Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Caterina si era presa un paio di giorni scarsi per recuperare un po' le forze. Lorenzo non aveva più avanzato proposte, ma la Tigre era certa che si sarebbe fatto vivo un momento all'altro.

I francesi che l'avevano accompagnata a Firenze, aveva saputo, avevano preso contatti con Fortunati, ma non con lei. Difficile credere che la loro fosse solo una finezza dovuta al rispetto che le portavano, piuttosto la donna credeva che stessero cercando di tastare il terreno anche alla Signoria per vedere come muoversi con lei.

La Tigre aveva passato il suo tempo, invece, a osservare i figli, dormire, mangiare e cercare di recuperare un po' di stabilità emotiva e fisica. Di notte, l'aveva capito fin da quando si era addormentata tra Giovannino e Bernardino, i suoi incubi continuavano a tormentarla, ma ai consueti, si erano aggiunti quelli ambientati nella cella di Castel Sant'Angelo in cui aveva passato più di un anno di prigionia.

I suoi figli si erano accorti della sua agitazione, ma se il più piccolo aveva risolto il risveglio senza fiato della madre stringendosi a lei, il più grande, che aveva fatto in tempo a vederla perseguitata dagli incubi già a Forlì, aveva fatto finta di nulla e si era riaddormentato poco dopo.

Per quel giorno la Sforza aveva in programma di rivedere finalmente alcuni suoi partigiani in Firenze, tra cui Scipione e Paolo Riario, Baldraccani e Bernardino da Cremona. Aveva in sospeso anche la partenza di suo figlio Cesare, che doveva ancora – diceva – accordarsi bene con quelli che l'avrebbero scortato a Pisa. Doveva anche discutere di nuovo di Fortunati, per trovare la strategia giusta per appropriarsi della Villa di Castello il prima possibile e come far liberare in fretta Baccino, e, infine, intendeva chiedere un'udienza alla Superiora delle Murate, sia per ringraziarla di quanto fatto per lei, sia per accordarsi sulla sua ricompensa. In più, al monastero, voleva anche vedere Cornelia, la sua unica nipote, per quanto ne sapeva.

Prima, però, c'era una cosa che le premeva più di tutte, una cosa che non aveva fatto in tempo a fare l'ultima volta che era stata a Firenze.

“Bernardino...” disse, quella mattina, al figlio, quando lo vide passare per il salone con Galeazzo.

Il ragazzino le andò subito vicino, mentre il fratello, che da quando era arrivata la madre aveva cercato di darle i suoi spazi, benché, come gli altri, avesse un bisogno profondo e quasi intollerabile, per quanto era forte, di stare con la madre. Il Riario invidiava molto Giovannino e Bernardino, che avevano dormito accanto a lei, la notte del suo ritorno, ma sapeva che non ci voleva fretta. Non voleva sembrare un bambino: aveva quasi sedici anni, voleva mostrarsi un uomo, specie agli occhi della Tigre di Forlì, di cui tanto desiderava l'approvazione.

“Sai arrivare in San Lorenzo?” chiese Caterina, senza tanti giri di parole.

Il piccolo Feo annuì subito: “Ci sono andato tante volte.” ammise.

“Mi accompagneresti?” chiese la madre.

Anche Galeazzo aveva sentito quella proposta. La tentazione di domandare di potersi accodare fu forte, ma poi vide gli occhi del fratello brillare e capì che aveva più bisogno di lui di passare qualche ora con la Leonessa. In fondo, aveva sofferto la lontananza molto più di lui, sempre, perfino quando ancora vivevano in Romagna.

“Faremo la strada più tranquilla – accettò Bernardino, senza esitazioni – arriveremo in San Lorenzo senza che nessuno o quasi se ne accorga.”

La Sforza intravide lo sguardo un po' triste di Galeazzo, che era rimasto in secondo piano, a metà strada tra il voler fingere di non aver ascoltato nemmeno una parola e il volersi comunque far notare, nella speranza di essere chiamato in causa.

“Quando torno – disse la donna al giovane Riario – avrà da fare con Fortunati, ma dopo voglio stare un po' con te. Devi raccontarmi tante cose.”

