Incliti
lettori,
un
po’ di mappazzone per non perdere l’abitudine. Come sempre
ringrazio chi mi sta seguendo, con particolare trasporto emotivo nei
confronti di chi mi lascia anche un commento.
Il
rumore della sirena ebbe il potere di riscuotere definitivamente the
Bishop dal torpore. L’uomo si sollevò sulle braccia, si guardò
intorno e per prima cosa vide i corpi dei due piantoni, entrambi con
il collo in una posizione innaturale. Ragionò fra sé e sé che se
il dannato Werwolf non fosse stato suo nemico giurato, gli avrebbe
senz’altro chiesto di insegnargli quel trucchetto.
In
ogni caso, le sentinelle erano stecchite e i due tedeschi finiti
chissà dove.
Ebbe
un moto di stizza: persino quell’inutile ragazzetto petulante al
momento giusto era riuscito a creargli un problema. Si rammaricò di
non averlo ucciso quando aveva appurato che non aveva nessuna
informazione utile da fornirgli.
“Sono
troppo buono,” sospirò a mezza voce.
Scavalcò
il corpo di uno dei piantoni, rientrò nella stanzetta e andò alla
ricerca della torcia. La accese e fece scorrere il pennello di luce
nel corridoio: una fila di piccole macchie rosse si perdeva
nell’oscurità, segno che la sua pallottola, dopotutto, qualcosa
aveva colpito.
Egli
la seguì cauto. In certi tratti le gocce erano più rade, segno che
i due si erano mossi più velocemente, in altri ce n’erano di più.
In un punto, di nuovo in corrispondenza di un corpo dal collo
spezzato, il sangue aveva formato una piccola pozza.
Non
aveva usato una pallottola d’argento, ma a quanto pareva il Lupo
Mannaro ne aveva risentito ugualmente.
Di
nuovo rivolse un pensiero infastidito all’ufficialetto: se non
fosse saltato su con quel suo stupido strillo, probabilmente il
Werwolf avrebbe smesso una volta per tutte di essere un problema per
la Corona.
Fuori
c’era parecchia agitazione, il che non era un bene, naturalmente.
Nel buio e nella confusione, sarebbe stato più facile per i due
tedeschi, anche feriti e malconci com’erano, far perdere le loro
tracce.
Riprese
a seguire la scia di goccioline rosse. Prevedibilmente, essa scorreva
lungo gli edifici, nelle zone più in ombra. In alcuni punti
diventava più consistente, in altri si assottigliava al punto che
doveva frugare tutt’intorno con la torcia per ritrovarla.
Le
gocce però erano fresche, ancora lucide come piccoli rubini, segno
che il suo avversario non doveva essere poi così lontano.
Chissà,
forse si stava indebolendo? Non riusciva più a muoversi con la
consueta velocità? Immaginò il pilota, a sua volta stremato e
dolorante, che si dava da fare per sostenerlo. Quanto sarebbero
riusciti ad andare avanti, prima di crollare esausti?
Continuò
a seguire le tracce, che piegavano dietro le baracche e si dirigevano
verso il parcheggio degli automezzi.
Involontariamente
accelerò il passo: il parcheggio degli automezzi poteva voler dire
una sola cosa.
La
traccia rossa infatti si interrompeva all’improvviso, proprio in
corrispondenza di uno spazio vuoto fra due ambulanze.
The
Bishop evitò di farsi prendere dalla rabbia. Allontanò la nebbia
rossa che gli stava offuscando la vista, respirò a fondo un paio di
volte e si obbligò a fare il vuoto in mente.
Che
cosa voleva il Werwolf? Ovviamente tornare dietro le linee tedesche.
Avrebbe
potuto farlo con un banale autocarro? No, impossibile. Sarebbe stato
fermato e controllato dopo mezzo miglio al massimo.
C’era
però un campo d’aviazione non lontano, e guarda caso il ragazzetto
petulante era proprio un pilota.
§
Il
Werwolf spense il motore e disse: “Qui può andare bene.” Si
passò la mano sulla fronte e la ritrasse umida.
Anche
se era buio percepiva su di sé lo sguardo dell'ufficiale. Si girò
nella sua direzione: “Che c'è?”
“Lei
è ferito.” La voce aveva un tono di vago rimprovero.
“Ne
sono consapevole.”
“Non
vuole fare niente per medicarsi?”
