Frammenti di Specchio

di Registe
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Capitolo 12 - Il diavolo è nei dettagli







Freki








I resti del piccolo convoglio da trasporto erano sparpagliati tra le piattaforme del quindicesimo e del quattordicesimo livello, ad appena qualche blocco di distanza dal punto in cui Vexen e Freki erano sfuggiti per un soffio alla polizia di Coruscant.
A Vexen ricordava la carcassa di un animale sventrato. Solo che in quel caso i cacciatori non si erano limitati ad abbattere la preda, ma avevano sfogato tutta la loro rabbia sulle sue spoglie, facendole a pezzi e spargendo ovunque arti e brandelli di interiora.
“Deve essere stata colpita in pieno dalle torrette orbitali.”
Si sporse con cautela dal bordo della piattaforma per osservare i livelli inferiori. Sotto di lui il cimitero di circuiti e frammenti di metallo si estendeva a perdita d’occhio sui camminamenti arrugginiti, ma i pochi passanti frettolosi non sembravano prestarvi particolare attenzione. A quell’ora della mattinata, a ridosso del pranzo, i Bassifondi erano più quieti del solito. Sarebbero progressivamente tornati a brulicare di attività con il calare delle tenebre.
“Non solo quello.”
Freki emerse dal relitto della cabina di comando strofinandosi le mani con un panno di tela. Portava la giacca di pelle legata intorno alla vita e le maniche della casacca arrotolate fino al gomito. Sui pantaloni esibiva diverse chiazze di un nero oleoso.
“Anche predoni e rivenditori di rottami hanno fatto la loro parte. Tutti i pezzi di valore o ancora utilizzabili sono stati portati via.”
Era stata zia Layla, la mirialan proprietaria della Discarica, ad indirizzarli sulla pista giusta. Un cliente affezionato le aveva regalato un set di giunti di potenziamento esausti da aggiungere alle decorazioni sulla facciata del locale, spiegando di averli trovati sul luogo d’impatto di un trasporto extra atmosferico abbattutosi nel settore soltanto il giorno prima. Le coordinate dell’incidente erano incredibilmente vicine al punto in cui Freki avrebbe dovuto incontrare i suoi misteriosi contatti.
“Ricapitoliamo.”
Un paio di passi e la donna gli fu accanto sul bordo della piattaforma, le braccia conserte e lo sguardo pensieroso.
Immettendo poche chiavi di ricerca nel fedele datapad, Vexen aveva scoperto che la misteriosa mercenaria apparteneva alla specie dei pantorani, umanoidi originari della luna Pantora, satellite di un pianeta ghiacciato dell’Orlo Esterno; tuttavia, erano relativamente diffusi in tutta la Galassia conosciuta. Le nuove informazioni acquisite non lo aiutavano a fare luce sul mistero della sua involontaria compagna di viaggio, ma ogni briciolo di conoscenza in più rappresentava pur sempre una piccola dose di potere che sarebbe potuta tornare utile in futuro.
Freki iniziò ad enumerare sulle dita i pochi dati in loro possesso. “Trasporto anonimo e senza insegne. Probabilmente i miei contatti si fingono una comune nave privata. Magari dei turisti in visita. Qualcosa però non funziona: forse gli scan della sicurezza planetaria rivelano il numero di serie di una nave rubata, oppure il trasporto non rispetta i protocolli di atterraggio, o ancora l’analisi del navicomputer identifica una provenienza sospetta. Se la procedura corretta è stata eseguita, avranno chiesto loro di identificarsi e di prepararsi a un abbordaggio da parte delle forze di polizia…”
Lo sguardo di Freki scandagliò i pochi quadrati di cielo appena visibili oltre le cime lontanissime dei grattacieli. Aggrottò le sopracciglia, forse rincorrendo con la mente gli ultimi attimi di vita della nave che giaceva a pezzi ai loro piedi. Vexen alzò gli occhi quasi di riflesso, imitandola, ma l’unica cosa che lo colpì fu un’improvvisa e soverchiante sensazione di soffocamento. Decine di chilometri sopra le loro teste, i tronchi dei grattacieli sembravano incurvarsi come enormi avvoltoi di cemento e duracciaio, fissandoli torvi da altezze vertiginose. Vexen si sentì minuscolo e in trappola, e la sensazione non gli piacque per niente.
