
morirò per colpa di uno stronzo come questo.
Mi volto verso lo sportello alla mia destra: se lo aprissi e
mi gettassi fuori chiedendo disperatamente aiuto, probabilmente verrei
investito prima ancora di cominciare a gridare.
Merda.
«Mi dici dove stiamo andando? Che cazzo, amico, io nemmeno
ti conosco!» proseguo, cominciando a spazientirmi.
«Io so chi sei, Ethan fottutissimo Murphy.» Si esibisce in
qualcosa che dovrebbe essere una risata ma suona come un brontolio roco. «Fottutissimo
in tutti i sensi» aggiunge, ridendo più forte.
Forse pensa che sia divertente, ma io rimango
imperturbabile. «Grazie al cazzo, altrimenti perché mi avresti rapito? O sei
uno di quei serial killer psicopatici che si vedono nei film?»
«Chiudi. Quella. Fottuta. Bocca» scandisce tra i denti.
«Solo se mi prometti che mi spieghi tutto, altrimenti mi
butto nel traffico e sono cazzi tuoi» lo minaccio, anche se non sono proprio
nella posizione più adatta per farlo.
«Le portiere sono chiuse, coglione.»
«Posso sempre spaccare il finestrino» replico.
«Provaci.»
Sospiro. «Ah, ‘fanculo.»
Mi abbandono contro il sedile e decido che per il momento ha
vinto lui.
Devo studiarlo e capire come uscirne: nella vita di strada
le cose non funzionano come nei film, a volte conviene tenersi buoni i cattivi
per poi affondarli nel momento giusto.
E se questo stronzo collaborasse con gli sbirri e mi avesse
teso una trappola?
Scuoto il capo e il dolore torna a pulsare sulla mia nuca:
okay, niente movimenti bruschi, devo rimanere lucido e cercare di ragionare il
più possibile.
Sorrido. «Meno male che mi sono appena ripulito, hai scelto
un buon momento per rapirmi, altrimenti avrei fatto un casino nella tua
macchina in preda all’astinenza: vomito, convulsioni, grida…»
«Ma non la perdi mai la voce, frocio di merda?»
«Mai successo. Per un periodo ho smesso di dormire e parlavo
poco, ma non mi ammalo spesso. Mi dispiace deluderti, tesoro.»
Forse dovrei guardarmi attorno e cercare di capire dove mi
sta portando, ma la verità è che adesso non mi importa: per il momento siamo
ancora in città e questo mi rassicura. Inoltre, anche se non so spiegarmi
perché, non credo che questo tipo abbia intenzione di tenermi segregato in
mezzo al deserto per mesi.
Devo solo avere pazienza e studiarlo.
Arriverà il mio momento.
L’auto si ferma e il tizio scende rapidamente dal posto di
guida, venendo ad aprirmi lo sportello proprio mentre sto per fare lo stesso.
Mi sollevo di scatto, cercando di mollargli una testata sul
mento, ma lui mi dà un altro pugno e stavolta il labbro si spacca sul serio e
comincia a sanguinare copiosamente.
Approfittando del mio stordimento, mi prende nuovamente per
un braccio e mi tira fuori dall’abitacolo, spingendomi a camminare su un
vialetto sterrato.
Siamo in una zona periferica che non conosco e di fronte a
noi si staglia una specie di capanno non meglio identificato – c’è talmente
buio che non riesco a comprenderne le effettive condizioni.
«Cammina, cazzo» sbraita, trapanandomi un orecchio con la
sua voce roca e fastidiosa.
Apre una porta cigolante senza usare delle chiavi e mi
conduce con malagrazia all’interno; mentre vengo investito da un intenso puzzo
di muffa, lui dà un calcio all’uscio e lo richiude con un colpo secco.
Mi trascina per alcuni metri, finché non raggiungiamo un
tavolo in cemento che sembra esistere da prima che la struttura venisse
costruita, a giudicare da quanto è massiccio.
Finalmente i miei occhi si stanno abituando alla penombra e
noto che l’ambiente è abbastanza spoglio, pare una rimessa per attrezzi di
lavoro o una vecchia officina smantellata.
L’energumeno si guarda attorno e schiocca le dita della mano
libera, poi mi tira ancora per il braccio e compie qualche passo. Si china per
raccogliere qualcosa, poi torna accanto al tavolo e mi spinge a terra.