Il
Werwolf emise un sospiro. “Sì, ora sì. Dovremmo essere abbastanza
sicuri.”
Il
giovane non replicò e la spia mantenne a sua volta il silenzio. Non
c'era niente di abbastanza
sicuro, purtroppo,
quando si aveva the Bishop alle calcagna.
La
voce dell'ufficiale lo richiamò alla realtà: “Andiamo nel
cassone. Se chiudiamo tutti i teli non si vedrà la luce.”
“Che
luce?”
“Dovrò
pur vedere qualcosa per medicarla, no?”
Il
Werwolf non rispose. Si limitò ad aprire la portiera e a scendere a
terra. L'aria era fresca e aveva un lieve odore di fiori selvatici e
limo. Quel poco che ricordava del paesaggio, appena una breve
panoramica nell'esiguo fascio di luce dei fari schermati, consisteva
in una macchia di alberi, un torrente e poco altro. Perlomeno le
piante avrebbero parzialmente nascosto l'ambulanza parcheggiata.
Aggirò
il veicolo e aprì a tentoni il portello posteriore. L'ufficiale, che
nel frattempo l'aveva raggiunto, brancolò con le mani nella voragine
nera del cassone alla ricerca di una fonte di luce. “Ci sono dei
tubi verticali,” constatò a bassa voce. “Come si fa a entrarci?”
“Sono
i sostegni delle barelle,” sussurrò il Werwolf. “Non ha mai
visto l'interno di un'ambulanza?”
“E
lei ha mai visto un pilota d'aeroplano ferito?”
“Che
intende dire?”
“O
bruciamo vivi o ci schiantiamo al suolo. In ogni caso, di solito
finiamo nelle fosse comuni, non nell'ospedale militare.”
L'agente
segreto non replicò. Si trovava ormai nella fase in cui anche una
risposta tagliente richiedeva più energie di quelle che poteva
permettersi di spendere. La ferita gli pulsava spedendogli in tutto
il corpo quella che sembrava un'infinita risacca di dolore, in cui
ogni onda arrivava sulla coda della precedente e prima di esaurirsi
veniva coperta dalla successiva.
Si
inerpicò a fatica nel veicolo, individuò al tatto una barella e vi
si lasciò cadere.
L'acqua
che gorgoglia fra le pietre è rossa di sangue. Anche le sue mani
sono piene di sangue, i suoi vestiti ne sono imbevuti.
Il
suo compagno incespica per l'ennesima volta, fa per rialzarsi ma si
accascia, mentre un filo rosso gli cola da un angolo della bocca,
gocciolando denso sul muschio della sponda.
Egli
lo tira per un braccio, cerca di farselo passare intorno alle spalle.
“Alzati,” ansima, e la parola suona come una preghiera. “Alzati,
dobbiamo andarcene.”
L'altro
prova a sollevarsi, egli ha la straziante certezza che lo faccia solo
per far piacere a lui.
“Alzati,”
ripete comunque.
Non
giunge risposta.
“Alzati,
per favore!”
Il
suo compagno tossisce, poi a fatica mormora: “Lasciami qui, la
missione è più importante.” Infila una mano malferma in una tasca
cucita all'interno della camicia, ne trae un piccolo contenitore
argentato. Glielo preme sul palmo con le ultime forze. “Ora ce
l'hai tu,” esala.
“No!
Per favore, lascia che ti aiuti, possiamo ancora far perdere le
nostre tracce.”
Per
tutta risposta, l'altro si adagia nel letto del torrente, con la
schiena appoggiata a una pietra. Gli tende la mano aperta e lui, dopo
un'esitazione, vi depone la Mauser.
“Per
favore,” tenta ancora una volta, senza riuscire a muovere un solo
passo lontano da colui col quale per anni ha condiviso ben più di
ogni missione.
“Va',
corri. Restituirò a the Bishop tutto il piombo che mi ha ficcato in
corpo.”
Quando
riaprì gli occhi, una debole luce rischiarava l'interno
dell'ambulanza. L'ufficiale sedeva sulla barella di fronte alla sua,
con una cassetta bianca aperta sulle ginocchia.
“Quanto
ho dormito?” gli chiese.
Il
giovane sollevò lo sguardo a incontrare il suo. “Pochi minuti.”
Senza aggiungere altro, trasse dal contenitore un paio di forbici e
cominciò a tagliargli la camicia, lasciando man mano cadere i lembi
di stoffa inzuppati di sangue.