Il ragazzo apprezzò lo sforzo e, chinando appena il capo, ringraziò: “Mi farebbe molto piacere, ma solo se non sarete troppo stanca.”

“Allora andiamo.” soffiò Caterina, sorridendo a Galeazzo e poi facendo cenno a Bernardino di muoversi: “Io sono pronta.”

“Andiamo, dove?” la voce di frate Lauro arrivò alle spalle della milanese come una freccia nemica.

Il suo tono era inquisitorio, eppure sul suo volto campeggiava il consueto sorriso serafico che tanto irritava la Leonessa.

“Non sono affari vostri.” tagliò corto lei, convinta che Bossi fosse davvero l'ultimo uomo a essere tenuto a sapere tutto sui suoi movimenti.

“Avete ragione.” convenne il frate: “Solo state attenta... Non siete del tutto libera, questo lo sapete... E San Lorenzo – soggiunse, con l'aria di chi la sapeva lunga – è proprio affianco alla casa di vostro cognato.”

“Noi due non ci siamo mai piaciuti...” cominciò a dire Caterina, sollevando una mano, a mo' di schermo.

“Non dobbiamo necessariamente piacerci – la interruppe Bossi – ma io sono stato liberato in qualità di vostro cappellano personale. Mi dispiacerebbe molto restare legato a voi nella disgrazia, se ci fosse qualche incidente diplomatico...”

“Io e mio figlio staremo attenti.” lo liquidò la Leonessa, per non trascendere.

“Come dite voi.” sospirò il frate: “Pregate anche per me sulla tomba di vostro marito Giovanni. Lui doveva essere un sant'uomo, per riuscire a starvi accanto con tanta eleganza...”

Le parole di Lauro, per quanto apparentemente sgradevoli, colpirono la Tigre. Immaginava che il religioso avesse sentito parlare, come tanti altri, sia di Giovanni, sia del loro matrimonio. Il suo modo di esprimersi era stato discutibile, ma il concetto finale era un complimento al Medici, e la Sforza ne era riconoscente.

“Avete ragione, Giovanni era un sant'uomo.” disse solo, avviandosi alla porta assieme a Bernardino: “Di certo dirò una preghiera per voi, e lui saprà perorare anche la vostra causa...”

 

Lucrezia Medici era uscita dal suo palazzo assieme a un paio di serve, con la dichiarata intenzione di recarsi in San Lorenzo, per pregare sulle tombe di famiglia.

Non sapeva dire perché, ma quella mattina, pur essendo una lieta ricorrenza, ossia il secondo compleanno di Maria, la donna si sentiva malinconica e aveva la necessità di un po' di raccoglimento. Avrebbe potuto, come suggerito dal marito Jacopo, aspettare l'indomani, domenica, per andare a Messa e basta, ma Lucrezia non aveva sentito ragioni.

Forse, pensava, era in quello stato di sommessa tristezza anche perché il giorno prima sua sorella Contessina, sposata con Piero Ridolfi, aveva dato alla luce Niccolò, quarto figlio della cucciolata, venuto al mondo dopo un paio d'anni scarsi dalla sorella Clarice.

Per quanto, di per sé, quella notizia fosse ottima, la Medici era stata portata a ragionare sulla propria famiglia, sul destino del loro casato, su suo fratello Piero, ancora lontano da Firenze e sul gioco perverso che il loro cugino Lorenzo stava portando avanti in nome delle proprie ambizioni, andando, di fatto, a ledere tutto ciò per cui il Magnifico, padre di Lucrezia, aveva combattuto e lavorato per tutta la sua vita.

Varcata una delle porte secondarie di San Lorenzo, la donna fece una breve genuflessione, imitata dalle due serve che portava con sé, e poi si fece il segno della croce. Chiese alle sue accompagnatrici di lasciarla andare avanti da sola, e così fecero. Dopotutto, la loro padrona era stata estremamente taciturna durante l'intero tragitto: era prevedibile che volesse restare in solitudine, una volta a destinazione.

La chiesa era praticamente deserta. In contrasto al calore soffocante dell'esterno, quel 17 luglio tra le navate di San Lorenzo era freddo come un giorno invernale.