Cado all’indietro e rischio di battere nuovamente la testa
contro il bordo in cemento, così mi sporgo in avanti e il tizio ne approfitta
per torcermi il braccio dietro la schiena e legarlo al piede del tavolo.
Stringe talmente forte che mi fa mancare il fiato e un
gemito abbandona le mie labbra.
Il tizio si allontana da me e, dopo aver afferrato quella
che sembra una cassa di birra vuota, la capovolge e si siede proprio di fronte
a me con le gambe divaricate e gli avambracci sulle ginocchia. Mi fissa mentre
con la mano libera tasto il mio polso imprigionato, rendendomi conto che ha
usato una vecchia corda sfibrata per inchiodarmi al piede del tavolo.
La mia pelle fa attrito tra il cemento e la morsa che mi
tiene legato, così socchiudo gli occhi per un’improvvisa fitta di dolore. Okay,
devo stare fermo per evitare altri danni.
«Comunque sei poco furbo» commento, mostrandomi spavaldo.
«Perché non mi hai bloccato entrambi i polsi?»
«Non ho paura che scappi. E quando ti avrò gonfiato di
botte, non avrai più neanche la forza per muoverti.»
«Davvero?» lo sfido.
Lui si sporge in avanti e in quel momento riesco a
osservarlo finalmente in viso: è un nero dai capelli scuri e cortissimi, la
mascella squadrata e due occhi color ghiaccio che quasi mi fanno innamorare di
lui. Tutto sommato è di bell’aspetto, anche se l’aria minacciosa che sfoggia lo
rende vagamente inquietante.
«Sei carino» mi lascio sfuggire.
Il tipo mi lancia un’occhiata disgustata, poi sputa per
terra. «Se continui a dire stronzate, ti calpesterò proprio così» mi minaccia,
battendo la suola della scarpa su ciò che ha appena espulso dalla bocca.
Distolgo lo sguardo e cerco di non rabbrividire per il
disgusto. «Era solo per fare conversazione…» replico.
«Adesso tu smetterai di parlare.» Detto questo, l’uomo
si alza e vaga per un po’ nel capanno, per poi afferrare quello che sembra uno
straccio vecchio e tornare da me. Con gesti rapidi e bruschi mi imbavaglia e
annoda più e più volte il tessuto dietro la mia nuca. «Oh, finalmente un po’ di
silenzio!» conclude, sedendosi nuovamente sulla cassa di birra capovolta.
Sento in bocca un sapore che non riesco bene a definire, è
un misto di olio rancido e cibo ammuffito, così devo trattenere a stento un
conato e strizzo gli occhi per cercare di calmarmi, con il solo risultato di
farli lacrimare. Sollevo il braccio libero e tasto con le dita i nodi che mi ha
fatto, rendendomi immediatamente conto che non riuscirò mai a liberarmi senza
l’aiuto dell’altra mano.
«Allora, Ethan fottutissimo Murphy. Perché siamo qui? Adesso
te lo spiego, poi ti rompo quella faccia pulita del cazzo che ti ritrovi.
Sembri innocente, carino… un frocio modello. Invece sei uno stronzo rotto in
culo.»
Che linguaggio fantasioso, complimenti, vorrei
dirgli.
«Circa un anno fa in quel locale di merda dove ti ho trovato
ci è andato mio fratello. È sempre stato un tipo a posto, voleva studiare per
diventare un insegnante, ma poi è capitato in quel covo di finocchi e ha perso
tutto.»
E io che cazzo c’entro?
L’uomo si sporge ancora un po’ in avanti e la cassa sotto di
lui scricchiola – giuro che se si rompe e lui piomba con il culo per terra mi
metto seriamente a ridere, anche se poi mi ucciderà.
«Mio fratello ha conosciuto te e si è preso l’AIDS»
prosegue, mentre i suoi occhi color ghiaccio – Dio quanto sono belli! – si
fanno sempre più taglienti. «Questo secondo te cosa significa?»
E io come cazzo faccio a risponderti se mi hai
imbavagliato?, penso. E in effetti vorrei anche dirgli che io non ho
l’AIDS, quindi come posso sapere cosa è successo a suo fratello?