Il
Werwolf li fissava in silenzio e non poteva fare a meno di pensare
che alla fine Reiner non era neppure riuscito a impugnare la pistola:
aveva detto quella frase solo per spingerlo ad andarsene.
L'avevano
ritrovato in seguito, riverso nel piccolo corso d'acqua. La Mauser
era accanto a lui, nel caricatore non mancava un solo colpo.
Forse
era morto appena lui gli aveva girato le spalle.
Si
proibì di sguazzare oltre nella gora di dolore che l'episodio gli
aveva scavato dentro: c'era una missione da portare a termine, il
resto non contava.
Si
rivolse all'ufficiale: “È molto grave?”
“Beh...”
“Risponda,
per favore.”
L'altro
alzò le spalle. “Di certo non ha un bell'aspetto. La pallottola le
è entrata nel fianco e mi pare che sia ancora dentro. Non ha
rigettato e non le esce sangue dalla bocca, da quel che so è buon
segno, ma ha perso comunque molto sangue.”
“Faccia
una medicazione stretta, per il momento potrà bastare.”
L'ufficiale
non replicò. Si limitò a estrarre dalla cassetta delle compresse di
garza, vi versò sopra del disinfettante e gliele applicò sulla
ferita.
Il
Werwolf strinse i denti al contatto dalla sostanza sulla carne viva,
ma per il resto rimase immobile. “Ora fermi la medicazione con una
fasciatura e stringa bene,” gli raccomandò.
“E
se le faccio male?”
“Vorrà
dire che ha stretto a dovere.”
Rimase
a osservarlo mentre estraeva dalla cassetta dei rotoli di bende e li
allineava accanto a sé. Aveva un'espressione concentrata,
addirittura severa, che per certi aspetti contrastava con i suoi
lineamenti ancora fanciulleschi. Si tirò indietro i capelli
scoprendo la fronte pallida e liscia.
Infine
si raddrizzò e disse: “Sono pronto. Riesce a mettersi seduto?”
Il
Werwolf guadagnò a fatica la posizione richiesta, l'altro cominciò
coscienziosamente ad avvolgerlo con strisce di garza.
“Stringa
di più,” disse a un certo punto l'agente segreto.
Il
giovane alzò gli occhi su di lui. “Ancora di più?”
“Non
voglio che si riapra la ferita.”
“D’accordo.”
Il
Werwolf si trovò a emettere un gemito soffocato mentre le bende
letteralmente gli mozzavano il respiro. “Così va bene,” disse,
notando l’espressione preoccupata dell’altro. “Ora vediamo
lei.”
Il
giovanotto parve stranito. “Io?”
“Che
cosa le ha fatto the Bishop?”
L’ufficiale
si limitò a distogliere lo sguardo stringendo le labbra.
“Ha
usato la frusta cosacca, non è così?”
“Sì.”
“Mi
faccia vedere.”
Con
qualche difficoltà, l’altro si fece scivolare giù dalle spalle
quel che restava della camicia e gli girò la schiena.
Il
Werwolf sollevò le sopracciglia: la pelle era un intersecarsi di
vibici appaiati a due a due, rossi, viola o addirittura sanguinanti.
Rivoli scarlatti scomparivano oltre la cintura dei pantaloni.
“Allora?”
volle sapere l’ufficiale.
“Credo
che le rimarrà qualche cicatrice” rispose l’uomo. Gli sfiorò il
dorso con la punta delle dita ed egli non poté fare a meno di
sussultare.
“Fa
male?”
“Sì.”
“Cercherò
di medicarla. Pensa di riuscire a pilotare un aereo in queste
condizioni?”
Il
giovane si voltò con una smorfia di dolore sul viso. “Certo.”
“Allora
partiamo appena ho finito.”
Alla
frase seguì qualche secondo di silenzio, poi di nuovo il tenente si
voltò a fissarlo e disse: “Ma è notte.”
“E
quindi?”
“Non
si può volare di notte. Non con un caccia, almeno.”
Il
Werwolf annuì. “Sì, immagino che chiunque conosca questa regola,
vero?”
“Mi
sembra ovvio.”
L'agente
segreto annuì. “Perfetto, e allora la conosce anche the Bishop.”
Alla
frase fece seguito un altro lungo silenzio. Infine l'ufficiale
obiettò: “Non posso volare se non vedo gli strumenti. Come faccio
ad esempio a capire quando raggiungo la velocità di decollo?”
