Six

di __aris__
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Kore vieni, non restare dove non posso vederti.” La voce argentina di Demetra risuonò nella valle fiorita. “Devi stare attenta in queste valli.” La dea tese una mano alla figlia con un grande sorriso.
La piccola Kore si guardò attorno, quella mattina si trovavano in Sicilia, ma non avrebbe saputo dire esattamente dove si trovassero. “Per gli umani madre?” Con loro c’erano una decina di ninfe che avevano il compito di aiutare la dea delle messi nell’esercizio dei suoi compiti, ma per quanto la bambina cercasse non vedeva nessuno oltre a loro.
No Kore: i mortali possono vederci solo se noi lo vogliamo.” Spiegò la dea “Ma qui siamo vicine al lago di Pergusa che è una delle entrate agli Inferi.”
Ma solo i morti possono discendere agli inferi.”
Purtroppo no, bambina mia.” Rispose stringendo di più la mano della figlia. Demetra cercava sempre di non ricordare quel giorno: Estia l’aveva rimproverata a lungo per quei maledetti fiori, forse addirittura per secoli, ma non l’aveva mai ascoltata. La verità era che, dopo il dolore per aver perso il fratello più caro, era arrivata la rabbia: una rabbia furiosa e cieca, che nemmeno il ricordo di Crono era capace di risvegliare. Se ne accorse la prima volta che Ade tornò in superficie: i suoi fratelli non lo notarono, o fecero finta di farlo, ma Ade non era lo stesso uomo che li aveva salutati. Non erano le sontuose vesti scure che lo facevano sembrare ancora più pallido e magro, e nemmeno il suo contegno particolarmente taciturno. Era stato l’odore dolciastro della Morte che lo accompagnava a far capire a Demetra che suo fratello le era stato portato via dal Regno dei Morti. Un Fato che non aveva scelto, ma che importanza poteva avere? L’Ade che aveva amato non avrebbe mai fatto ritorno, lo aveva perso sulle rive del lago di Pergusa “Resta vicino a me, non voglio perderti.”  
Va bene.” rispose gioiosamente Kore trotterellando accanto alla madre. Le due dee raggiunsero un piccolo gruppo di ninfe poco distanti.
Le ninfe al servizio di Demetra erano driadri, sempre allegre e chiacchierecce. Se un mortale le avesse viste tutte insieme, gli sarebbero sembrate tutte identiche: erano tutte bionde, con i capelli morbidamente raccolti da nastri, ognuna aveva gli occhi azzurri, la pelle candida e le guance rosee. Ma gli occhi degli dei erano capaci di vedere le piccolissime differenze che le rendevano l’una diversa dall’altre. Il loro compito era preparare i semi da far benedire alla dea per rendere fertile la terra: ognuna di loro aveva portato un sacchetto con un tipo diverso di semi: erba, fiori o alberi da frutto che si sarebbero dispersi per tutta la regione, per tutta la Sicilia se il rito fosse venuto particolarmente bene.
Kore osservava le ninfe muoversi con leggiadria, i loro movimenti erano leggeri come quelli dei fiori accarezzati dal vento. Ognuna di loro aveva posato un piccolo coccio colmo di semi per terra disegnando un cerchio perfetto, al centro del quale stava la dea delle messi con le braccia alzate mentre recitava le formule segrete dei suoi misteri. Appena ebbe finito i semi splendevano di energia divina: la dea e le ninfe presero in mano un lembo del chitone per raccogliere i semi e spargerli nei dintorni.