C’è stato un equivoco, ma ovviamente non mi permette di
spiegarglielo e ora capisco che devo trovare un modo per fuggire prima di venir
punito per qualcosa che non ho fatto.
«Quelli come te devono marcire all’inferno, stronzo. Mio
fratello era un bravo ragazzo, come un figlio per me. Abbiamo dieci anni di differenza,
l’ho cresciuto io perché i nostri genitori lavoravano sempre. Voleva fare il
maestro ai marmocchi.» Ride con quel fare cavernoso che sembra quasi un rutto.
«Ci pensi? Io i marmocchi li odio, proprio come i froci come te. Invece lui
voleva aiutarli a crescere, stronzate simili. Io l’ho sempre rispettato.»
La sua incoerenza è spiazzante: detesta gli omosessuali, ma
difende a spada tratta suo fratello. Crede veramente che sia stato adescato
come un bambino innocente? Evidentemente non riesce ad accettare che suo
fratello sia gay e abbia scelto spontaneamente di venire nel locale che
frequento di solito.
Vorrei chiedergli perché pensa che sia stato proprio io a
contagiargli l’AIDS, ma ancora una volta riesco a emettere solo mugolii
incomprensibili sotto il tessuto che mi chiude la bocca.
«Si notava già da quando era piccolo: aiutava tutti i suoi
amici a fare i compiti, li correggeva quando sbagliavano a pronunciare le
parole e lo faceva anche con me» continua a blaterare il tizio.
E a me che importa?
Non capisco perché mi stia raccontando tutta la sua vita: se
è vero che vuole picchiarmi, sfigurarmi e chissà quali altre bestialità, perché
non lo fa e la pianta di dare aria ai denti?
È proprio un peccato che due occhi stupendi come i tuoi
appartengano a un pezzo di merda del genere, vorrei commentare.
Probabilmente lo farei infuriare, quindi forse è meglio che io non possa dare
voce ai miei pensieri.
«I miei genitori speravano che anche io fossi come lui,
invece sono solo un meccanico. Ma tutti noi abbiamo lavorato sodo per pagargli
il college, e adesso lui sta per morire ed è solo colpa tua.»
Smetto di ascoltarlo quando comincia a sproloquiare su tutte
le visite mediche che suo fratello ha fatto e sui conseguenti soldi che la sua
famiglia sta spendendo per tentare di salvarlo: devo liberarmi e farlo subito, approfittando
di tutta questa loquacità improvvisa.
Sembra quasi che io sia diventato il suo psicanalista e la
cosa è veramente raccapricciante.
In fondo penso che questo tipo non sia neanche cattivo, è soltanto
arrabbiato per la fine ingiusta a cui suo fratello è destinato ed è in cerca di
un capro espiatorio su cui riversare tutte le frustrazioni che gli gravano
addosso.
Allungo la mano libera dietro la schiena e tasto la fune: è
molto vecchia, forse se la tiro con forza si romperà. So che sarà doloroso e
che probabilmente avrò dei danni al polso, ma non posso restare qui a farmi
maltrattare senza motivo.
«Più di tremila dollari solo per le analisi preliminari!»
sbraita, mettendosi in piedi e camminando su e giù per la stanza con fare
nervoso.
Per fortuna non mi tiene più costantemente sott’occhio, così
posso muovermi un poco. Con lo sguardo fisso su di lui per controllare che non
si accorga di cosa sto facendo, infilo le dita della mano libera – la sinistra
– sotto la corda e avverto l’ennesima fitta di dolore al braccio.
Cazzo, Ethan, puoi farcela!
«Poi? Come se non bastasse mia madre ha perso il lavoro e
siamo pieni di debiti!» prosegue, alzando sempre più il tono di voce.
Chiudo gli occhi e trattengo il fiato, tirando con tutta la
forza che ho, nonostante la posizione in cui sono sia piuttosto scomoda.
Ho quasi l’impressione che la mano destra si stacchi dal
resto del corpo, reprimo a stento un grido che però viene attutito dal bavaglio.
Fa un male fottuto, ma non posso arrendermi. Con le dita
della mano sinistra mi rendo conto che la fune è leggermente più larga, quindi
in un modo o nell’altro riuscirò a liberarmi. Devo solo riprovarci e sperare
che questo tizio continui a blaterare e a sfogarsi con nessuno in particolare.