“Si
affidi all'istinto. Non ce l'ha l'istinto per il volo, lei?”
L'altro
cercò di incrociare le braccia sul petto, ma dovette interrompere il
gesto con un grugnito di dolore. “L'istinto per il volo ce l'hanno
gli uccelli,” replicò.
“Se
lo faccia venire anche lei, ragazzo mio, altrimenti la nostra fuga
sarà brevissima.”
§
“La
fa facile, lei,” brontolò von Knobelsdorff.
“Silenzio.”
Il
tenente non replicò. Appiattito in un fosso, fissava davanti a sé
con una strana sensazione di disagio.
Conosceva
i campi d'aviazione. Ne amava l'ampiezza, il respiro. Trovava allegra
la manica a vento bianca e rossa che sventolava in un angolo, gli
piacevano le baracche dei segnalatori, era affascinato dagli hangar
sempre pieni di meccanici indaffarati, che perlopiù imprecavano
perché le cose non andavano mai come volevano che andassero.
Ma
soprattutto amava gli aerei: quando vedeva allineati quei Pegaso
magnifici, rombanti, con il muso orgogliosamente puntato verso
l'azzurro, era preso da una tale emozione che il cuore gli balzava
nel petto.
Sorrise
fra sé e sé al pensiero del cielo infinito.
Volse
nuovamente lo sguardo in avanti e il suo sorriso svanì. Quel campo
vuoto, immenso, spettrale sotto i freddi raggi della luna, sembrava
più un cimitero che un aeroporto.
C'era
calma di vento, tutto era cristallizzato in un'immobilità irreale.
Il verso di un uccello notturno risuonò lugubre in lontananza, poi
si ristabilì il silenzio.
Si
voltò verso l'agente segreto e colse la sua sagoma immobile,
intenta. Ebbe l'impressione di un predatore in agguato.
Un
fruscio sull'erba lo indusse ad appiattirsi. C'era una figura in
lento avvicinamento. Il passo era tranquillo, non comunicava né
tensione né allarme. Strinse gli occhi e si concentrò su di essa,
riuscendo a distinguere dopo un po' la sagoma di un elmetto
britannico e un moschetto portato a spallarm.
Il
soldato si fermò. Era così vicino che se avesse allungato la mano
avrebbe potuto toccarlo. Si frugò in tasca, ne trasse una sigaretta
e se l'accese mascherando la fiammella nel cavo della mano.
Von
Knobelsdorff si voltò di nuovo verso l'agente segreto ed ebbe la
consapevolezza che la sentinella stava fumando per l'ultima volta.
Un
istante dopo lo sentì scattare. La sigaretta rotolò sull'erba, ci
fu un breve tramestio, uno scricchiolare di ossa infrante, poi il
corpo esanime del soldato rotolò nel fosso.
“Prenda
la sua divisa,” ordinò l'uomo in un sibilo.
Il
tenente allungò cauto una mano fino a che non sentì sotto le dita
il panno ruvido dell'uniforme. Sotto la stoffa c'era anche quella che
gli parve una gamba.
La
voce dell'altro lo fece quasi sussultare: “Se va in rigor,
si scorda di riuscire a levargli di dosso qualcosa.”
Von
Knobelsdorff deglutì. Un conto erano i combattimenti in cielo, un
conto era spogliare un cadavere ancora caldo e mettersi addosso i
suoi vestiti.
Si
sforzò di pensare alla Patria, al fatto che se fossero riusciti ad
andarsene, presto avrebbe potuto tornare a volare. Magari sarebbe
anche riuscito ad ottenere quell'ultima, agognata vittoria e avrebbe
ricevuto il Pour le Mérite dalle mani di Sua Maestà in persona...
“Si
muova! Ha paura che la morda?”
“A
volte il suo cinismo è sconfortante.”
L'altro
non replicò. Egli si voltò come per sollecitare una risposta e si
accorse di essere rimasto solo.
Sentì
un brivido ghiacciato percorrergli la schiena, non tanto per il
poveretto accasciato nel fosso, quanto per il fatto che l'altro se
n'era andato. Per quanto si ripetesse che l'agente segreto non
avrebbe potuto scappare da nessuna parte – perlomeno con un aereo –
senza di lui, il fatto che fosse sgusciato via nel più totale
silenzio gli evocava una sorda angoscia.
