Quella sera l’aria gelida penetrò nelle mie ossa
senza neppure chiedermi il permesso. Si infiltrò,
vagò qua e
là con spensieratezza, eppure i suoi movimenti eleganti
celavano come delle martellate nel mio corpo esile.
Mi rifugiai all’interno del grande teatro ove ero diretta, i
miei passi strisciavano sulla neve che ricopriva
tutto il vialetto. Scostate le tende, l’aria di pulito e
nuovo si ravvivò completamente, le mie guance
tornarono ad acquisire un colorito umano.
Con le braccia conserte mi diressi al solito corridoio, poi al solito
ascensore, ed infine alle solite poltrone
della solita sala. Quest’ultima era piena zeppa come al
solito, bisognava contendersi l’ultimo posto con i
denti. Ne ero a conoscenza, sapevo bene come andavano le cose, erano
passati tanti mesi ormai:
nonostante ciò decisi di sedermi sulla scalinata, lasciando
l’occasione ai nuovi arrivati di godersi lo
spettacolo come si deve.
Ed ecco che le luci iniziarono ad abbassarsi, le madri ordinavano ai
bambini di fare silenzio, altri spegnevano
i cellulari, altri ancora alzavano la schiena e pazientavano con occhi
curiosi il sipario dividersi in due.
L’orchestra iniziò a suonare pian piano, ci tese
la mano pronta ad accompagnarci in quel viaggio pieno di
stupore e meraviglia. Ogni qual volta la scena avesse occasione di
variare, uno strumento si aggiungeva a
quelli precedenti e il volume aumentava, fino a fondersi finalmente con
la scena. Ballerini di tutte le età
sfoggiavano i migliori abiti di scena mai visti, accessori brillanti e
scarpe lucide accompagnavano le eleganti
acconciature.
Si prendevano per mano, i loro gesti e i loro sguardi sembravano
interagire con il pubblico. Mi voltai a
controllare quest’ultimo, e come sospettavo erano tutti
stupiti dalla bravura dei ballerini e dalla
scenografia. Era impossibile distogliere lo sguardo, questo era il
segreto della Compagnia: apparire. Ed ecco
finalmente che, la tanto attesa e discussa protagonista,
troneggiò al centro del palco in attesa che i ballerini
la scortassero in primo piano, le sue ciglia lunghe erano posate
gentilmente sulle guance rosee.
Dunque iniziò a danzare, a muoversi con cotanta eleganza da
ricordare le fattezze di un cigno. L’orchestra
non le attribuiva la meritata melodia, i principi al suo fianco le
erano d’intralcio, il palco era troppo piccolo
per lei. La sua pelle sembrava riflettere la luce dei riflettori, i
suoi occhi erano calamite per gli spettatori:
tutti ne erano infatuati, soprattutto chi attese con esagerata
impazienza il suo arrivo. Danzò con leggerezza
ed apparente semplicità, bramando l’attenzione del
pubblico e dei ballerini che incorniciavano la sua aura
divina.
Solo nel momento in cui la musica cessò per qualche istante
– così da dare il via al secondo atto –
gli sguardi
dei presenti si incupirono, le sopracciglia aggrottate. Ora che la
ballerina terminò di danzare ed iniziò a
svanire dietro il sipario, il suo volto fu sotto l’attenzione
di tutti: le labbra morbide e lucide erano legate tra
loro da fili, del sangue rigava il mento ed il collo con gentilezza. I
suoi occhi scuri erano immersi nel vuoto,
solo una piccola scintilla – quasi a dimostrare che non
fossero spenti del tutto – affiorò con audacia,
come
se non le fosse permesso.
La osservai con attenzione, ma ogni sera succedeva la stessa cosa.
Sperai che recarmi lì per assistere più
volte al suo spettacolo potesse cambiare il suo destino, eppure ormai
sembrava parte integrante del
copione. Non una persona si allarmò, non una parola
pronunciata, non un verso, un segno, qualsiasi cosa.
Come da consuetudine, mi alzai e la raggiunsi nei camerini; persino
quando era seduta appariva come una
splendida dama. Posava un fazzoletto con delicatezza sulla bocca rossa
e decidi di aiutarla, le chiesi di
pazientare ancora un po’. Non si azzardò ad
assecondarmi, le sue azioni seguivano la trama della sua vita
come quello spettacolo a cui aveva lavorato tanto. Rimase in silenzio
mentre le accarezzai il volto liscio e
dai lineamenti gentili che, ahimè, contrastavano con i
lunghi fili delle labbra. “Sono qui per il tuo spettacolo,
è vero, ma prova a sorridere”, suggerii cambiando
il fazzoletto. Sapevo bene quanto ci avesse provato, era
per questo che il suo volto si tramutò in un disastro dai
colori tetri. Afferrò l’elastico che teneva
fedelmente al polso così da giocarci con le dita con
trepidazione e, dopo aver
fissato con sguardo perso il pavimento per minuti interi, mi
guardò e scosse la testa più volte.
“Eppure quando danzi sai esprimerti così bene,
cos’è che cambia? Non sei certo muta, smettila con
questa
farsa”, mi innervosii e le rubai l’elastico dalle
mani, iniziò a tremare visibilmente: la terrorizzai. Le sue
labbra
ripresero a sanguinare ogni qualvolta cercasse di pronunciare qualcosa,
finché non smise ed accettò il suo
destino. “Provaci, anche se fa male prova a parlare o a
sorridere”, suggerii restituendole l’elastico per
capelli; lo custodì con gelosia nella tasca del vestito
color salmone. Scosse nuovamente la testa, mi afferrò
le mani e mi osservò con sguardo stanco, rassegnato. Tornai
a danzare, il pubblico stava aspettando.
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