“... e non ricevendo una risposta soddisfacente, avranno fatto fuoco.”
“Senza poi venire a sequestrare il relitto?” domandò Vexen con una sfumatura di dubbio.
Freki si limitò a fissarlo con un sorrisetto enigmatico. Due linee sottilissime balenarono per un attimo ai lati delle labbra, testimonianza di un’età più matura di quel che poteva apparire in un primo momento.
“Te l’ho detto. Gli imperiali non scendono nei Bassifondi. Questo è il regno dei Sindacati.”
Ancora quella parola, sospesa nell’aria tra di loro come una minaccia spettrale e sinistra. Sindacati. Vexen avrebbe puntato i suoi (inesistenti) crediti sul fatto che anche Freki facesse parte di uno di essi, ma un dettaglio non tornava. La sera prima, quando le aveva medicato le ferite, non aveva trovato tracce di tatuaggi sulle braccia o sul petto. Certo, avrebbe potuto portarlo in un punto più nascosto del corpo, tuttavia… non gli era sembrato che gli altri criminali facessero particolari sforzi per nascondere il marchio sulla propria pelle e, di conseguenza, la propria affiliazione. Tutt’altro. Lo sfoggiavano con l’ostentazione di bestie che spargono il proprio odore per marcare il territorio.
“Direi che non c’è più molto altro da fare, allora.” Vexen cercò di riportare la concentrazione sul problema del momento. ”Abbiamo trovato i tuoi contatti e scoperto perché non si sono presentati all’appuntamento. A questo punto credo che tu non abbia più bisogno di me.”
Freki si strinse nelle spalle. “Forse.”
Il suo volto restava inespressivo, il tono di voce neutro. Non sembrava minimamente turbata dal totale e catastrofico fallimento della sua missione. Doveva essere una professionista, abituata a gestire situazioni impreviste e maestra nel mascherare le proprie emozioni. Ciò rafforzava l’ipotesi che fosse un membro dei Sindacati… oppure un qualche genere di spia.
Ma per chi lavorava?
Lei si girò nuovamente a guardarlo: “I corpi dei membri dell’equipaggio potrebbero avere ancora dei segreti da rivelare… per chi sa come interrogarli.”
Di nuovo quel sorrisetto, stavolta condito da una punta di sfida e da uno scintillio negli occhi d’ambra. Di certo si stava domandando se aveva ingaggiato il medico giusto per l’incarico.
Vexen raccolse la sfida con un cenno silenzioso e le sopracciglia aggrottate, assottigliando appena le labbra.
Gliel’avrebbe fatta vedere.
“Io intanto cerco di scansionare ciò che resta del navicomputer” disse ancora Freki, ma Vexen già le aveva voltato le spalle.
Qualcuno dei precedenti “visitatori” del relitto gli aveva già fatto il favore di radunare i corpi in un unico punto, accanto al corpo principale del trasporto distrutto, dove si distingueva la carcassa contorta e annerita della cabina di pilotaggio. Cinque creature in tutto: tre umani, un twi-lek e una creaturina dalle larghe orecchie e il muso porcino di cui Vexen non riconosceva la specie.
Nessun mistero sulle cause della morte: le ossa fracassate e gli abiti carbonizzati raccontavano in maniera più che eloquente la violenza dello schianto.
Vexen si inginocchiò con cautela in mezzo ai detriti per osservare più da vicino. Il poco che rimaneva dei vestiti dei cinque era quanto di più anonimo si potesse trovare in quell’angolo della Galassia. Vexen non si lasciò scoraggiare: girò i corpi uno per uno, sollevò gli arti, esaminò i denti alla ricerca di capsule nascoste. Frugò in quel restava di tasche e cinture, controllò persino negli stivali.
