Sette lettere a Joan da Sherlock

di asthma
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Chelsea
16 gennaio 2021
24°F

 

Nove mesi senza di te, oggi.
Ogni sedici del mese la casa sembra ancora più vuota. Mi domando se non starei soffocando tra i rimorsi se avessi potuto fermare il tempo quel quindici sera, Watson. Se avessi potuto condividere con te quel male che ti stava divorando, Watson. Se avessi avuto il minimo sentore che quelli sarebbero stati gli ultimi istanti che avrei passato con te, Watson.
Sono passate settimane dalla nostra ultima corrispondenza univoca. Le festività natalizie si sono consumate velocissimamente e in uno sbattito di ciglia abbiamo chiuso un altro calendario per inaugurarne uno nuovo.
I casi al dipartimento proseguono, hanno persino cercato di affidarmi l'addestramento di un altro consulente, ben due in realtà. A quanto pare sembra che ai piani alti abbiano iniziato a rivalutare il contributo di noi civili.
Arthur cresce. Chiede spesso di poter essere accompagnato al cimitero. Anche la mamma di un suo compagno di classe è volata in cielo, mi ha detto, si è rifugiata sulle nuvole quando l'aereo su cui viaggiava è precipitato in mare e Lucas le porta disegni e fiori tutti i fini settimana. Devo confessarti che non ho ancora esaudito il suo desiderio. Ha un mazzo di fiori di carta crespa sulla scrivania per te. Ogni pomeriggio completa un disegno. Li tiene tutti in un cassetto. La signorina Hudson dice che li sta laboriosamente eseguendo per fare ammenda per tutti quelli che non ti ha mai portato.
La vita va avanti incurante del fatto che io sia rimasto indietro. Certi giorni, appena varco la soglia dell'undicesimo, ho ancora in bocca quelle parole: “Watson ci raggiunge più tardi”, quando invece sono mesi che cammino solo sul marciapiede verso il distretto, mesi che uso il fischietto per fermare i taxi senza i tuoi occhi puntati addosso, mesi che ordino l'asporto per due persone e non per tre.
La tua stanza è esattamente come allora. Le coperte sono ancora sfatte, la bottiglia d'acqua è ancora sul comodino. Tutto è rimasto conservato, fermo, immobile come in una scena del crimine che la scientifica deve ancora esaminare. La porta è chiusa a chiave, la signorina Hudson ha il più severo divieto di avvicinarsi e Arthur, alle volte, sale le rampe di scale e si siede sull'ultimo gradino in silenzio, assorto in riflessioni che nemmeno il grande Sherlock Holmes è in grado di dedurre. Quando capitano quei momenti lo raggiungo e gli faccio sempre una sola domanda: “Vuoi che ti racconto come io e la mamma siamo riusciti a scoprire che il signor Tale era l'assassino? Forza, allora, prendiamo la casa delle bambole”. Non sono proprio sicuro che gli assistenti sociali sarebbero d'accordo con le mie strategie volte a orientare l'attenzione di Arthur su un altro oggetto, ma resta tuttavia innegabile che Arthur sia sempre ben felice di partecipare ai processi di deduzione che nel corso degli anni ci hanno portato a incarcerare centinaia di criminali. Le sue piccole dita seguono il perimetro della casa e i suoi occhi colgono tutti i particolari: “Potrebbe essersi nascosto sul tetto e aver aspettato che un elicottero lo venisse a prendere!” concluse un pomeriggio pieno di sé. “Avrebbe potuto, Arthur, ma dimentichi il fatto che l'accesso al tetto era sorvegliato dagli agenti di polizia”. 

Arthur è l'unica ragione che mi tiene dritto sulla mia strada. Non avrei mai pensato di affezionarmi in maniera tale a un'altra persona che non fossi tu. Ora più che mai, proprio come ti dissi allora, darei la mia vita per lui.
Sebbene sia biologicamente impossibile, a volte mi sembra di trovare in lui i tuoi occhi. Questo mi rende folle e disperato insieme.

S.H.





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