Nell’abbraccio del nemico

di Nadine_Rose
(/viewuser.php?uid=78084)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.



ImagesTime.com - Free Images Hosting

Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come immagino Sarah ed Hermann nel 1947.

 

Capitolo 50

 

L’inizio della fine

 

“Ma questo amore, amore, non è finito,

e così come non ebbe nascita,

non ha morte, è come un lungo fiume,

cambia solo di terra e labbra.”

Pablo Neruda, Amore mio, se muoio e tu non muori

 

Nella debolezza di un singhiozzo malamente trattenuto, la forza di farle dimenticare il suo peccato di collaborazione alla strage dei sessantasette innocenti. Questi sarebbero a lui riapparsi come fantasmi, quando, confrontandosi col passato, la consapevolezza della colpa generò pentimento.

Come se non ci fosse stata alcuna interruzione, l’abbraccio cambiò sfondo. Dalla finestra della camera di Hermann, il vento caldo dell’estate portò le note di una musica lontana, forse solo immaginata – giacché alle orecchie d’ambedue non giungeva la medesima melodia –, sulle quali i loro corpi presero a ondeggiare, stretti l’uno all’altro per un tempo indefinito, ristorandosi dopo la lunga, seppur breve, separazione.

Danza di anime, fusione dei cuori e, sprofondato nel suo petto fasciato dalla camicia, il viso di Sarah era, adesso, asciutto di lacrime. Un melanconico stupore le balenò negli occhi, quando lui la fece distanziare, prendendola delicatamente per mano. Voleva, infatti, che quel momento, così lontano dalla realtà di Fossoli, perdurasse all’infinito.

Nello spazio stretto di un abbraccio, Hermann aveva sperimentato una sensazione di libertà e si abbandonò alla leggerezza dell’essere, facendola girare su se stessa. Roteò la gonna del vestito a fiori di prato, regalo suo e fluttuarono i lunghi capelli semi raccolti, come in una sequenza d’immagini a rallentatore che culminò con la visione di un lieve sorriso di sollievo.

Ricambiò, sorridendole più ampiamente e lei ne impresse negli occhi l’immagine che al cuore avrebbe riportato nei momenti più bui, quando la consapevolezza della sconfitta tedesca esacerbava l’animo di Hermann e la paura della loro fine la affliggeva, svigorendola.

Tra agosto e novembre, l’avvicinarsi degli Alleati e l’intensificarsi delle attività partigiane furono determinanti per il trasferimento del campo a Gonzaga, decretando l’inizio della fine che, già annunziata e scandita dal rumore delle bombe aeree alleate, trovò compimento in una notte di dicembre, col sangue di lui sulla neve, la sua nuca fracassata dal calcio del mitra di un partigiano.

La pellicola si riavvolse, come un film muto a ritroso e, volteggiando sorridente in senso contrario, era di nuovo fra le sue braccia a ondeggiare sulle note del cuore che cantava una melodia senza parole né suoni, accompagnata dal solo leggero soffio della brezza estiva.

 

Napoli, 20 aprile 1947

 

Durante il tragitto verso casa, l’accompagnava un silenzio di vuoto e d’assenza. Matteo non era più l’amore.

Si spegneva il suono di fondo del mare e del vociare delle persone godenti il primo sole di primavera, soffocato dal ritmo affannoso del suo respiro. Lei era qualche passo avanti, lontana dal cuore.

Maschera di un profondo dolore, la rabbia le corrugava il viso arrossato dallo schiaffo e dal riuscito tentativo di zittirla, tappandole con forza la bocca e muoveva i suoi passi in un incedere risoluto che lui neanche si sforzava di sostenere, sopraffatto da una sensazione di disagio che ambedue ignoravano fosse vergogna. Lei non poteva immaginarlo, lui, invece, accettarlo per orgoglio.

Tremanti, le dita di Sarah faticavano ad aprire la serratura della porta di casa e il fastidioso tintinnio di metallo del mazzo di chiavi non faceva che accrescere la sua concitazione. Scalpitava per nascondersi da lui, dalla verità sul suo matrimonio.

Un cigolio accompagnò l’agognata apertura della porta e, prima che Matteo potesse sfiorarle un braccio, lo allontanò col gomito, in un gesto manchevole di forza ma pregno di dispregio.

A passo spedito, si diresse verso il bagno e, sbattendo la porta alle sue spalle, sospirando pesantemente, promise a se stessa che mai più si sarebbe fatta toccare da lui e che lo avrebbe ripagato con lo stesso silenzio che le era stato imposto.

Lanciò nel lavandino la giacchettina color panna e prese a strofinarla energicamente, più per sfogarsi e temporeggiare che per l’urgenza di togliere le macchie di sangue e sul suono dell’acqua corrente si concentrò, affinché smettesse di udire la voce di Matteo che invocava il suo nome.

D’altronde, lui sperava di restare inascoltato, non sapendo cosa dirle, giacché una parte di sé credeva di essere nel giusto e fu essa ad allontanarlo dalla porta. Raggiunse la camera da letto e, concitatamente, indossò gli abiti da lavoro, smanioso di sedare in mare la sua tempesta interiore. L’altra parte di sé temeva che avrebbe potuto farle di nuovo del male e lo sollecitava a sfuggire da lei, da se stesso.

Con movimenti quasi impercettibili, Sarah riapparve, presentandosi a lui scalza, con indosso il vestito rosa schizzato d’acqua, col volto cereo come quello di un fantasma e lo sguardo fisso nel vuoto. Sedette ai piedi del letto e congiunse in grembo le mani, chinando il capo e preparandosi a infrangere la promessa del silenzio.

“Ti dirò soltanto una cosa, poi non sentirai più la mia voce.” Le parole le fuoriuscivano dalla bocca tremule e austere al tempo stesso. “Puoi anche ammazzarmi di botte, ma io andrò al matrimonio dei miei amici.”

Alzò la testa e rivolse gli occhi verso l’uscio della stanza, dov’era Matteo fermo e inerme a subire la propria rabbia di cui lei ignorava la vera causa scatenante.

Con un tono di voce inasprito da quell’ostentata fierezza che le teneva frenato il pianto, lo sfidò, dicendogli: “Tu non sai cosa ho dovuto affrontare nella vita.”

“O chi”, ribatté e fu lui a rievocare il fantasma del passato nella sacralità della loro camera nuziale.

Con uno scatto stizzoso, le volse le spalle e, stringendo forte denti e pugni, a lunghe falcate, percorse il corridoio.

Sarah capì subito a chi si riferisse, domandandosi, tuttavia, perché lo avesse velatamente menzionato in quel frangente. Lo sbattere della porta di casa la fece sobbalzare nel materasso e riemergere dal vortice dei ricordi, dov’era già sprofondata.

La pellicola della sua vita si riavvolse velocemente per poi rallentare, fino a fermarsi sul fotogramma di una giravolta. E fu di nuovo fra le braccia di Hermann.

 

“Finimmo prima che lui ci finisse,

perché quel nostro amore non avesse fine.

Volevo averti e solo allora mi riuscì,

quando mi accorsi che ero lì per perderti.”

 

Claudio Baglioni, Mille giorni di te e di me 

 





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3975564