Kore, vieni ad aiutarmi.” La bambina iniziò a correre prima che Demetra ebbe finito la frase. Appena raggiunta la madre sollevò la tunica come aveva visto fare ed aspettò che fosse riempita di semi con un sorriso che partiva da un orecchio ed arrivava fino all’altro. “Resta dove posso vederti.” Disse ancora una volta Demetra con un sorriso, la bambina annuì e poi trotterellò via. Dopo qualche passo iniziò a inserire i semi nella terra: con la mano libera scavava per qualche centimetro, poi posava delicatamente il seme e lo ricopriva con la terra. Demetra le aveva insegnato a far germogliare le piante appena Kore aveva iniziato a camminare e lei era diventata brava quasi quanto la madre, ma il suo vero talento erano i fiori: che fossero su un fragile stelo o su un alto albero di albicocche, le bastava passarci vicino per farli sbocciare
Kore stava per finire i semi quando non vide una fila di narcisi neri. Una folata di vento gelido portò via gli ultimi semi. Kore li osservò tornare indietro con la consapevolezza di averli persi per sempre. Adesso le restava solo il seme che aveva in mano. Kore cercò con gli occhi la madre, si era allontanata più di quanto aveva immaginato perché la dea era diventata una figurina chiara sotto il sole, per cui decise di raggiungerla prima che Demetra si accorgesse della sua assenza. La bambina non fece in tempo a fare tre passi che una nuova folata di vento gelido le sollevò la gonna, questa volta parve addirittura sussurrarle qualcosa all’orecchio. Una parte più curiosa di lei avrebbe voluto fermarsi per coprire cosa dicesse quel sussurro, ma doveva tornare da sua madre quindi ricominciò a camminare. Ma, di nuovo, dopo tre passi tornarono il vento gelido ed il sussurro incomprensibile, allora la bambina si fermò sbuffando.
Va bene, va bene! Cosa mi volete dire?” esclamò stizzita “Se questo è lo scherzo di un satiro non affatto divertente!
Per qualche minuto tutto fu silenzio, poi il vento si alzò di nuovo e Kore ebbe l’impressine che a parlare erano i fiori. Incurante del vestito si mise a carponi, abbassandosi fin a quando il naso non sfiorò la corolla. Il profumo era così intenso che in un primo momento il naso di Kore si arricciò infastidito, ricordava l’odore dei gelsomini piuttosto che quello dei narcisi. “Cosa volete dirmi?
Dopo aver aspettato inutilmente una risposta Kore si rialzò. Avrebbe tanto voluto tornare da sua madre, ma sentiva che quei fiori parlavano con lei e non poteva semplicemente voltare loro le spalle e tornarsene sull’Olimpo come se niente fosse. Una giorno Atena le aveva detto di non ignorare mai il suo istinto di dea; lei era la dea della saggezza per cui Kore non aveva mai dubitato della bontà di quel consiglio. La giovane dea alzò gli occhi e vide che i narcisi neri erano disposti lungo una fila precisa che si inoltrava in un bosco. Si girò un ultima volta verso la madre che sembrava ancora impegnata con le sue mansioni, se fosse andato tutto bene avrebbe scoperto dove portava il sentiero di fiori senza che Demetra la scoprisse. Così la piccola Kore si avventurò nell’ignoto lasciando una scia di fiori colorati alle sue spalle, ma appena li oltrepassava i narcisi neri scomparivano nel terreno e di loro restava solo quel persistente odore dolciastro.
 
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Quando Demetra iniziò a cercare Kore il sole aveva appena passato mezzogiorno. Di solito non perdeva mai d’occhio la figlia, ma fecondare la terra nei dintorni del lago di Peregusa aveva richiesto molto più impegno del previsto. All’inizio non si era preoccupata, dopo tutto bastava seguire la scia di fiori appena sbocciati che Kore creava con i suoi passi, ma mano a mano che camminava la paura era cresciuta ad ogni passo: dalla radura era arrivata ad un piccolo bosco e da lì alle rive del lago dalle acque viola.
Ancora al limitare del bosco, aveva chiamato la figlia più e più volte, urlando il suo nome con tutta la voce che aveva in corpo, ma di Kore nessuna traccia. Allora aveva iniziato a seguire il sentiero di fiori fino ad una breccia tra il regno dei vivi e quello dei morti. Lì le tracce finivano nel nulla.
Le gambe di Demetra persero ogni forza e la dea si accasciò come un sacco vuoto.
Nessuna lacrima nei suoi occhi, solo una rabbia tale che solo Era avrebbe potuto capire.
Perché l’Oltretomba doveva rubarle ogni cosa?
Ade, tutto ciò che faceva germogliare sulla terra ed adesso anche la sua Kore. 
Ma questa volta non sarebbe stata inerte mentre le strappavano via il cuore. Questa volta anche il Fato si sarebbe dovuto piegare alla volontà della Dea delle Messi.
 
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Kore avrebbe voluto tornare in Superfice. Sapeva che sua madre sarebbe sicuramente stata in pensiero per lei, e già sentiva la ramanzina che le avrebbe fatto appena fosse tornata sull’Olimpo. Sarebbe stata in castigo per i prossimi cento anni, se non mille!