Lucrezia si sistemò meglio la sciallina scura e si coprì con maggior cura il capo, mentre passava in rassegna le prime tombe di famiglia, ignorando volutamente i pochissimi devoti che pregavano in questo o quell'angolo della chiesa.

Malgrado avesse voluto fortemente andare lì quella mattina, dopo poco la Medici si trovò distratta da altri pensieri e, anche se fissava di quando i quando i nomi sulle pietre tombali, si trovava costantemente a rimuginare su altro.

Stava giusto rivangando tra sé e sé le colpe di suo cugino Lorenzo, pensando a come, da quello che si era saputo, avesse, anni prima, rifiutato il fratello dopo averlo saputo sposato con la Tigre di Forlì, quando si trovò a guardare proprio verso la tomba di Giovanni.

Si era aspettata di non vedervi davanti nessuno, come capitava praticamente sempre, e perciò si sorprese non poco nello scorgere, invece, una donna e un ragazzino.

Incuriosita, Lucrezia rimase al suo posto, ma, con discrezione, si mise a osservarli.

La donna era di alta statura, vestita di scuro, quasi a lutto, e il velo che portava in capo lasciava intravedere solo il naso, dritto e importante, e la curva delle labbra, arricciate in una mezza smorfia.

Era protesa verso la lapide, con la punta delle dita di una mano che si avvicinavano alla pietra, ma senza mai toccarla veramente. Sembrava un'immagine sospesa, immobile, così ferma da non respirare nemmeno.

A un certo punto, chinò la testa, le spalle scosse da quello che poteva essere un singulto nel mezzo di un pianto silenzioso. Nel fare così, una sottile ciocca di capelli bianchi scivolò fuori dal velo.

Il ragazzino, invece, la Medici era sicura di averlo già visto qualche volta, proprio lì in San Lorenzo, solo non ci aveva mai fatto davvero caso. Di lui aveva notato sempre e solo la grande bellezza.

Solo dopo qualche minuto Lucrezia collegò le due cose. Era così impossibile pensare, a maggior ragione sapendo che si trovava davvero a Firenze, che quella donna fosse la tanto chiacchierata Tigre di Forlì? Era plausibile che fosse lì senza altra scorta, se non un bambino che, a occhi e croce, doveva avere una decina d'anni?

La fiorentina si concentrò ancor di più sul ragazzino. A quel punto, tutto sembrava incastrarsi alla perfezione. Le tornarono alla mente i pettegolezzi che, negli anni, erano arrivati anche in Toscana, riguardo Giacomo Feo e la sua bellezza statuaria. Chi altri poteva essere, in fondo, quel bambino, se non il figlio di Caterina Sforza e del giovane uomo che era stato in grado di farle perdere la testa e aveva rischiato di farle perdere anche il suo Stato?

Il piccolo, forse sentendosi osservato, voltò di scatto la testa verso la Medici che, sentendosi scoperta, fece finta di nulla, guardando di nuovo verso la tomba che aveva davanti, facendosi il segno della croce e poi tornando verso il portone della chiesa.

Malgrado la voglia di conoscere quella strana donna, Lucrezia non ebbe il coraggio di andare a presentarsi. Ci sarebbero state le occasioni per farlo, si diceva.

Si vociferava che Lorenzo le avesse offerto di andare al suo palazzo, come ospite. La Medici, per quello che sapeva dei loro intercorsi, era pronta a scommettere che la Leonessa non avrebbe accettato. Tuttavia, non era impossibile credere che l'avrebbe rivista in San Lorenzo.

“Andiamo a casa.” soffiò Lucrezia, arrivata all'altezza delle sue due serve: “Voglio stare un po' con mia figlia Maria...”

 

A Caterina sembrava che ogni passo fatto per tornare al palazzo di Alessandra Scali le costasse come scalare una montagna. Il senso di stanchezza con cui ormai si stava abituando a convivere, era acuito dalla tristezza e dalla solitudine.

Anche se al suo fianco c'era Bernardino, che l'aveva scortata nella sua visita in San Lorenzo, la Tigre si sentiva completamente sola e sperduta in un mondo che si rendeva conto di non conoscere più. Anche se avevano cercato, durante il suo viaggio verso Firenze, di raccontarle quello che era successo in Italia durante i mesi della sua prigionia, la donna vedeva tutto come qualcosa di estraneo a lei.