Era sul punto di imprecare per la frustrazione quando la testa di uno degli umani si rovesciò su un lato a causa di un suo movimento brusco. E allora lo vide. La forma del padiglione auricolare, non arrotondata come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma leggermente appuntita nella parte superiore. Colpito da una rivelazione improvvisa, Vexen afferrò il volto del cadavere e lo girò delicatamente. Zigomi alti, viso triangolare dai tratti fini, quasi scolpiti; i capelli erano bruciacchiati e stopposi, ma di colore chiaro e incredibilmente folti e sottili.
Non c’erano dubbi. Quella vittima non apparteneva alla specie degli umani.
Era un elfo.
Gli elfi provenivano da un solo pianeta in tutta la Galassia conosciuta: la Terra II.
Ed erano tutti membri dell’Alleanza Ribelle.
Vexen lasciò andare il viso dell’uomo e represse un brivido, come se si fosse accorto solo in quel momento di aver messo le mani su un cadavere. La lingua, improvvisamente secca, gli si incollò al palato.
Freki era con la Ribellione. Una di loro, o una collaboratrice. Un contatto.
Sussultò accorgendosi che lei gli era arrivata alle spalle, e sperò di non essere impallidito troppo quando si girò guardingo per osservarla.
Quanto sapeva di lui? Era stata inviata dall’Alleanza per dargli la caccia e riportarlo legato e imbavagliato sulla Terra II?
“Forse ho trovato una pista.”
Freki non sembrava far caso alla sua agitazione. Si era seduta su un grosso pezzo di rottame e gli mostrava un oggetto di forma cilindrica, nero e con dei fori da cui si dipanavano dei cavi tranciati. L’unico cavo ancora integro collegava l’oggetto misterioso al datapad di Freki, il cui schermo illuminava di bagliori continui il viso della sua proprietaria. Vexen allungò il collo e scorse lunghe stringhe di lettere e cifre che scorrevano troppo rapidamente perché i suoi occhi riuscissero a dare loro un significato.
“Sono i resti della scatola nera. L’equipaggio ha cancellato i dati anche da qui, ma ci sono modi per recuperarli… con le giuste conoscenze informatiche.”
Vexen si tirò su, scuotendosi la polvere dalle ginocchia. Si sedette accanto alla donna ostentando un moderato disinteresse, ma gli ingranaggi della sua mente avevano cominciato a girare in modo frenetico.
Conoscenze informatiche. Una spia dell’Alleanza, dunque.
No, non era possibile che cercasse lui. Non doveva farsi prendere dalla paranoia. Se lo scopo di Freki fosse stato catturarlo avrebbe avuto mille occasioni per provarci. Avevano dormito nella stessa stanza, dopotutto.
Le fece un cenno di assenso, invitandola a proseguire.
“I dati che ho recuperato sono corrotti e incompleti. Sono riuscita però a individuare i nomi dei membri dell’equipaggio. Tutti falsi ovviamente, per aggirare i controlli imperiali. Il punto però è un altro: i nomi sono sette.”
Vexen sgranò gli occhi. “E noi abbiamo solo cinque cadaveri.”
D’istinto prese a guardarsi intorno, come se da un momento all’altro le due persone mancanti potessero sbucare da sotto le masse di rottami per gettarsi su di loro a blaster spianati.
“Nulla ci garantisce che siano sopravvissuti, ma… “
“... potremmo interrogare i rivenditori di rottami per scoprire qualcosa” completò lei, e per la prima volta Vexen colse una sfumatura di entusiasmo nella sua voce. “So dove trovarne alcuni.”
Era già in piedi e stava riponendo il datapad in una tasca dei pantaloni quando si bloccò improvvisamente, colta da un pensiero improvviso.
“E tu? Scoperto qualcosa di interessante sui corpi?”
Stavolta fu Vexen a sfoderare un sorrisetto ambiguo, sollevando appena un angolo della bocca.
“No. Nulla di nulla.”

 
 




La cella in cui lo avevano rinchiuso era un vecchio magazzino che puzzava di umidità e olio secco di macchinari non più in uso; l’aria giungeva a lui grazie ad un sistema di aereazione vecchio e rumoroso, che spargeva nell’aria un ronzio fastidioso insieme alla polvere che vi si era accumulata nei filtri e che nessuno aveva mai avuto voglia di pulire.