Il problema era che per quante volte provasse a tornare sui suoi passi o a svoltare in quelle gallerie oscure, sentiva che continuava a scendere. Per un po’ aveva sentito la presenza delle piante attraverso le radici, ma ben presto anche quella sensazione famigliare era sparita. La roccia umida era diventata una pietra scura e liscia. L’aria era fredda ma soffocante, e aveva lo stesso odore dolciastro dei narcisi neri che aveva visto in superfice. Piccoli fuochi blu illuminavano i suoi passi, ma non emanavano alcun calore e quando si voltava vedeva che si spegnevano appena li oltrepassava. Così Kore non aveva altra scelta che seguire quelle gallerie strette, strette sperando che la portassero ad un’uscita.
Quando la galleria si aprì davanti a lei affrettò il passo, ma appena vide dove portava fu paralizzata dalla paura.
Davanti a lei una riva infinita di sabbia fine e nera, un fiume viola scuro che sembrava largo quanto un mare ed un celo rosso sangue privo di nuvole e senza luce. Ma quel paesaggio spettrale non era nulla al confronto delle creature che lo popolavano: una serie di innumerevoli figure nere e trasparenti al tempo stesso si accalcavano sulla riva in attesa di qualcosa o di qualcuno. La dea aguzzò i propri sensi ma non percepì nulla di vivo in quelle figure, anzi più le osservava e più si convinceva che fossero le anime dei morti.
Kore decise che tornare indietro, anche al buio, sarebbe stato meglio di cercare di valicare il fiume assieme a quelle … cose. Ma la galleria, e perfino la roccia nera che l’avevano contenuta, erano sparite. Ingoiando la propria saliva e stringendo al petto l’ultimo seme che le aveva dato sua madre iniziò a camminare sulla rena nera.
Le prime anime che incontrò la ignorarono, altre sembravano non vederla nemmeno, alcune la lasciavano avvicinarsi al fiume mormorando nomi. Forse quelli che gli erano appartenuti un tempo o chiamavano coloro era rimasto in vita, non avrebbe davvero saputo dirlo. Solo dopo Kore vide che tutte avevano gli occhi chiusi da monete d’oro, ma il brivido di ribrezzo che le percorse la schiena a questa scoperta non fu nulla in confronto alla paura che l’assalì quando incontrò le prime anime che non avevano sprovviste delle monete.  
Queste le si avvicinarono con le mani in avanti, come se fossero degli assetati e lei l’unica fonte d’acqua che incontravano dopo giorni di deserto, i loro movimenti erano innaturalmente lenti e quasi scoordinati, ma loro voce era unica. “Dacci l’oro!
Kore mostrò i palmi aperti “Non porto oro! Ho solo questo seme con me.” Disse tremante, ma le anime non sembrarono sentirla. Forse non riuscivano a capirla? Continuavano a chiederle l’oro mentre si avvicinavano inesorabili. Kore scappò fino a quando la sabbia scura non lasciò posto al fiume. “Vi ordino di fermarvi!” urlò dopo un ultima occhiata alle acque tetre. “In nome di Demetra e Zeus fermatevi! Io sono Kore, figlia della Dea delle Messi e vi ordino di fermarvi!” Una parte di lei voleva attraversare quel fiume a nuoto, ma sentiva solo Morte, nessuna Vita, venire da quelle acque. Così chiuse gli occhi, aspettando che le ombre la prendessero.
 Rimase immobile, con gli occhi sbarrati e il cuore che batteva talmente forte da sovrastare le voci di quelle anime disperate ma nessuna le si avvicinò. Esitante aprì prima un occhio e poi, quando fu sicura di non essere in pericolo, l’altro. Le anime erano tutte ferme, in cerchio attorno a lei; immobili, paralizzata da qualcosa che non capiva. Fu solo quando si voltò che vide la causa fi quell’inaspettato miracolo. Un vecchio dalla barba ispida e gli occhi rossi che stava impiedi su una zattera dall’aspetto poco sicura.
La Strega aveva ragione anche questa volta!” la voce dell’uomo era arcigna, le labbra piegate in una smorfia a metà tra la sorpresa e il disgusto.
Chi sei?
Il mio nome è Caronte, Despina. Il mio compito è traghettare le anime.”
