Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come
immagino Sarah ed Hermann nel 1947.
Capitolo 50
L’inizio della fine
“Ma questo amore, amore, non è finito,
e così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra.”
Pablo Neruda, Amore mio, se muoio e tu non muori
Nella
debolezza di un singhiozzo malamente trattenuto, la forza di farle dimenticare
il suo peccato di collaborazione alla strage dei sessantasette innocenti.
Questi sarebbero a lui riapparsi come fantasmi, quando, confrontandosi col
passato, la consapevolezza della colpa generò pentimento.
Come
se non ci fosse stata alcuna interruzione, l’abbraccio cambiò sfondo. Dalla
finestra della camera di Hermann, il vento caldo dell’estate portò le note di
una musica lontana, forse solo immaginata – giacché alle orecchie d’ambedue non
giungeva la medesima melodia –, sulle quali i loro corpi presero a ondeggiare,
stretti l’uno all’altro per un tempo indefinito, ristorandosi dopo la lunga,
seppur breve, separazione.
Danza
di anime, fusione dei cuori e, sprofondato nel suo petto fasciato dalla
camicia, il viso di Sarah era, adesso, asciutto di lacrime. Un melanconico
stupore le balenò negli occhi, quando lui la fece distanziare, prendendola
delicatamente per mano. Voleva, infatti, che quel momento, così lontano dalla
realtà di Fossoli, perdurasse all’infinito.
Nello
spazio stretto di un abbraccio, Hermann aveva sperimentato una sensazione di
libertà e si abbandonò alla leggerezza dell’essere, facendola girare su se stessa. Roteò la gonna del vestito a fiori di prato,
regalo suo e fluttuarono i lunghi capelli semi raccolti, come in una sequenza
d’immagini a rallentatore che culminò con la visione di un lieve sorriso di
sollievo.
Ricambiò,
sorridendole più ampiamente e lei ne impresse negli occhi l’immagine che al
cuore avrebbe riportato nei momenti più bui, quando la consapevolezza della
sconfitta tedesca esacerbava l’animo di Hermann e la paura della loro fine la
affliggeva, svigorendola.
Tra
agosto e novembre, l’avvicinarsi degli Alleati e l’intensificarsi delle
attività partigiane furono determinanti per il trasferimento del campo a
Gonzaga, decretando l’inizio della fine che, già annunziata e scandita dal
rumore delle bombe aeree alleate, trovò compimento in una notte di dicembre,
col sangue di lui sulla neve, la sua nuca fracassata dal calcio del mitra di un
partigiano.
La
pellicola si riavvolse, come un film muto a ritroso e, volteggiando sorridente
in senso contrario, era di nuovo fra le sue braccia a ondeggiare sulle note del
cuore che cantava una melodia senza parole né suoni, accompagnata dal solo
leggero soffio della brezza estiva.
Napoli,
20 aprile 1947
Durante
il tragitto verso casa, l’accompagnava un silenzio di vuoto e d’assenza. Matteo
non era più l’amore.
Si
spegneva il suono di fondo del mare e del vociare delle persone godenti il
primo sole di primavera, soffocato dal ritmo affannoso del suo respiro. Lei era
qualche passo avanti, lontana dal cuore.
Maschera
di un profondo dolore, la rabbia le corrugava il viso arrossato dallo schiaffo
e dal riuscito tentativo di zittirla, tappandole con forza la bocca e muoveva i
suoi passi in un incedere risoluto che lui neanche si sforzava di sostenere,
sopraffatto da una sensazione di disagio che ambedue ignoravano fosse vergogna.
Lei non poteva immaginarlo, lui, invece, accettarlo per orgoglio.
Tremanti,
le dita di Sarah faticavano ad aprire la serratura della porta di casa e il
fastidioso tintinnio di metallo del mazzo di chiavi non faceva che accrescere
la sua concitazione. Scalpitava per nascondersi da lui, dalla verità sul suo
matrimonio.
Un
cigolio accompagnò l’agognata apertura della porta e, prima che Matteo potesse
sfiorarle un braccio, lo allontanò col gomito, in un gesto manchevole di forza
ma pregno di dispregio.
A
passo spedito, si diresse verso il bagno e, sbattendo la porta alle sue spalle,
sospirando pesantemente, promise a se stessa che mai
più si sarebbe fatta toccare da lui e che lo avrebbe ripagato con lo stesso
silenzio che le era stato imposto.
Lanciò
nel lavandino la giacchettina color panna e prese a strofinarla energicamente,
più per sfogarsi e temporeggiare che per l’urgenza di togliere le macchie di
sangue e sul suono dell’acqua corrente si concentrò, affinché smettesse di
udire la voce di Matteo che invocava il suo nome.
D’altronde,
lui sperava di restare inascoltato, non sapendo cosa dirle, giacché una parte
di sé credeva di essere nel giusto e fu essa ad allontanarlo dalla porta.
Raggiunse la camera da letto e, concitatamente, indossò gli abiti da lavoro,
smanioso di sedare in mare la sua tempesta interiore. L’altra parte di sé
temeva che avrebbe potuto farle di nuovo del male e lo sollecitava a sfuggire
da lei, da se stesso.
Con
movimenti quasi impercettibili, Sarah riapparve, presentandosi a lui scalza,
con indosso il vestito rosa schizzato d’acqua, col volto cereo come quello di
un fantasma e lo sguardo fisso nel vuoto. Sedette ai piedi del letto e
congiunse in grembo le mani, chinando il capo e preparandosi a infrangere la
promessa del silenzio.
“Ti
dirò soltanto una cosa, poi non sentirai più la mia voce.” Le parole le
fuoriuscivano dalla bocca tremule e austere al tempo stesso. “Puoi anche
ammazzarmi di botte, ma io andrò al matrimonio dei miei amici.”
Alzò
la testa e rivolse gli occhi verso l’uscio della stanza, dov’era Matteo fermo e
inerme a subire la propria rabbia di cui lei ignorava la vera causa scatenante.
Con
un tono di voce inasprito da quell’ostentata fierezza che le teneva frenato il
pianto, lo sfidò, dicendogli: “Tu non sai cosa ho dovuto affrontare nella
vita.”
“O
chi”, ribatté e fu lui a rievocare il fantasma del passato nella sacralità
della loro camera nuziale.
Con
uno scatto stizzoso, le volse le spalle e, stringendo forte denti e pugni, a
lunghe falcate, percorse il corridoio.
Sarah
capì subito a chi si riferisse, domandandosi, tuttavia, perché lo avesse
velatamente menzionato in quel frangente. Lo sbattere della porta di casa la
fece sobbalzare nel materasso e riemergere dal vortice dei ricordi, dov’era già
sprofondata.
La
pellicola della sua vita si riavvolse velocemente per poi rallentare, fino a
fermarsi sul fotogramma di una giravolta. E fu di nuovo fra le braccia di
Hermann.
“Finimmo prima che lui ci finisse,
perché quel nostro amore non avesse fine.
Volevo averti e solo allora mi riuscì,
quando mi accorsi che ero lì per perderti.”
Claudio Baglioni, Mille giorni di te e di me