Zexion cercò di respirare il meno possibile.
I metalli pesanti non venivano estratti in quel settore, ma il pulviscolo sottile giungeva persino in quella cella, rendendogli la testa pesante. Cercò di chiamare a sé il poco controllo dell’aria che possedeva, ma oltre ad ottenere un lieve refolo di aria pulita per più di due minuti non riuscì a fare.
Erano trascorse quasi ventiquattro ore da quando i soldati di Saruman lo avevano rinchiuso lì dentro, ed a parte un vecchio droide che gli aveva passato del cibo -mentre una guardia lo teneva sotto tiro- sembrava che il resto della guarnigione si fosse dimenticato della sua esistenza. Aveva provato a dormire un po’, ma la difficoltà nel respirare e nel percepire gli odori si faceva sentire come un bruciore soffuso al centro del petto e nella gola che era certo sarebbe aumentato nel corso delle ore a venire. Aveva camminato su e giù lungo il perimetro della cella per riattivare la circolazione, ma ad ogni passo la guardia puntava il blaster contro la sua persona e questo lo innervosiva.
Una barriera laser spessa quanto il palmo della sua mano lo separava dall’ambiente esterno e si ritrovò leggermente a sobbalzare quando questa si abbassò poco dopo il terzo cambio della guardia e ne emerse una figura seguita da un manipolo composto da sei assaltatori.
L’odore del comandante che lo aveva fatto arrestare gli giunse prima ancora di vedere il riflesso della barriera lungo le sue mostrine rosse.
“Signor Whiteflame, sempre che ormai sia questo il suo vero nome …”
Zexion fece un passo in avanti, facilitando il proprio riconoscimento. Strizzò gli occhi per leggere il nome sulla targa dell’uomo, ma vi era soltanto una serie di cifre e numeri che non gli avrebbe mai permesso di rivolgersi a quella persona in maniera più pacata. Questo si fece portare un pad, lo stesso con cui aveva analizzato i suoi dati durante il loro primo incontro. “… abbiamo contattato la MinoTech Inc. E non ci risulta nessun convoglio diretto ad Onoam negli ultimi anni, men che mai una donazione …”
“Ci deve essere un errore, io …”
“Né tantomeno alcun dipendente che corrisponda al nome di Ienzo Whiteflame. O alla sua fotografia”.
Il ragazzo deglutì.
Sapeva che sarebbe arrivato quel momento.
Il calcio del blaster lo colpì alla tempia, facendolo cadere riverso tra le casse. Inarcò la schiena per provare a rimettersi in piedi, ma una guardia del drappello venne verso di lui, gli afferrò le braccia e gliele torse con violenza dietro la schiena. Gli altri si fecero avanti, e tutti gli puntarono l’arma al petto.
Il comandante si fece di nuovo avanti, e dalla sommità del suo blaster un puntatore luminoso si accese e venne portato dritto contro i suoi occhi, abbagliandolo. Cercò di scuotere la testa, ma l’assaltatore che lo teneva immobilizzato bloccò anche quel movimento. “Il che fa di lei un contrabbandiere. O, peggio ...”
Zexion sentì il rumore della sicura dell'arma che veniva sganciata.
“… un Ribelle”.
“Non sono un Ribelle!”
“Chiunque darebbe questa risposta” tagliò corto il comandante. “Ma i suoi documenti sono contraffatti, ed a meno che lei non abbia una scusa molto, molto convincente in serbo saremo costretti ad arrestarla. Prima lei, e poi qualcuno dei suoi amici minatori. Tanto per farvi capire che l’Impero non scende a patti con voi parassiti”
Il ragazzo maledì dentro la propria testa i Servizi Segreti e tutti quelli che avevano pianificato quella dannatissima operazione; le orecchie ancora fischiavano per il colpo ricevuto, e per quanto cercasse una risposta convincente il cervello sembrava bloccato in una prigione di cotone. Prese una boccata d’aria, ed il sapore della polvere si unì a quello della sua lingua già impastata. Cercò di dirgli ancora una volta di non avere nulla a che vedere con l’Alleanza Ribelle, ma quello che gli uscì fu un sonoro colpo di tosse e la sensazione che qualcosa gli stesse grattando fin sul fondo della trachea; quando fece per alzare la testa si ritrovò il blaster del capitano premuto alla base del collo. “Io dico che qualche ora con i nostri droidi inquisitori potrebbe risolvere la faccenda nel più rapido tempo possibile, signor Whiteflame” fece. Ad un suo cenno due assaltatori si staccarono dal gruppo. “Accompagnatelo nei blocchi di detenzione di superficie. Fate rapporto non appena si deciderà a parlare”.