«L’ho fatto parlare, lui non voleva neanche dirmelo. Ma l’ho
costretto, gli ho detto che doveva dirmi chi era stato a ridurlo così. L’ho
fatto parlare, capito? Mi ha descritto proprio te, ha detto che eri un certo
Ethan e ti ha descritto… così ho fatto un po’ di indagini, ho degli agganci
ovunque…»
Respiro lentamente, poi chiudo nuovamente gli occhi e
strattono nuovamente la corda.
Il dolore è ancora più forte e per un attimo mi sembra di
svenire, ma faccio leva su tutta la forza che ho in corpo per resistere: sono
sopravvissuto a sparatorie, eroina, retate degli sbirri che hanno rischiato di
mandarmi in galera per sempre, eppure sono ancora qui e non morirò per colpa di
questa stronzata.
Muovo lentamente il braccio destro e sento la pelle
raschiare contro il cemento, ma dopo qualche istante mi rendo conto che ci sono
quasi. Devo solo tirare un altro po’…
«E sono arrivato a te.» L’uomo si volta nuovamente nella mia
direzione e si piazza davanti a me, le braccia incrociate al petto e lo sguardo
truce che mi fulmina dall’alto in basso. «E adesso ti farò soffrire come tu
stai facendo soffrire me e la mia famiglia, frocio del cazzo.»
Lancio una rapida occhiata ai suoi piedi e mi viene un’idea.
Devo prendere tempo, mi manca poco per liberarmi.
E, non appena lui muove un passo per avvicinarsi, fulmineo
allungo la mano sinistra e lo afferro per la caviglia; preso alla sprovvista,
perde l’equilibrio e cade all’indietro, andando a schiantarsi contro la
cassetta di plastica poco distante.
Senza perdere tempo, mi metto in ginocchio e con un ultimo
strattone – fa male, ma l’adrenalina sembra fare da anestetizzante – riesco a sfilare
il braccio dalla morsa che lo teneva bloccato.
Intanto il tizio grida e si dimena, mettendosi su un fianco
e respirando affannosamente.
Anche se mi sento stordito, balzo in piedi e fuggo via senza
pensarci due volte: non so neanche in quale zona della città mi trovo e per
questo mi maledico, ma troverò un modo per tornare a casa.
Sento che l’uomo che mi ha sequestrato si rimette in piedi e
proprio in quel momento esco come un razzo dal capanno, correndo sul vialetto
sterrato e rischiando di andare a schiantarmi contro l’auto nera parcheggiata
poco distante.
Tutto intorno a me sembra calmo e vedo solamente capannoni e
strutture dismesse. Sicuramente è una zona industriale in disuso, perciò devo
stare attento a non attirare l’attenzione perché è proprio in posti come questi
che si riuniscono covi di criminali e disadattati.
Continuo a correre nella notte, rischiando di sbattere
contro alberi e di inciampare su attrezzi abbandonati. L’oscurità è quasi
totale, fatta eccezione per alcuni tristi lampioni che compaiono ogni tanto
lungo la via.
Alle mie spalle avverto i passi del tizio che mi sta alle
costole, mentre le sue urla rimbombano nelle mie orecchie e mi fanno temere che
possa riprendermi da un momento all’altro.
I polmoni stanno per cedermi e il bavaglio che ancora mi
serra la bocca mi impedisce di respirare normalmente, sento che non riuscirò a
scappare ancora a lungo. Devo assolutamente trovare un posto dove nascondermi
per riprendere fiato.
Facendo leva su tutte le mie forze, spingo ancora un po’ per
accelerare il passo e svolto a sinistra, ritrovandomi in un vicolo cieco: tra
due capannoni si estende una breve apertura che termina con una recinzione
metallica.
E adesso?
Il cuore mi batte all’impazzata: non posso fermarmi, non
ora.
Vado avanti e raggiungo la recinzione, cominciando ad
arrampicarmi – qualcosa mi graffia la pelle, il polso brucia terribilmente e i
polmoni chiedono pietà, ma non mi arrenderò.
Arrivo in cima e, voltandomi per un istante, noto l’uomo
all’inizio del vicolo. Sembra non avermi notato, sta guardando verso il basso.
Poi solleva lo sguardo e mi individua. «Bastardo! Dove credi
di andare?» grida, per poi riprendere a correre.