Trovarsi davanti alla tomba del suo terzo marito, poi, l'aveva ripiombata nella consapevolezza di essere ormai lei stessa parte di un mondo che non esisteva più. Se pensava agli anni in cui aveva dominato su Imola e Forlì, al tempo in cui Giovanni era stato al suo fianco... Le sembrava che si trattasse non solo di un altro mondo, ma proprio di un'altra vita.

Ricordava ancora con una vaga e confusa rabbia di quando aveva chiesto a Pirovano di passare sulla tomba del Medici, quando era stato da lei mandato a Firenze per ragioni di Stato. Sapeva che Giovanni da Casale l'aveva fatto, perché all'epoca faceva tutto quello che lei gli ordinava. Si era illusa, in quel periodo, di aver di nuovo trovato qualcuno a cui aggrapparsi nei momenti del bisogno,e invece quell'uomo si era trasformato solo in una delusione cocente.

La Sforza e il figlio stavano imboccando l'ultima svolta, prima di tornare al palazzo, e la Tigre sentiva gli occhi ancora pizzicare e sapeva che il loro rossore avrebbe attirato l'attenzione di tutti gli abitanti della casa. In altri tempi, avrebbe trovato una scusa per aspettare abbastanza da ricomporsi del tutto, ma non aveva più né la voglia né l'interesse a mascherare troppo le proprie debolezze.

Bernardino non diceva nulla, rispettando il silenzio della madre. Le stava accanto senza mai intralciarla, né superarla, osservandola di soppiatto.

L'aveva vista piangere, in chiesa. Si trattava di qualcosa a cui non era avvezzo. Se n'era quasi spaventato, ma poi si era reso conto che lui stesso, la prima volta che si era trovato davanti a quella lapide, aveva fatto la medesima cosa.

Aveva studiato con attenzione i suoi movimenti, notando come sembrasse desiderosa di sfiorare la pietra tombale del Medici, senza, però, trovarne mai il coraggio, quasi che se avesse sentito la solidità della lapide sotto le dita, la realtà dei fatti sarebbe stata troppo pesante per poterla sopportare.

Anche al piccolo Feo, in effetti, era scivolata una lacrima sulla guancia, mentre era intento a seguire le mosse della madre, ma la donna non se n'era accorta, troppo concentrata su se stessa per poter avvedersi di altro.

Quando erano usciti da San Lorenzo, Bernardino le aveva mostrato da che parte passare per non trovarsi proprio davanti alla casa di Lorenzo il Popolano, e da lì era stato facile attraversare la città senza essere notati da nessuno.

L'unica persona che sembrava aver provato un attimo di interesse per loro, era stata una donna, in chiesa. Il Feo era sicuro di averla già vista, proprio lì in San Lorenzo, ma non aveva idea di chi fosse. Per il resto, era filato tutto liscio.

“So che abbiamo molte cose di cui discutere – disse piano Caterina, quando arrivarono al palazzo della Scali e Fortunati le si fece incontro facendole presente che la stava aspettando – ma adesso non ci riesco...”

Bernardino per primo fu sorpreso dal tono usato dalla madre e, ancor di più, nel vederla andare verso la propria stanza, dedicando un saluto appena a Bianca e Giovannino, che si era messo a correre verso di lei.

La Leonessa si era chiusa in stanza da parecchio, ormai, quando sentì qualcuno bussare. Era seduta sul letto, la schiena appoggiata alla testata, e stava solo fissando la finestra, senza vedere nulla se non il cambiare della luce con il passare delle ore.

Quando Galeazzo si annunciò, la Sforza gli disse di entrare pure e, cercando di darsi un tono, si alzò e gli andò incontro.

“Non siete venuta a pranzo...” spiegò il ragazzo, posando sulla scrivania un vassoietto su cui troneggiavano dei pezzi di formaggio, del pane bianco e una caraffina di vino: “Non sapendo se sareste uscita di camera per cena, ho pensato di portarvi qualcosa.”

La Tigre guardò il cibo e poi il ragazzo. Aveva le gote un po' rosse e il viso lungo denotava una certa timidezza che, come sempre, il Riario cercava di mascherare con un tocco di alterigia che un po' stonava, con i suoi sedici anni non ancora compiuti.

