Splendeva
il sole nel cielo di Napoli, libero da nubi, e un vento fresco,
carico dei profumi autunnali, spazzava le strade della città.
Decine
di persone, assiepate in Piazza Castello, fissavano l’imponente
patibolo ligneo, i volti terrei di commozione ed erano circondati da
.
Sorpreso,
Emanuele scrutava la folla. La disperazione della sua famiglia era
comprensibile, dato il loro legame affettivo.
I
suoi genitori e suo fratello, dilaniati dalla sofferenza, piangevano
la sua giovinezza, sacrificata ad un ideale per loro mortifero.
Non
accettavano il sacrificio da lui affrontato e l’impossibilità
irrevocabile di conoscere l’amore.
Ma
loro, sconosciuti senza nome e senza volto, perché fissavano
tristi la forca?
Per
loro, lui si era battuto, ma non meritava un tale profluvio di
lacrime e dolore.
Era
consapevole della sua futura sorte, ma non ne aveva alcuna paura.
Non
temeva la corda del boia, che, tra poco tempo, avrebbe soffocato la
fiamma della sua vita.
Anzi,
il suo cuore palpitava d’orgoglio e gioia, perché aveva
offerto il suo sangue sull’altare di un nobile sogno.
Libertà.
L’emancipazione
dalle catene della tirannia non era utopia.
La
libertà è un seme robusto seminato nelle grandi
necessità e può germogliare ovunque, dando i suoi
frutti*.
Ed
è meglio morire per lei che vivere da schiavi**.
I
francesi… I francesi ci sono riusciti., pensò.
Cinque anni prima, infiammati da una forte sete di libertà e
giustizia, erano riusciti ad estirpare il venefico giglio borbonico
e, ad esso, avevano sostituito uno splendido tricolore.
Avevano
condannato a morte il sovrano Luigi Capeto e la sua degna consorte
austriaca, che pure si vantavano di un inesistente diritto divino.
Grazie
al loro esempio, i monarchi e le corti d’Europa avevano
conosciuto il freddo d’un concreto brivido di paura e non
consideravano più il loro potere immutabile, come il corso
delle stagioni.
Potevano
pagare per i loro errori e le loro nobili stirpi non costituivano più
uno scudo al gelido e preciso sguardo della Giustizia.
Loro
erano riusciti in questa impresa, perché non poteva scoppiare
una simile rivolta nel regno di Napoli?
La
sua mente si perse nei ricordi. Quegli eventi, accaduti in Francia,
erano per lui un segnale.
Il
popolo non doveva più lasciarsi ammansire dai monarchi, ma
doveva diventare padrone delle sue scelte.
Per
questo, pur consapevole del pericolo, non aveva esitato ad attivarsi,
per preparare il terreno ad una simile rivolta.
Non
si era limitato allo sfregio di un ritratto del tiranno borbonico,
durante una cena.
Ne
era cosciente, non sarebbe bastato un simile atto, coraggioso sì,
ma privo di qualsiasi ricaduta pratica.
A
stento, trattenne un sospiro. Il loro sogno si era dissolto.
Ed
erano stati condannati alla pena capitale.
Nemmeno
la difesa del valido giurista Mario Pagano era valsa a strappare alla
morte lui e i suoi compagni.
Fissò
un rapido sguardo sui suoi compagni e sorrise. Anche loro attendevano
la morte senza paura.
Erano
uniti in un ideale puro e, in nome di tale ideale, sarebbero morti.
In
fondo, la morte reca orrore a chi non ha saputo ben vivere.***
*citazione
adattata di Langston Huges, poeta afroamericano impegnato nella
denuncia del razzismo.
**
frase di Bob Marley
***frase
scritta da Emanuele De Deo nella lettera da lui inviata al fratello
Giuseppe, per dirgli di non intercedere per la sua vita.
La
mia tesi di laurea magistrale mi ha portata a conoscere in parte il
Risorgimento e, tra i suoi precursori, c’è anche questo
ragazzo, Emanuele De Deo, di cui sono orgogliosamente conterranea. A
lui è dedicato questo breve racconto e non penso esprima la
grandezza e la nobiltà del suo animo, malgrado la sua giovane
età:
Per
odio verso i Borboni e sincero spirito liberale, Emanuele De Deo, ad
una cena, sfregiò il ritratto di Ferdinando IV, proferendo
minacce, e aderì ad organizzazioni desiderose di porre termine
al dominio borbonico.
Fu
catturato e, nonostante la difesa del giurista Mario Pagano, fu
condannato a morte e impiccato il 18 ottobre 1794. Si può dire
che fu uno degli antesignani della sfortunata Repubblica Partenopea
del 1799.
La
lettera di Emanuele De Deo è questa:“Mio
caro Fratello, perché dirmi disgraziato? Perché
attribuirmi questo nome? Se considerate la perdita d’un
fratello, convengo con voi; ma se tale mi chiamate per il destino che
seguo, caro fratello, v’ingannate. Io la mia sorte l’invidierei
negli altri: ciò vi basta per farvi comprendere la
tranquillità dell’animo mio nell’abbracciare il
decreto della suprema giunta, e del mio e vostro Sovrano. La
morte reca orrore a chi non ha saputo ben vivere.
Chi ha la coscienza senza rimorsi, gioisce in quel punto che i
malfattori chiamerebbero terribile; e poi noi non siamo eterni,
presto o tardi si muore; né la durata della vita dovete
determinarla da replicati giri del Sole, un anno di vita di un uomo
onesto e socievole eguaglia cento d’un Misantropo, d’un
egoista; e pure il paragone mi sembra incompatibile: grazie al
Reggitore del tutto. Non v’è persona che potesse
credersi da me oltraggiata o lesa. Ho adempito alle mie obbligazioni
verso chiunque aveva dritto di esigerle. e non mi sono giamai
dimenticato di essere Cittadino ed uomo.”
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