Zexion non provò nemmeno a divincolarsi quando venne afferrato per un braccio e spinto in avanti. La canna dell’arma di uno dei soldati gli premette subito dietro la schiena, e non ci volevano anni ai Servizi per sapere che i soldati imperiali erano molto più propensi a sparare al primo movimento sospetto che non a chiedersi cosa stesse succedendo. La testa continuava a scoppiargli e seguì i due uomini un passo alla volta, cercando di non innervosirli ed allo stesso tempo di non inciampare nel pavimento accidentato della miniera.
L’ascensore verso cui lo trascinarono era diverso da quello che aveva usato per scendere, e nettamente più angusto. Vi entrarono a stento, ed al ragazzo non sfuggì il fastidioso dettaglio che adesso l’arma era realisticamente piantata tra due costole e che sarebbe bastato il benché minimo sobbalzo per ricevere una scarica mortale. Inspirò ancora quando le porte si chiusero e l’ascensore iniziò a salire nel silenzio più totale; gettò un’occhiata verso destra nel tentativo di contare almeno il numero di piani percorsi, ma la guardia che lo teneva sotto tiro premette ancora di più, costringendolo a fissare la parete metallica davanti a sé e la propria immagine riflessa che ricordava più un pupazzo abbandonato nel deserto di Tatooine da giorni che non una persona.
Poi, con un sobbalzo secco, l’ascensore si fermò.
Trascorsero circa dieci secondi (in cui Zexion sentì il proprio cuore martellargli nel cervello all’impazzata) quando il comlink di uno degli assaltatori emise un suono e l’uomo si portò la mano al casco per ricevere la chiamata. Ne seguirono dei suoni incomprensibili, ma quello chiuse la comunicazione con un cenno del capo.
“L’ennesima cella energetica scarica” disse al compagno. “Mandano un droide ad aprirci. Passiamo per i corridoi di manutenzione”
La scarsità d’aria prese a farsi sentire. Zexion annaspò, cercando di catturare il proprio elemento per recuperare un po’ di forze, ma le gambe iniziarono a tremargli.
Non era mai stato sottoterra per così tante ore in tutta la sua vita, e gli ritornò in mente l’espressione che aveva visto anni addietro sul viso di Xaldin quando, nel corso di una missione, era stato costretto ad accompagnare Lexaeus sotto terra per recuperare qualcosa per conto del Superiore. La faccia dell’elementale dell’aria era congestionata, ed era rimasto per ore in osservazione nel loro laboratorio mentre suo zio cercava di applicargli delle maschere per erogare ossigeno. All’epoca era solo un bambino, ma si era sempre ripromesso di non andare mai in una caverna o nel cuore di una montagna.
Quando lo avevano proposto per questa missione su Onoam non gli era stato ovviamente dato modo di rifiutare.
“Finalmente”
L’ascensore si mosse ancora per un paio di metri verso l’alto, poi dalle porte venne un fischio alto, come se qualche macchinario fosse stato acceso al massimo della potenza. Nell’intercapedine comparve una leggera esplosione di scintille che lasciò un segno scuro sull’armatura di uno degli assaltatori mentre dei dischi magnetici dall’esterno vennero inseriti nello spazio.
Quando le porte si aprirono il suo olfatto non fece in tempo a ringraziare per lo spiraglio d’aria che un segnale di pericolo gli esplose nel corpo. D’istinto si spinse ancora di più contro la parete dell’ascensore mentre qualcosa entrò violentemente nel suo campo visivo e si abbatté contro gli assaltatori.