“Perdonami se sono...” cominciò a dire la donna, faticando a trovare le parole: “Se sono... Se è così difficile avermi qui.”

“Non è così.” si affrettò a ribattere lui.

“Non è facile riabituarsi al mondo, alle persone...” la voce di Caterina era sottile, come se stesse parlando tra sé, più che con il figlio: “Non mi piace pensare che tu mi veda debole, ma la prigionia a cui mi hanno costretta mi ha resa più vulnerabile...”

“Madre – riprese Galeazzo, raddrizzando un po' le spalle – voi non siete debole. Siete sopravvissuta a una prigione che avrebbe ucciso chiunque.”

La Sforza lo guardò per qualche istante, cercando nei suoi limpidi occhi verdi qualcosa che le sfuggiva. Voleva capire quanta compassione ci fosse nelle sue parole e quanta convinzione.

“Non avrei dovuto rinviare il discorso con Fortunati – fece lei, deglutendo – un tempo non l'avrei fatto... Anche se sono stanca io devo...”

“Non c'è nulla che dobbiate fare, tanto meno in fretta.” la giustificò il ragazzo, abbassando la testa e scuotendola appena: “La nostra priorità era sapervi salva, e la siete. Tutto il resto è in più.”

Caterina fece un paio di respiri profondi. Il figlio aveva mantenuto il suo fisico slanciato e, anche se verosimilmente non aveva potuto far pratica con un maestro d'armi, era evidente che in quei lunghi mesi aveva comunque fatto esercizio da solo.

Posandogli una mano sulla spalla, la Leonessa gli disse: “Ormai sei davvero un uomo, Galeazzo, e sono fiera di te.” gli diede poi un buffetto affettuoso: “I tuoi fratelli sono tutti in salute. Sapevo che era la scelta giusta, affidarli a te.”

“Io non ho fatto molto...” tentò di minimizzare lui.

“Lo credi tu.” ribatté la milanese e poi, malgrado il senso di nausea che la perseguitava da tutto il giorno le stesse togliendo un po' la fame, gli propose: “Mi aiuti a mangiare tutto quel formaggio? Io da sola non posso farcela...”

Il Riario apprezzò l'offerta e, annuendo subito, accettò il pezzetto di formaggio che la madre gli stava offrendo.

Per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, finalmente madre e figlio potevano tornare a condividere un momento semplice e familiare assieme. La gioia era tale che nessuno dei due sapeva cosa dire, ma anche il silenzio, inframmezzato solo da qualche occhiata, parve a entrambi la cosa più bella del mondo.

 

“Dici che era davvero la Sforza?” chiese Jacopo, mentre la moglie lo aiutava togliersi il giubbone.

Quel pomeriggio, dopo pranzo, il Salviati era stato impegnato con questioni di politica fino a tardi, benché fosse sabato, e solo passata anche l'ora di cena era riuscito a tornare dalla moglie.

“Secondo me sì – confermò Lucrezia – non vedo quale altra donna forestiera dovrebbe avere interesse a fermarsi sulla tomba di mio cugino...”

“Dici che era straniera?” chiese, pleonastico, l'uomo.

“Di Firenze no di certo.” confermò la Medici: “E poi il ragazzino che era con lei... Te l'ho detto, secondo me era il figlio del Feo.”

“Certo che da come me l'hai descritta...” soffiò Jacopo, sollevando le sopracciglia.

Ricordava ancora molto bene la donna furiosa e travolgente che era entrata alla Signoria un giorno di molti mesi prima, picchiando il pugno sul tavolino del Gonfaloniere, chiedendo invano di essere ascoltata. Pensare che fosse diventata come Lucrezia gliel'aveva descritta gli faceva uno strano effetto.

“In fondo è stata rinchiusa parecchio...” constatò la Medici, mentre il marito si sedeva sul letto per togliersi i calzari: “C'è da stupirsi che sia ancora viva, se i racconti che fanno delle celle di Castel Sant'Angelo sono veri...”

“Ma pensi davvero che il papa possa rinchiudere una donna in una cella sotterranea senza finestre per oltre un anno?” chiese, stupito, il Salviati.

