La
luce del sole dell’alba illuminava il limpido cielo azzurro e i
raggi dell’astro si infiltravano nella cella.
Alessandro
Berselli si sollevò dal suo giaciglio e alzò lo sguardo
verso la finestra.
Per
alcuni istanti, restò immobile, le mani giunte, come in
preghiera. Tanti pensieri si accavallano nella sua mente.
Il
giorno della condanna sua e dei suoi compagni era giunto, puntuale,
crudele, inesorabile.
Quella
giornata fredda, ma serena, avrebbe veduto la conclusione del suo
percorso terreno.
Non
aveva timore della sua prossima morte.
La
sua vita, per quanto fiorente di promesse e speranze, era una inezia
rispetto al comune obiettivo suo e dei suoi compagni.
–
Italia…
Italia unita… – sussurrò, lo sguardo fisso
davanti a sé. Quelle due parole rappresentavano il faro della
sua esistenza, fin da quando aveva cominciato a comprendere le
condizioni del suo paese.
Pur
di contribuire a questo processo, aveva rotto il fidanzamento con
Laura Abbati, la figlia di Carlo Abbati, ricco orefice.
Sospirò.
Di lei ricordava ancora la figura prosperosa, seppur non grassa, e il
suo volto dai lineamenti regolari, circondato da una massa opulenta
di capelli neri.
Non
aveva dimenticato il suo sguardo cupo, ardente d’amore,
ombreggiato da lunghe ciglia curve.
Laura,
oltre quel corpo voluttuoso, racchiudeva un animo gentile e generoso.
Lo
avrebbe seguito, ne era certo, ma lui aveva preferito fingere un
repentino innamoramento per un’altra donna, pur di distruggere
quel sentimento.
Il
suo cuore, di solito fermo, tremava alla possibilità di
un’offesa a lei.
–
Perdonami,
mia bella. – mormorò. Ne era certo, lei aveva sofferto,
a causa del suo presunto tradimento, ma era meglio così.
Lei
non avrebbe subito alcun danno, perché non lo meritava.
Inoltre,
per quanto limpido, il suo sentimento per lei svaniva davanti alla
spropositata grandezza del suo sogno.
L’Italia
doveva essere unificata e liberata dalla tirannia delle potenze
straniere.
Ormai,
il tempo era giunto.
–
Solo
in una terra unita, saremo tutti liberi. – mormorò. Ne
era sicuro, con la cacciata dello straniero, tutto sarebbe stato
diverso.
Nessuno
avrebbe conosciuto l’angoscia di una eterna simulazione.
Per
questo, non si pentiva di avere partecipato ad una rivolta.
Il
suo solo errore era stato l’accordo con Francesco IV d’Este,
duca di Modena e Reggio.
Di
quella fiducia così avventata si pentiva, perché aveva
condannato a morte tanti giovani, senza alcuna utilità per il
loro sogno.
Il
rumore di passi echeggiò nel silenzio e due guardiani si
avvicinarono alla prigione.
Alessandro,
a passo rapido, uscì e porse le mani ai due militi.
Questi
alzarono i sopraccigli, perplessi. Quel giovane alto e robusto, dai
folti ricci castani, aveva assunto un contegno dignitoso, seppur
velato di malinconia.
Era
ben diverso dal fanatico assassino che, con fierezza, aveva
rivendicato il suo ruolo nella congiura che, per poco, aveva ucciso
il duca.
Eppure,
erano la stessa persona.
Come
era possibile un tale contegno in un individuo simile, che non aveva
supplicato la grazia per il suo crimine?
Anzi,
aveva quasi invocato la pena capitale a gran voce per se stesso e non
si era sottomesso alla giustizia del tribunale, proclamando la sua
fede nell’Italia unita.
–
E’
triste. Un giovane come te avrebbe avuto diritto a ben altro futuro.
– dichiarò un guardiano, dispiaciuto.
Sbarrò
gli occhi, perplesso. Perché aveva detto quella frase?
Aveva
compianto il destino di un assassino e di un fomentatore di
disordini!
Alessandro
sorrise e lasciò che i due gli legassero le mani dietro la
schiena. Quasi provava piacere nel sentire le corde strette attorno
alle sue braccia.
Pur
essendo in celle separate, quelle fibre costituivano un legame coi
suoi compagni.
Sì,
l’unione dei cuori avrebbe permesso loro di affrontare la pena
con serenità di spirito.
–
Il
mio destino è certo. E io l’attendo con intrepidezza e
maschio coraggio.* – rispose calmo. Forse, la loro azione non
era stata vana e aveva colpito gli oppressori.
Sì,
il loro sangue non era stato vano e avrebbe contribuito alla
costruzione d’una Italia libera dal piede dello straniero.
Poteva
spegnersi libero da rimpianti e rimorsi.
Le
guardie, dopo averlo legato, lo guidarono fuori dalla prigione.
Diverso
tempo dopo, Alessandro, a passo rapido, si avviò verso il
patibolo.
I
guardiani, sempre più sorpresi, posarono lo sguardo su di lui.
Aveva mantenuto un contegno stoico, malgrado la sua sorte già
scritta.
E
anche i suoi compagni erano stati coraggiosi e fermi, degni di
ammirazione.
Salì
le scale, accompagnato dai guardiani, e collocò la testa sotto
il cappio. Presto, tutto sarebbe terminato.
Riusciva
a vedere i volti dei suoi genitori, morti in un incendio durante la
sua infanzia, e dei suoi cari amici.
Accennò
ad un sorriso. Lui era stato ateo e aveva creduto nella fine di ogni
cosa, con la conclusione dell’esistenza.
Si
era sbagliato? Era un’immagine distorta della sua mente?
Non
lo sapeva.
Sarebbe
bello sbagliarsi su questo. Chissà…, pensò.
Non gli dispiaceva credere nella possibilità di un
ricongiungimento con le persone da lui amate.
Per
alcuni istanti, il corpo di Alessandro ondeggiò, come un
pendolo, poi rimase immobile, come un pupazzo torturato in un gioco
crudele.
P.S.:
non mi piace.
Mentre
sentivo un servizio di RaiStoria sulla Destra storica, ho pensato a
Ciro Menotti e ho scritto questa breve storia.
Infatti,
il protagonista è ispirato a lui. (la città è la
stessa. Mi perdonino i modenesi se ho scritto castronerie)
*
la frase che ho citato è di un altro coraggioso patriota,
Emanuele de Deo, di cui sono orgogliosamente conterranea, impiccato a
22 anni ai tempi della Repubblica Partenopea.
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