Chi
poteva dire cos'era in grado di inventarsi quel demonio,
appropriatamente soprannominato Lupo Mannaro? Per quel che ne sapeva,
poteva anche essersi messo d'accordo con il suo avversario, i
doppiogiochisti non erano poi una specie così rara fra le spie.
Oppure poteva aver deciso di proseguire da solo, lasciandolo indietro
dopo aver stabilito che era solo un'inutile zavorra.
Continuò
a spogliare il morto, ringraziando che il buio gli impedisse di
vedere la sua faccia.
Era
impegnato nel farsi passare la camicia sulle spalle doloranti quando
la vista di un'altra sagoma in avvicinamento lo pietrificò.
Elmetto
a padella, moschetto, passo tranquillo. Quello che si stagliava
contro il debole chiarore lunare era un soldato inglese.
Di
nuovo l'angoscia gli serrò il petto. Che fare? Appiattirsi nel fosso
sperando che il soldato passasse oltre? Saltare su e cercare di
abbatterlo? Fingere di essere un inglese? Con il suo accento tedesco
non avrebbe ingannato nemmeno un sordo.
Ripensò
a quello che l'aveva interrogato: se l'avessero preso, lo avrebbero
sicuramente riportato da lui. Visto che non possedeva informazioni da
dargli, cosa gli avrebbe fatto? Lo avrebbe considerato prigioniero di
guerra o lo avrebbe fatto fucilare come spia?
Pur
immerso in quelle ansiose considerazioni, notò che l'uomo era
immobile più o meno dove si era fermato l'altro, e si stava
guardando lentamente intorno. Si chiese se stesse cercando il
commilitone.
Attese.
La
camicia ancora a metà della schiena, osava a malapena respirare.
Tante volte aveva sentito raccontare che la lepre, restando immobile,
ingannava persino i segugi, che le passavano a un palmo di distanza e
non si accorgevano della sua presenza. Si augurò che la stessa cosa
fosse valida anche per gli umani.
L'uomo
fece un passo avanti.
Egli
si decise in un attimo. Saltò su ignorando il dolore e gli si lanciò
contro, solo per trovarsi una frazione di secondo dopo col dorso a
terra, una mano sulla gola e l'altra sulla bocca, a soffocare il
lamento che il duro impatto con il suolo gli aveva suscitato.
“Smetta
di fare lo stupido,” lo redarguì l'agente segreto.
“Mi
sta facendo male,” protestò von Knobelsdorff, divincolandosi per
liberarsi dalla stretta.
“C'è
chi gliene farà molto di più, se non riusciamo ad andarcene da
qui.”
Camminando
uno accanto all’altro con passo misurato, si avvicinarono
all'hangar principale.
Von
Knobelsdorff fissava di tanto in tanto di sottecchi la pista, o
perlomeno il sipario di buio dietro cui immaginava si trovasse la
pista. E se avesse sbagliato direzione? E se avesse sfasciato il
carrello in una buca? Se avesse staccato troppo tardi e fosse finito
sugli alberi?
Concluse
che era inutile pensare a tutte quelle eventualità. Del resto, anche
quando decollava per i normali voli di guerra, lo faceva con un
larghissimo margine di rischio.
Stava
forse a preoccuparsi, in quei frangenti, degli inglesi che avrebbero
potuto sparargli, dei guasti meccanici o di altre faccende del
genere?
Ovviamente
no.
Dietro
il portellone dell'hangar si indovinava una debole luce, segno che
qualche meccanico stava già lavorando sui motori.
Quella
constatazione, unita al vago odore di benzina che si cominciava a
percepire e al battere familiare di un martello su qualcosa di
metallico, ebbe il potere di dissolvere ogni sua inquietudine.
Lo
pervase una freddezza pacata, atarassica, che quasi fece scomparire
il dolore che fino a quel momento gli aveva spedito a ogni passo
brividi ghiacciati in tutte le membra.
Fecero
scorrere la porta quel tanto da infilarsi dentro.
Il
martellare si interruppe. “Chiudi!” urlò qualcuno, poi il lavoro
riprese.
Il
tenente gettò un rapido sguardo intorno: dei Sopwith Pup, dei
Bristol Scout e un ricognitore RE8. Indicò l’ultimo all’agente
segreto e annuì un paio di volte.
L’altro
annuì a sua volta, poi scivolò silenzioso verso il banco officina.