Guardo dall’altra parte e vengo colto da un capogiro: dovrò
fare un salto di almeno tre metri. Non so se sopravvivrò, ma devo almeno
provarci. Non permetterò a questo scimmione di uccidermi.
Prendo un respiro profondo e mi lascio cadere dall’altra
parte, lanciando un grido che viene fermato dal tessuto sulle mie labbra.
Cado di schiena e rotolo per alcuni metri, rendendomi conto
che sono ancora vivo.
Senza guardarmi troppo intorno o badare al dolore che
continua a invadermi il corpo, mi rimetto in piedi e riprendo a correre dopo
aver barcollato un po’.
Ho guadagnato parecchio vantaggio perché il mio inseguitore
sta incontrando più difficoltà di me a scalare la recinzione, così proseguo per
la mia strada e non mi fermo finché non individuo un luogo in cui nascondermi
per un momento.
Mi getto all’interno di una sorta di container diroccato e
mi lascio cadere a terra, lottando per un po’ prima di riuscire a liberarmi del
bavaglio. Lo getto via e prendo dei lunghi respiri, sentendomi già meglio.
Continuando a fare silenzio, affino l’udito e rimango in
ascolto per capire se riesco a individuare dove si trova il mio inseguitore.
Sento dei passi lontani, poi le sue urla mi raggiungono
ovattate: non sembra aver capito in quale direzione mi sono diretto, sta
girando a vuoto e imprecando contro di me.
«Tanto so come ritrovarti, Ethan fottutissimo Murphy!»
Quella minaccia è l’ultima cosa che sento, poi attorno a me
cala il silenzio.
Raggiungo l’appartamento che condivido con Dave che è già
mattina.
Ho camminato allo sfinimento finché non ho trovato una
fermata della metro; sono stato scambiato per un barbone, ma sono riuscito a
salire a bordo e a orientarmi nella città per ritrovare la strada verso casa.
Sono sfinito, stravolto e ho perfino temuto di essere
fermato dagli sbirri per via dell’aspetto orribile che devo avere.
Busso quasi senza forze e scivolo sul pianerottolo: non mi
sento più le gambe e ora tutto il dolore che l’adrenalina anestetizzava mi sta
piombando nuovamente addosso, forte e insopportabile.
Dave non si preoccupa se non torno a dormire a casa, sa
perfettamente qual è il mio stile di vita e spesso anche lui passa la notte in
giro.
Ma quando apre la porta e i suoi occhi incontrano i miei, lo
vedo sbiancare. «Ethan! Che cazzo è successo?!» si allarma, chinandosi subito
su di me.
Socchiudo le palpebre e lascio che mi prenda in braccio e mi
trasporti dentro casa, non riesco neanche a parlare per via della stanchezza.
Dave mi deposita delicatamente sul divano e richiude la
porta, poi torna da me e si inginocchia al mio fianco. «Ehi, ehi. Prima di
dormire, dimmi cosa cazzo è successo.»
Incontro i suoi occhi gentili e mortalmente preoccupati e
subito il cuore mi si scalda nel petto: se non ci fosse lui, sarei completamente
perso.
«Un tipo mi ha rapito…» rantolo, per poi gemere di dolore.
«Sono… riuscito a scappare, io… mi dispiace…»
Dave scuote il capo e porta le dita ad accarezzarmi il viso.
«Adesso penso io a te, non preoccuparti. Quando starai meglio ne parleremo e
vedremo di sistemare questo pezzo di merda.»
So che non sta scherzando e finalmente mi sento al sicuro.
Prima di abbandonarmi al sonno, avverto le soffici labbra di
Dave posarsi sulla mia fronte e so che da questo momento in poi non dovrò più
avere paura.
Sono trascorsi quasi quattro giorni, nei quali non ho fatto
che stare a letto e lasciarmi curare e coccolare da Dave.
Il nostro è un rapporto bizzarro, ma siamo talmente legati
che non può esistere qualcosa che possa allontanarci.