“Tu credi che un uomo come Rodrigo Borja non ne sia capace?” rimbeccò la donna.

Lasciando cadere l'argomento, mentre Jacopo continuava a prepararsi per la notte, arrivarono a discutere dell'offerta che Lorenzo Medici aveva fatto alla Tigre di Forlì. Ormai era una cosa di dominio pubblico e, benché fossero passati appena un paio di giorni, sembrava che il Popolano fosse già in un discreto imbarazzo per il silenzio della donna.

“Non credo che accetterà mai...” concluse il Salviati, che vedeva nella riottosità della Leonessa una gran dose di buon senso, dato che lui per primo non si sarebbe mai fidato del cugino di sua moglie.

“Dici che Caterina Sforza potrebbe essere utile alla nostra causa?” domandò di punto in bianco Lucrezia, incrociando le braccia sul petto, stando davanti al marito, seduto sul letto.

“Che intendi?” chiese lui, confuso.

“Quella donna è nemica di Lorenzo, che di certo non è nostro amico, visto quello che ha fatto a mio fratello...” soppesò lei.

“Perché devi buttare sempre tutto in politica?” domandò il Salviati, grattandosi la guancia che si stava facendo ispida di barba, dopo la lunga giornata.

Sedendosi accanto a lui, Lucrezia rispose: “Perché la politica è la linfa vitale di questa città e della mia famiglia.”

“Credevo che la linfa vitale della nostra famiglia fosse il nostro amore.” ribatté, fintamente piccato, l'uomo.

La Medici lo fissò un momento, per capire quanto fosse serio. Nel suo sguardo, da uomo buono, non lesse nessun rimprovero, ma solo il desiderio di non essere sempre scavalcato dagli affari e dal desiderio bruciante di Lucrezia di rifare grande il nome della sua famiglia d'origine.

Perciò, ammorbidendosi un po', la donna gli diede un breve bacio e, posandogli possessiva una mano sulla coscia, sussurrò: “Da quando pensi che fare il filosofo con me serva per sedurmi?”

Colto un po' alla sprovvista, il Salviati diede in una risatina profonda e, accarezzandole i capelli, ricambiò il bacio e scherzò: “Da quando pensi che mi serva un espediente per sedurti?”

La Medici avrebbe voluto fare una battuta salace per vincere quello scambio di domande retoriche, ma la rinnovata consapevolezza di avere al suo fianco un uomo come pochi, le mise in corpo una strana ansia.

Ripensava alla Sforza – perché ormai era certa che fosse davvero lei – che nemmeno riusciva a sfiorare la lapide di suo marito Giovanni. Anche lui era stato un uomo intelligente, gentile e buono, proprio come Jacopo.

Abbracciando d'istinto il marito, Lucrezia gli sfiorò l'orecchio con le labbra e gli bisbigliò: “Sei un uomo tranquillo e di saldi principi. Sei buono, onesto e giusto. Malgrado il tuo cognome, non poteva esserci marito al mondo migliore di te, per me.”

Jacopo non volle far caso a quel malgrado il tuo cognome che lo riportava indietro di anni, all'ombra lanciata sui Salviati dalla loro connivenza coi Pazzi e partecipazione alla congiura in cui era morto Giuliano Medici, zio di Lucrezia. Non volle pensare a nulla di negativo, solo alle labbra di sua moglie che cominciavano a cercarlo con maggiore urgenza.

“Hai già dato la buona notte a Elena?” le chiese, alludendo alla loro figlia più piccola.

“Sì.” annuì la Medici, mentre Jacopo iniziava a sollevarle un po' il bordo della veste da notte: “E ho anche fatto di nuovo gli auguri alla nostra Maria per i suoi due anni...”

“Sei la moglie migliore che esista...” soffiò lui, la voce un po' strozzata, mentre lasciava spazio più ai suoi gesti che non alle sue parole, per dimostrare quello che provava anche dopo quindici anni di matrimonio e un discreto numero di figli.

Lucrezia non lo frenò, anzi, lo seguì subito, accendendo ancor di più il suo desiderio e chiedendosi, quasi con leggerezza, se quella non fosse l'occasione per provare ad allargare di nuovo la famiglia.

 





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