L’ufficiale
non si mosse. Sapeva cosa sarebbe successo, ma uccidere i soldati
nemici faceva parte della guerra e del resto c’era poca differenza
tra il pilota che premeva il grilletto della mitragliatrice e
l’armiere che gliela metteva in condizioni di sparare. Entrambi
combattevano contro la Germania.
Udì
un breve tramestio, un tintinnare metallico al suolo e il rumore di
qualcosa di pesante che veniva trascinato. Dopo qualche secondo
ricomparve l’agente segreto. “Fatto,” annunciò conciso.
Il
tenente annuì. Si avvicinò all’aereo, ne percorse la struttura
alla ricerca del tappo del serbatoio e quando lo ebbe trovato, lo
svitò e vi guardò dentro. “Serve benzina,” disse poi. Si guardò
intorno e individuò un barile di metallo montato su un supporto a
ruote, già munito della pompa di estrazione. “Quello.”
Travasarono
il carburante. L’agente segreto a quel punto occhieggiò le
mitragliatrici e chiese: “Sono cariche quelle?”
“No,
vengono caricate poco prima della missione, per evitare
inceppamenti.”
“Meglio
provvedere, allora.”
Il
tenente individuò le casse di munizioni. Da una parte non avevano
tempo, ma dall’altra in effetti non piaceva neanche a lui l’idea
di essere in volo senza nemmeno una fionda per difendersi.
Caricarono
tutte le armi, poi il tenente tolse i tacchi da sotto le ruote e andò
a recuperare le cuffie e gli occhiali che i meccanici usavano per i
voli di prova.
Quando
tutto fu pronto, egli disse: “Ora mi stia bene a sentire: apriamo
le porte dell’hangar senza far rumore, poi io salgo su. Quando le
dico ‘contatto’, lei deve dare un colpo all’elica.” Si
interruppe per mimare il gesto. “Ma sia svelto a tirare via le
mani, se non vuole trovarsele amputate. Poi salga dietro e lasci fare
a me.”
L’agente
segreto annuì. “Va bene.”
“Il
colpo deve essere energico. Pensa di farcela con quella ferita al
fianco?”
“Sì.”
“Sicuro?
Se il motore si ingolfa rimaniamo bloccati qui come due idioti.”
L’uomo
gli rivolse uno sguardo tagliente e gli chiese: “Vede alternative?”
“Andiamo
ad aprire l’hangar,” disse il tenente per tutta risposta.
Il
portellone spalancato era come una voragine sul nulla. Dopo la pur
debole luce dell’interno, si stentava a credere che al di là ci
fosse altro che un infinito abisso di buio.
Von
Knobelsdorff rivolse un ultimo sguardo all’agente segreto, si
accertò che si fosse collocato nella posizione corretta davanti
all’elica, quindi si arrampicò nell’abitacolo.
“Contatto!”
esclamò sporgendosi da una parte.
L’uomo
afferrò una pala e la spinse verso il basso. L’elica diede due o
tre giri, il motore tossì un paio di volte, poi si fermò.
Il
tenente si obbligò a rimanere calmo. Forse
non sa quanta forza ci vuole,
si disse, forse è
rimasto spiazzato.
“Contatto!”
ripeté.
L’elica
diede un solo giro svogliato, poi si fermò. Cominciarono a levarsi
vapori di benzina.
Merda,
pensò von Knobelsdorff, riconoscendo i sintomi di un imminente
ingolfamento. Si sporse di lato e disse: “Riproviamo, ci metta
tutta la sua forza: contatto!”
In
quel momento apparve nel vano della porta un uomo in borghese, dalla
faccia pallida, con i capelli neri. Stringeva in mano una pistola.
“Contatto!”
ripeté ansiosamente l’ufficiale.
L’altro
diede il terzo colpo all’elica. Il motore tossì un paio di volte
ed emise un pennacchio di fumo biancastro. Per un attimo sembrò
volersi fermare di nuovo, ma subito dopo cominciò a funzionare
regolarmente.
Von
Knobeldsorff aumentò i giri, si udì uno sparo e dall’aereo
accanto all’RE8 schizzarono via schegge di legno. L’agente
segreto aggirò di corsa la semiala, vi balzò sopra e si lasciò
cadere nell’abitacolo dell’osservatore.
Il
tenente diede tutta manetta, il rombo del motore si fece assordante e
l’aereo si lanciò in avanti.
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