A volte mi chiedo come possa funzionare tra noi: lui è stato
il mio mentore da quando ero ancora un bambino abbandonato dalla sua famiglia e
piombato in casa d’altri per non rimanere solo; Dave mi ha insegnato a
spacciare anche se non avrebbe voluto perché teneva troppo a me, ma sapeva che
non l’avrei lasciato in pace. Dave mi ha dato la mia prima dose di eroina
quando avevo quindici anni perché sapeva che altrimenti l’avrei procurata
altrove e detestava l’idea di perdermi; mi ha fatto capire che ero attratto dei
ragazzi e mi ha guidato nelle mie prime esperienze. Dave è stato il mio primo
bacio, la mia prima volta, l’abbraccio dopo ogni delusione della mia vita.
Prima di tutto, però, Dave è un amico, l’unico vero amico
che io abbia mai avuto; è vero che a volte andiamo a letto insieme se ci va, ma
a lui piacciono anche le ragazze – a dire il vero io sono l’unica eccezione – e
io vivo tante avventure con altri uomini.
Sono momenti solo nostri, incomprensibili a chi ci guarda
dall’esterno e che servono solo a noi per stare bene e dimostrarci affetto.
Sono istanti di relax, bellezza e piacere.
io e Dave ci siamo sempre presi cura l’uno dell’altro e
stavolta non è stato diverso.
Quando entra in camera mia, sorride raggiante – anche se
Dave ha un modo di sorridere lieve, solo io riesco a interpretare la natura dei
suoi gesti perché lo conosco meglio di me stesso.
«Come stai?» mi chiede, sistemandosi sul bordo del materasso
e passandomi le dita tra i capelli.
Lo guardo in viso e mi apro a mia volta in un sorriso.
«Parla prima tu. Cos’è quell’espressione soddisfatta e felice?»
Si stringe nelle spalle. «Diciamo che il tuo aggressore è
fuori gioco. Non devi più preoccuparti di lui.»
«Dave, io… ti ho detto che non volevo fargli del male, ho
capito che…»
«Sei davvero troppo buono» mi interrompe, lasciandomi un
buffetto sulla guancia. «Gli ho fatto avere i soldi, anche se un po’ di
cazzotti se li è meritati. Ha capito di essersela presa con la persona
sbagliata.»
Mi metto faticosamente a sedere e lo abbraccio.
Lui ricambia subito – a volte mi chiedo come un uomo grande
e grosso come lui possa essere tanto delicato e tenero.
Poco dopo mi scosta piano da sé e mi guarda negli occhi. «Tu
come stai?»
Sorrido maggiormente, voglio rassicurarlo – anche se mi fa
ancora male tutto e le ferite fisiche ci metteranno un po’ a guarire.
«Mi riprenderò» affermo.
E ne sono certo, perché amo troppo la vita per lasciarmi
abbattere da questa brutta esperienza.
§ § §
Ciao a tutti e benvenuti in questa storia un po’ particolare!
Ed ecco il mio Ethan alle prese con una situazione un po’
scomoda – come se poi la sua vita non fosse tutta all’insegna di momenti
bizzarri come questi ahahahahahahahah XD
Non ho tantissimo da dire dato che ho cercato di spiegare un
po’ tutte le dinamiche della vita di Ethan durante il testo, spero solo di
esserci riuscita!
Ringrazio tantissimo Vintage per il suo contest sui cliché
perché mi ha permesso di aggiungere un nuovo tassello a questa mia serie :3
Ecco qui il pacchetto che ho scelto per scrivere questo
racconto:
• Il cattivo loquace:
I cattivi vincerebbero se non sprecassero tutto quel tempo
in soliloqui che spesso capiscono solo loro. Dunque sì, la storia deve avere
una scena in cui il malvagio di turno si lancia nelle sue considerazioni alla
Gigi Marzullo nel Cinematografo.
Non vi sembra che il rapitore di Ethan abbia sprecato troppo
fiato, in effetti? XD
E la cosa più raccapricciante è che in libri, film, anime e
serie tv è SEMPRE così: ci sono sempre questi cattivi cattivissimi (?) che sproloquiano
su cose che solo loro capiscono e che solo a loro interessano, dando un sacco
di tempo e possibilità al nemico per batterli, liberarsi e vincere! Che
ritardati XD
Ultima nota, poi vi lascio in pace: il titolo della storia è
tratto dal testo di Watch Your Words degli Alter Bridge!
E niente, spero che la OS vi sia piaciuta e ringrazio
chiunque leggerà e recensirà ^^
Alla prossima ♥
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