Sono davvero negli Inferi quindi?” Non era una vera e propria domanda, sentiva che l’unica cosa viva in quel luogo era il seme nelle sue mani, ma il vecchio rispose ugualmente.
Si Despina.” Adesso poteva sentire una forma di rispetto nella sua voce, una certa riverenza. Ma non ci fece troppo caso, dopotutto era la figlia di Demetra e questo doveva pur valere qualcosa anche nell’Oltretomba.
Perché non mi hanno fatto niente?
Perché voi siete Despina e loro non posso farti del male, le leggi degli Inferi lo impediscono.”
La bambina sbatte il piede destro a terra in un gesto di frustrazione. “Smetti di chiamarmi Despina! Io mi chiamo Kore, figlia della dea Demetra!
Eppure siete Despina e Despina sarà come vi chiamerò. Se volete farmi l’onore di salire sulla mia zattera vi porterò da Ecate come mi è stato chiesto.”
Ma io voglio tornare in superficie.” Non di certo restare in quel regno di morte e incontrare altri suoi abitanti. Lei portava la vita, non era quello il suo posto.
Io possono solo attraversare questo fiume, non è mio compito riportarvi in superficie.”
E sarebbe compito di Ecate?
Non lo so Despina, ma se volete tornare indietro vi servirà il permesso del Signore degli Inferi il cui palazzo si trova sull’altra riva.”
Un brivido gelido percorse la schiena di Kore: non aveva mai incontrato il maggiore dei Figli di Crono, di lui sapeva solo quello che le aveva detto sua madre ed era abbastanza perché lei non volesse nemmeno pensare il suo nome. Chissà come stava in pensiero Demetra in superficie! Però la strada che aveva seguito per arrivare lì era sparita, l’orizzonte di sabbia nera era perfettamente liscio ovunque guardasse. Doveva tornare per sua madre, o almeno farle sapere che stava bene, e per farlo doveva salire su quella zattera malconcia e incontrare il Signore dell’Oltretomba. Con riluttanza salì sulla zattera di Caronte interrompendo un suo sbuffo di impazienza.
State lontana dall’acqua, Despina, è popolata da quegli stolti che hanno cercato di attraversare lo Stige senza pagare il pedaggio.”
Servono a questo le monete d’oro?” domandò cercando in vano un posto dove sedersi.
Esattamente.” Con una vigorosa spinta la zattera si allontanò dalla riva
 “Ma io non ho oro da darti. Però posso darti un seme se lo vuoi, è l’unica cosa che ho.”
A voi non chiederei mai di pagare il pedaggio, Despina. E poi non saprei cosa farmene di un seme. Nulla cresce negli Inferi, qui le cose decadono e basta.”
 
 
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE: ok, non so come scusarmi per aver sospeso questa storia per tanto tempo e so che un capitolo così corto è una magra consolazione. Però la verità è che di tempo e concentrazione per scrivere non ne ho avuto molto.
Adesso, per dimostrare che non mi sono completamente dimenticata di Ade e Persefone in questi anni, mi conviene spiegare da dove nasce il termine despina con cui Caronte si riferisce a Persefone.
Il culto di Demetra e Persefon è generalmente associato ai misteri eleusini, ma ci sono tracce di un culto più antico celebrato in Arcadia durante l’epoca micenea in cui le due dee erano venerate congiuntamente con l’appellativo di le signore. In questo rito non ci sono tracce di Ade (in realtà non ci sono proprio tracce di Ade nella civiltà micenea ma è un discoro). In questo periodo a Persefone è affidato il titolo di despina, la Signora. Più che un nome è un titolo perché solo gli affiliati al culto potevano chiamare la dea con il suo vero nome, come kore è usato per identificare Perdefone nella parte del mito antecedente al rapimento. Perché nominare una divinità dell’oltretomba poteva attirare attenzioni indesiderate e condurre a una brutta fine.
Lezione di storia finita, spero che la storia vi sia piaciuta e che non siate troppo in collera con me. Chiedo scusa per l'impaginazione meno curata ma il mio account di phptpbucket ha smesso di funzionare e devo trasferire tutti i banner e i divisori di testo su un altro sito di hosting. E immagino sia ovvio che ho un piccolo problema di procrastinazione.
Vi ricordo che le recensioni sono sempre gradite e che mi piace sapere cosa pensate.
Grazie per la pazienza e per avermi letto.
A presto
Aris.




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