La scarica di una picca ad energia mandò un’ondata di calore e scintille viola quando si conficcò alla base dell’elmo di uno dei soldati imperiali che mandò un grido assurdo. Il ragazzo trattenne a stento lo stomaco dal vomitare per l’odore di bruciato che partì dall’uomo mentre crollava a terra; l’altro soldato mandò un’imprecazione e fece partire un colpo, ma nonostante lo spazio angusto la picca roteò contro il suo blaster che sparò la scarica al plasma ad un palmo dal punto in cui si trovavano le gambe di Zexion. L’ascensore vibrò pericolosamente e d’istinto il ragazzo cercò con le mani qualcosa a cui aggrapparsi, ma la superficie era liscia e le sue dita si appiattirono convulsamente contro il metallo. La figura che manovrava la picca approfittò del vantaggio e con una sola mano saettò verso il collo del soldato, afferrandolo e spingendolo con violenza fuori dall’abitacolo; quello abbandonò la presa sulla propria arma e cercò di difendersi, spintonando a sua volta l’aggressore, ma qualcun altro dal fondo del corridoio di manutenzione gridò un ordine ed una seconda raffica di laser si abbatté sul soldato imperiale prima che potesse andare sul serio all’attacco.
Ne seguì prima un silenzio innaturale, poi la figura armata venne nella sua direzione. Gea, con ancora la picca in mano, usò il braccio ancora libero per sostenerlo prima che il suo corpo si facesse venire la malaugurata idea di svenire come un pivello. “Dì la verità, ragazzo, ti abbiamo fatto prendere un bello spavento!”
Annuì, cercando di sporgersi in avanti per fare sua la poca aria che filtrava nel corridoio. La donna se ne accorse, perché continuò a sorreggerlo anche quando superarono i corpi degli assaltatori; dal punto in cui era apparsa fecero capolino altri tre minatori, tutti armati, che ad un suo cenno si avvicinarono agli imperiali e levarono loro l’elmo, verosimilmente staccandone i comlink.
Per quanto Zexion avesse visto quella donna solo diverse ore prima non si era accorto di quanto fosse enorme, visto che tutti i suoi sottoposti le arrivavano con difficoltà al collo. “Vi ringrazio” sussurrò, rendendosi conto di quanto sembrasse debole la sua voce “State correndo un bel rischio. Gli Imperiali lo verranno a sapere”.
“A confondere loro le idee siamo piuttosto bravi, ma grazie per il pensiero” sogghignò lei. Si agganciò la picca contro un fianco e prese a muoversi lungo il percorso. Le luci d’emergenza erano fioche e Zexion a malapena riusciva a delineare le forme intorno a sé, ma la donna si muoveva con la sicurezza di chi conoscesse ogni singolo granello di polvere di quel condotto. “Dopotutto hai rischiato tu per primo portandoci quel carico”.
Il ragazzo deglutì.
Ogni parola, da quel momento in avanti, sarebbe stata vitale. “Ho semplicemente eseguito gli ordini della MinoTech. Non ho idea di cosa sia andato storto”.
“Suvvia ...”
Fu certo di vedere il sopracciglio di lei alzarsi “… su una cosa il comandante di quelle teste di latta ha ragione. Da quando in qua i colossi della finanza ascoltano le suppliche di qualche minatore su una luna sperduta dell’Orlo Intermedio?”
“Dunque da dove crede che vengano tutti quei macchinari?”
Si fermò.
Lasciò che il suo olfatto facesse il suo lavoro, ed anche nella polvere e nel sudore dei loro corpi riuscì ad ottenere ciò che stava cercando. Lei abbandonò la presa e si fermò davanti a lui, incrociando le braccia con fare di sfida. “Dalle uniche persone che aiutano senza chiedere nulla in cambio”.
Zexion sorrise.
“Certamente. Ma di certe cose è bene parlarne in privato, giusto?”
“Mi piace come ragioni, ragazzino” disse, assestandogli una pacca alla spalla così forte che per un attimo gli fece rimpiangere la canna del blaster tra le costole. “Benvenuto tra noi!”




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